Danno morale

Tu sei qui:

Questa voce è stata curata da Andrea Ranfagni

 

Definizione

Il danno morale costituisce una delle tante voci di danno che possono derivare da comportamenti illegittimi e lesivi del datore di lavoro, che possono così incidere sul normale corso della vita lavorativa.

 

Scheda di approfondimento

Il danno morale è normalmente definito dalla giurisprudenza come “l’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato o anche nel patema d’animo o stato d’angoscia transeunte generato dall’illecito” (Cass. n. 10393/2002).
Con il danno morale si va dunque ad intaccare quello che è lo stato d’animo del lavoratore, consentendo il ristoro di tutti quei turbamenti, quali ansie ed angosce, che derivano al prestatore dall’aver subito un illecito da parte del proprio datore di lavoro.

La cosa fondamentale è che il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferto, come ad esempio quello della persona diffamata o lesa nella identità personale, non degeneri in patologie, poiché altrimenti non siamo più nel danno morale, ma in un altro tipo di danno che è quello biologico.
Nulla toglie comunque che siano configurabili contemporaneamente entrambi. Il danno in commento in sé e per sé considerato, però, non è quello che genera patologie cliniche lesive del diritto alla salute del lavoratore.

Il danno morale costituisce una categoria civilistica e trova fonte nell’art. 2059 del codice civile in materia di danno non patrimoniale.
E’ dunque una voce di danno validae per tutti i rapporti privati in generale, ma che acquista poi una grossa rilevanza specifica nell’ambito del rapporto di lavoro.

In particolare, prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 26972/2008, si usava effettuare una serie di distinzioni tra “categorie” di danno.
La prima grossa distinzione (che tutt’oggi permane) è quella tra “danno patrimoniale”, il quale trova fonte nell’art. 2043 c.c., e “danno non patrimoniale”, il quale abbiamo detto trova fonte nell’art. 2059 c.c..

All’interno di quest’ultima macrocategoria, si individuavano poi tre sottocategorie:

Con la sentenza appena richiamata, tali tre sottocategorie sono in realtà venute meno ed oggi si parla soltanto unitariamente di “danno non patrimoniale”, secondo una interpretazione strettamente letterale dell’art. 2059 c.c..
In base a quest’ultima norma infatti “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. Questo significa “tipicità” del danno non patrimoniale, quindi soltanto se la legge per il caso particolare che interessa riesce a configurare un danno non patrimoniale, è possibile chiederne il risarcimento.
Per fortuna il concetto di “legge” lo s’intende onnicomprensivo di tutte le fonti, quindi anche della Costituzione.
Ecco allora che se una condotta illecita del datore di lavoro è lesiva di un bene costituzionalmente garantito, l’art.2059 c.c. risulterà rispettato e quindi potrà essere chiesto il risarcimento.

Per quanto riguarda il danno morale, però, diversamente dal danno esistenziale e dal danno biologico, non è configurabile alcun bene costituzionalmente protetto.
Ecco che allora, grazie alla ricostruzione giurisprudenziale affermatasi nel corso degli anni, il danno morale viene direttamente ricondotto all’art. 185 codice penale, e quindi al danno risarcibile nei confronti delle vittime di un reato, le quali possono chiedere il ristoro per il turbamento dello stato d’animo derivante dall’aver subito un reato.
Deriva da ciò che il lavoratore potrà ottenere il risarcimento del danno morale soltanto se il comportamento illecito del datore di lavoro sia ascrivibile agli estremi di un reato. Ciò, in particolare, avviene nelle ipotesi di mobbing, di demansionamento talmente prolungato da integrare la fattispecie di lesioni colpose ovvero nelle ipotesi di licenziamento ingiurioso o diffamatorio.
Questa, ad ogni modo, era l’interpretazione prevalente del danno morale presente anche prima della sentenza delle sezioni unite del 2008.
Il cambiamento quindi, è soltanto formale, nel senso che non si parla più di danno morale ma di una onnicomprensiva categoria di danno non patrimoniale.

Nella sostanza però il danno morale rimane sempre e comunque il danno derivante da un comportamento integrante gli estremi di un reato.
E’ bene chiarire, comunque, come la giurisprudenza abbia precisato che non è necessario, ai fini della richiesta di risarcimento del danno morale, che sussista una sentenza di condanna del giudice penale; ciò che importa è la commissione di un fatto astrattamente previsto dalla legge come reato (Cass. n. 16305/2003).
Conseguentemente, la richiesta risarcitoria in questione potrà avvenire anche qualora il reato sia estinto e, segnatamente, anche quando tale effetto sia determinato dalla decorrenza del tempo necessario a prescriverlo, secondo la disciplina di cui agli artt. 157 e ss. c.p..
Analogamente, si ritiene che non sia necessario il positivo accertamento della colpa dell’autore del danno morale se essa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato (Cass. n. 7283/2003).

Un problema particolare è poi rappresentato dalla “liquidazione” del danno morale, quindi dalla quantificazione del relativo risarcimento. Normalmente, stante la frequente coincidenza del danno morale con il danno biologico, la giurisprudenza tende a liquidare il primo in un terzo o nella metà del secondo.
Il problema si pone quando è configurabile solo il danno morale. In questi casi gli orientamenti prevalenti sono quelli secondo cui in tema di risarcimento del danno morale, la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale sfugge necessariamente ad una valutazione analitica, restando affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi.
Il giudice è comunque tenuto ad indicare i criteri seguiti per una quantificazione che sia proporzionata alla gravità del reato ed all’entità delle sofferenze patite dalla vittima, tenendo conto di tutti gli elementi della fattispecie, tra cui l’età, il sesso, il grado di sensibilità del danneggiato, la gravità ed entità dell’offesa in sé.
Nel caso in cui il fatto sia lesivo dell’onore e della reputazione acquista rilevanza altresì, quale elemento che il giudice deve considerare nella sua valutazione discrezionale ed equitativa, la condizione sociale della vittima in rapporto alla sua collocazione professionale.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di danno morale

  1. Il lavoratore ingiustamente licenziato, che non abbia ottenuto l’adempimento della sentenza di reintegra e del correlativo risarcimento del danno, ha diritto al risarcimento del danno ulteriore qualificabile come danno morale, ove provi il patema conseguente all’incertezza determinata dall’impossibilità di poter mantenere la sua famiglia e alla necessità di ricorrere a prestiti; tale danno morale può essere quantificato in via equitativa in misura proporzionale alla retribuzione (nella fattispecie liquidato in 400 euro mensili pari all’incirca il 40% della retribuzione in godimento). (Trib. Milano 23/12/2008, Est. Di Leo, in D&L 2009, con nota di Stefano Muggia, “L’art. 18 SL e il risarcimento del danno ulteriore rispetto alle retribuzioni”. 819)
  2. Non esiste incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, poiché la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. (Cass. 8/5/2007 n. 10441, Pres. De Luca Est. Maiorana, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di G. Cannati, “Questioni in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro”, 571)
  3. In presenza di una fattispecie contrattuale che, come nelle ipotesi del contratto di lavoro, obblighi uno dei contraenti (il datore) a prestare una particolare protezione volta ad assicurare l’integrità fisica e psichica dell’altro (art. 2087 c.c.) non può sussistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, atteso che la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. (Cass. 10/1/2007 n. 238, Pres. Senese Est. De Matteis, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Dario Simeoli, “Presunzione di colpa e danno morale; danno biologico e invalidità lavorativa specifica”, 670)
  4. Il lavoratore che richiede al datore di lavoro il risarcimento del danno morale soggettivo connesso al turbamento causato dall’esposizione ad agenti patogeni durante la prestazione lavorativa è tenuto a fornire la prova, anche attraverso il riferimento a circostanze esterne idonee a testimoniare la sussistenza di un’effettiva situazione di sofferenza e disagio, la quale non può essere desunta dalla mera prestazione lavorativa in ambiente inquinato. (Cass. 6/11/2006 n. 23642, Pres. Sciarelli Est. D’Agostino, in ADL 2007, con nota di Fabio Pantano, “La prova del danno morale soggettivo”, 534)
  5. Il risarcimento del danno morale in favore del soggetto danneggiato per lesione del valore della persona umana costituzionalmente garantito prescinde dall’accertamento di un reato in suo danno. (Cass. 21/6/2006 n. 14302, Pres. senese Est. Di Cerbo, in D&L 2006, 807)
  6. Con riferimento al danno morale derivante da infortunio sul lavoro, grava sul lavoratore l’onere di provare la colpa del datore di lavoro nella commissione del fatto illecito costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza statuito dall’art. 2087 c.c., non essendo applicabile la presunzione legale di colpa di cui all’art. 1218 c.c. a fattispecie che presuppongono la responsabilità penale del datore di lavoro. (Cass. 26/10/2002, n.15133, Pres. Senese, Est. De Luca, in Foro it. 2003, parte prima, 505)
  7. Le parole presuntuoso, sleale, arrogante, espressa da un superiore gerarchico, ancorché inserite in un rapporto volto ad esprimere le qualità morali ed il carattere del dipendente, hanno nell’accezione comune connotazioni offensive, le quali, soprattutto in atti ufficiali, devono essere risparmiate fin dove possibile. La forma è infatti decisiva a far accettare inevitabili giudizi spiacevoli e, quindi, la tenuta dei rapporti in quella difficile comunità che è l’ambiente di lavoro. Ne consegue il diritto del lavoratore al risarcimento del danno morale derivante dal fatto-reato. (Corte d’appello Milano 23/7/2002, Est. De Angelis, in Lav. nella giur. 2003, 187)
  8. In caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 c.p.), il danno morale soggettivo lamentato dai soggetti che si trovano in una particolare situazione (in quanto abitano e/o lavorano in detto ambiente) e che provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenza e patemi d’animo) di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione all’integrità psico-fisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all’offesa all’ambiente ed alla pubblica incolumità, anche l’offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale. Il danno morale può intendersi provato se il danneggiato sia rimasto coinvolto in un grave clima di allarme prodotto da un disastro, riportandone un perturbamento psichico che fu conseguenza della sottoposizione a controlli sanitari, resi necessari dall’insorgenza di sintomi preoccupanti. Gli accertamenti sanitari, se numerosi e documentati, se non valgono a dimostrare danni nella sfera della salute causalmente accertati, depongono a confermare quello stato di perturbamento psichico, da disagio e preoccupazione duraturi nel tempo, che è l’essenza del danno morale (fattispecie di residente in territorio del Comune di Severo di danni richiesti in relazione ad episodio di disastro ambientale). (Cass. S.U. 21/2/02, n. 2515, pres. Marvulli, est. Varrone, in Lavoro e prev. oggi 2002, pag. 579)
  9. Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt. 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare “incidenter tantum” l’esistenza del reato – nel caso di ingiuria, riscontrato insussistente in sede di merito – nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l’autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis Cass. 14/2/00, n. 1643) (Cass. 6/11/00, n. 14443, pres. Trezza, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2287)
  10. L’offesa della personalità morale del dipendente, attuata dal datore di lavoro direttamente o da un suo esposto, dà luogo a una sofferenza morale, che è fonte di obbligazione risarcitoria per responsabilità sia aquiliana, sia contrattuale ex art. 2087 c.c. (Trib. Milano 2 novembre 1999, est. Frattin, in D&L 2000, 373, n. Mazzone, Lesione di beni immateriali e poteri del Giudice)
  11. Non sono risarcibili i danni morali ai congiunti del danneggiato in caso di lesioni anche gravissime. Detto orientamento si basa sul riferimento all’art. 1223 c.c. che esclude la risarcibilità dei danni indiretti, osservando al riguardo che la lesione fa soffrire immediatamente e direttamente il danneggiato e solo in via mediata e indiretta i suoi congiunti (Cass. 23/2/99, n. 2037, pres. Grieco, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 468, con nota di Guerra, Riflessioni sul danno biologico. Spunti critici in tema di risarcibilità del danno biologico iure hereditatis (o successionis) e iure proprio)