Divieto di indagini datoriali sul lavoratore

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Questa voce è stata curata da Caterina Camposano

Scheda sintetica

L’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) fa “divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.

La disposizione in commento, insieme agli artt. 2, 3, 4, 5, 6 Stat. Lav., delimita il potere datoriale attinente alla verifica della corretta esecuzione della prestazione lavorativa, in attuazione del principio costituzionale ex art. 41, c. 2, Cost., secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la dignità umana. In effetti, l’art. 8 St. Lav. è nato con l’obiettivo di porre fine ad una prassi del passato di schedatura del personale, favorendo la tutela della dignità e, in particolare, della riservatezza del lavoratore.

Il diritto alla riservatezza codificato dall’art. 8 St. Lav. ha risentito del sovrapporsi della legislazione successiva in tema di protezione dei dati personali: in effetti, il diritto alla riservatezza si iscrive oggi nel più ampio diritto del lavoratore a mantenere il controllo sui propri dati personali, concetto a cui si allude quando si discorre di privacy.

Pertanto, se di privacy si discorre, qualsiasi indagine effettuata dal datore di lavoro incidente sulla riservatezza del lavoratore si identifica in una forma di trattamento di dati personali, che inizia con la raccolta dei dati e termina con la loro distruzione, nel rispetto della specifica disciplina dettata in materia. Come noto, infatti, la fattispecie del “trattamento dei dati personali” trova il proprio addentellato normativo nel c.d. Codice della privacy, (C.d.p.) d.lgs. n. 196/2003, modificato dal d.lgs. n. 101 /2018, nonché nel c.d. RPDR, Regolamento dell’Unione Europea 2016/679/UE.

Si impone, pertanto, una rapida disamina del rapporto sussistente tra il divieto d’indagini ex art. 8 St. Lav. e la normativa posta a protezione dei dati personali.

La normativa sulla privacy è intesa quale legge generale che trova applicazione nei limiti di compatibilità delle disposizioni statutarie, espressamente fatte salve dalla normativa privacy stessa. In effetti, la perdurante vigenza dell’art. 8 St. Lav. è sancita espressamente dall’art. 113 C.d.p. rubricato “raccolta dei dati e pertinenze” il quale dispone che “Resta fermo quanto disposto dall’articolo 8 della Legge 20 maggio 1970 n. 300…”. Pertanto, in generale tutte le indagini effettuate dal datore di lavoro (in trattamento di dati) sono soggette alle regole prescritte dalla normativa sulla privacy; in particolare, le indagini finalizzate ad acquisire opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore o finalizzare ad acquisire fatti che non rilevano ai fini della valutazione dell’attitudine professionale, sono soggette al divieto dell’art. 8 St. Lav..

Scheda di approfondimento

Oggetto del divieto, violazione e conseguenze sanzionatorie

L’art. 8 St. Lav., riferendosi alle indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, circoscrive con precisione l’oggetto del divieto mirando a rendere inaccessibili al datore di lavoro i dati che possano rivelare il nucleo della personalità del lavoratore (tali dati, infatti, sono definiti dati “supersensibili”); la stessa disposizione tuttavia, alludendo in modo generico alla “attitudine professionale” del lavoratore, non definisce l’ampiezza della vita privata suscettibile di controllo. La locuzione “attitudine professionale”, infatti, comprende sia le idoneità psicofisiche sia i comportamenti extra aziendali capaci di produrre effetti sul rapporto lavorativo. In effetti, le informazioni su comportamenti extra aziendali che attengono alla vita privata del lavoratore, se legate alle mansioni dedotte nel contratto individuale, fuoriescono dal perimetro applicativo dell’art. 8 St. Lav., pur continuando a essere disciplinate dalla normativa privacy summenzionata.

La violazione del divieto ex art. 8 St. Lav. integra gli estremi del reato di cui all’articolo 38 St. Lav. e comporta il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, quantomeno morale, sia nel caso in cui le indagini riguardino i dati dati “supersensibili” inaccessibili al datore, sia nel caso in cui le indagini attengano fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale.

In ogni caso, ancorché non esplicitato dalla disposizione in commento, le informazioni ottenute in violazione del divieto sono inutilizzabili.

Inoltre, il divieto opera sia durante la pendenza del rapporto lavorativo, sia al momento della assunzione, così limitando il potere di controllo datoriale anche durante la cosiddetta fase “pre-assuntiva”.

Casi particolari. La rilevanza dei comportamenti attinenti alla vita privata

Come anticipato, la previsione statutaria, riferendosi genericamente all’attitudine professionale del lavoratore, non vieta le indagini del datore di lavoro su comportamenti extra aziendali qualora producano effetti sul rapporto lavorativo. Pertanto, anche un evento extra lavorativo può essere oggetto di indagine purché, riverberandosi sull’attitudine professionale del lavoratore, sia idoneo a compromettere il legame di fiducia stante alla base del rapporto lavorativo o a ledere l’immagine e gli interessi economici dell’azienda.

Di conseguenza, assumono rilievo anche alcuni procedimenti penali su fatti attinenti alla vita privata del lavoratore. Sul punto si evidenzia che non sussiste un obbligo di legge in capo al lavoratore di informare il datore di lavoro della propria situazione penale. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto legittime alcune delle clausole dei contratti collettivi che obbligano il dipendente a comunicare i precedenti penali al datore di lavoro.

Le fattispecie di maggiore verificazione: il consumo, il possesso e lo spaccio di stupefacenti e le patologie da alcol correlate

Sono molte le pronunce della Suprema Corte in punto di licenziamento comminato per motivi attinenti a casi di consumo, di possesso e di spaccio di stupefacenti da parte dei lavoratori dipendenti. In particolare, il sistema giuridico ha introdotto una norma di protezione (art. 124 dpR n. 309/1990) che garantisce al lavoratore subordinato a tempo indeterminato, del quale sia accertato lo stato di tossicodipendenza e che intenda accedere a un programma riabilitativo di recupero, il diritto alla conservazione del posto durante il tempo in cui il rapporto rimane sospeso per la sottoposizione al trattamento. Nonostante la vigenza della norma di protezione richiamata, il recesso datoriale giustificato da possesso, consumo o spaccio di droga è stato talora ritenuto legittimo. In ogni caso, si sottolinea che tali condotte non costituiscono di per sé giusta causa di licenziamento ed è senz’altro opportuno valutare caso per caso la rilevanza da attribuire al comportamento, specie in relazione al grado di fiducia del rapporto di lavoro.

Anche la dipendenza da alcool non è di per sé motivo sufficiente per recidere il legame di fiducia con il datore di lavoro. Inoltre, l’art. 15 L. 125/2001 estende la medesima tutela prevista dall’articolo 124 dpR n. 309/1990 “ai lavoratori affetti da patologie alcol correlate che intendano accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi di cui all’articolo 9, comma 1, o presso altre strutture riabilitative”.

Le indagini tramite le attività di big data analytics e tramite i social network

I limiti posti dall’articolo 8 St. Lav., in ordine alle informazioni che possono essere apprese sul dipendente o aspirante tale, operano anche qualora le indagini vengano realizzate con strumenti tecnologici. Sul punto, è opportuno distinguere tra le informazioni raccolte mediante le attività di big data analytics e quelle raccolte dall’analisi dei profili social dei dipendenti.

Le indagini tramite big data

L’interazione del lavoratore/utente del web con le strumentazioni tecnologiche comporta l’immagazzinamento nel web di una notevole mole di informazioni, private e non, analizzabili in tempo reale, i cd. big data. In particolare, le tecnologie digitali raccolgono e reimpiegano in modo massivo i dati informatici variamente rilasciati in rete, finendo per definire veri e propri profili virtuali degli utenti. In effetti, le c.d. attività di big data analytics o di people analytics si sostanziano nel raccogliere e nell’analizzare i big data per trarre informazioni utili ai fini della costruzione di modelli di business ed organizzativi.
Anche nell’ambito del rapporto di lavoro vengono impiegate le tecnologie di big data analytics, che, effettuando classificazioni/profilazioni dei dipendenti, spesso finiscono per incidere sulle valutazioni datoriali creando discriminazioni e pregiudizi, legati solo all’idea che il datore si forma in base alla singola profilazione. Come noto, infatti le tecniche di analisi dell’ingente mole di dati disponibili sul web producono informazioni imprecise e parziali, poiché proiettano solo alcuni tratti dell’esperienza personale o professionale del singolo lavoratore. Il rischio, pertanto, è quello di dar luogo a violazioni dell’art. 8 St. Lav., che funge da limite alle prassi di profilazione dei dati del lavoratore.

Sul punto, del resto, la Suprema Corte ha chiarito che l’acquisizione e la conservazione di dati che contengono o possono contenere informazioni sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, integrano gli elementi costitutivi della condotta vietata ex art. 8 St. Lav..
Un parziale argine alla profilazione e classificazione dei lavoratori (o potenziali tali) tramite algoritmi e tecniche di arricchimento dei dati, è stato posto altresì dal Garante per la privacy il quale ha sia predisposto specifiche Linee Guida sul punto (19 marzo 2015, doc. web n. 3881513), sia vietato la costituzione di una piattaforma finalizzata alla creazione di profili reputazionali creati a partire dai dati disponibili sul web, riferita a committenti, datori, fornitori, appaltatori e prestatori (decisione 24 novembre 2016, doc. web n. 5796783).

Tale limite introdotto dal Garante attualizza il motivo della storica introduzione dell’art. 8 St. Lav., sopra ricordato, ossia quello di porre a termine la prassi di schedatura del personale.

Le indagini tramite i social network

Oltre alla prassi di profilazione mediante i big data, il problema di possibile lesione dell’art. 8 St. Lav. sussiste anche con riferimento all’impiego, da parte del dipendente attuale o futuro, dei social network. Come noto, i social network sono piattaforme che, permettendo agli utenti iscritti di creare, condividere e pubblicare contenuti digitali sulla propria bacheca virtuale, finiscono per manifestare anche atteggiamenti più intimi degli utenti/lavoratori, astrattamente idonei a ledere il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, quanto meno secondo il criterio soggettivo del datore di lavoro. Tuttavia, qualsiasi informazione ottenuta dal web variamente collegata all’attività del lavoratore su social network, deve essere valutata caso per caso e solo in base a criteri obiettivi ed ancorati al contenuto del contratto individuale di lavoro: un contegno differente viola l’art. 8 St. Lav. L’ordinamento, del resto, non consente che la valutazione della sfera privata sia condotta secondo parametri soggettivi che lascino spazio alle preferenze individuali del datore di lavoro o ai suoi pregiudizi. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, ricordato che l’art. 8 Stat. lav. consente la valutazione dell’attitudine professionale del dipendente e non di quella etica o morale.

In conclusione, quale che sia la fonte (big data o social network), la raccolta e l’impiego dei dati personali dei lavoratori deve in ogni caso avvenire nel rispetto del divieto ex art. 8 St. lav..

Casistica Giurisprudenziale

  • “La violazione dell’art. 8 St. lav. integra gli estremi del reato di cui all’art. 38 St. lav. e comporta il diritto del lavoratore al risarcimento del danno morale nonché del danno all’immagine e all’identità personale” (Tribunale di Milano, 11/08/2006).
  • L’art. 8 St. Lav. vieta “al datore di lavoro di “effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Ed acquisire e conservare dati che contengono (o possono contenere) simili informazioni importa già l’integrazione della condotta vietata, perchè si risolve in una indagine non consentita sulle opinioni e condotte del lavoratore, anche se i dati non sono successivamente utilizzati. Non è necessario sottoporre i dati raccolti ad alcun particolare trattamento per incorrere nell’illecito, poiché la mera acquisizione e conservazione della disponibilità di essi comporta la violazione della prescrizione legislativa” (Cass. civ., 19/09/2016, n. 18302).
  • È precluso al datore di lavoro di richiedere il certificato penale del lavoratore, salvo che, per particolari mansioni o per la particolare natura del rapporto di lavoro, sussista uno speciale interesse in tal senso (Corte App. Napoli, 17/8/2004)
  • Il datore di lavoro che intenda impiegare una persona per lo svolgimento di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori, deve richiedere al candidato, prima di stipulare il contratto di lavoro e quindi prima dell’assunzione al lavoro, il certificato del casellario giudiziale della persona da impiegare al fine di verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies e 609-undecies c.p., ovvero la presenza a carico del soggetto da assumere di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori (Nota Ministero della giustizia n. 39/2014 e Cir. Min. lav. 11 aprile 2014, n. 7175).
  • È illegittima la clausola di regolamento aziendale che pone il requisito della mancanza di carichi pendenti ai fini dell’assunzione di un lavoratore, perché l’attribuzione di un significato dirimente ed ostativo al carico pendente confligge con il principio di presunzione d’innocenza di cui all’art. 27 Cost. e vìola, nella specie, la norma garantista di cui all’art. 8 St. Lav. (Trib. Milano, 8/5/1982).
  • Il controllo effettuato sul lavoratore attraverso pedinamento tramite un’agenzia investigativa, mirante non già alla verifica del corretto esercizio della prestazione lavorativa, quanto invece alla verifica dello svolgimento di attività sindacale in attuazione di un permesso fruito in forza dell’art. 23 St. Lav. (Trib. Milano 11/8/2006).
  • I programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi ad internet violano l’art. 8 St. Lav., posto che il monitoraggio e la conservazione per un certo lasso di tempo dei dati acquisiti può concretare trattamenti dei dati sensibili che consentono al datore di lavoro di acquisire indicazioni sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del singolo dipendente o, più in generale, su altri interessi o fatti estranei alla sfera dell’attitudine professionale cui l’art. 8 St. Lav. rigorosamente limita il diritto di indagine del datore (Corte App. Milano 30/08/2005).
  • “Deve ritenersi illegittima per violazione dell’art. 8 dello statuto dei lavoratori, la clausola contrattuale che preveda il licenziamento in tronco del dipendente in caso di condanna penale ad una pena detentiva comminata con sentenza passata in giudicato per un’azione commessa dal lavoratore non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e che ne leda la figura morale” (Cass. civ., sez. lav. , 13/12/1985 , n. 6317).
  • “L’attività di spaccio di sostanze stupefacenti svoltasi al di fuori dei locali aziendali non è idonea ad incidere sul rapporto fiduciario ed a legittimare il licenziamento, tenuto conto che le mansioni del lavoratore (addetto alla pulizia dei vagoni ferroviari) non richiedevano particolare attenzione o capacità intellettuali, né contatto diretto con il pubblico” (Cass. civ., sez. lav., 24/01/2013, n. 1698).
  • “La semplice detenzione personale dell’infiorescenza di marijuana, con esclusione dell’ipotesi di spaccio, attiene solo ad una situazione privata extralavorativa del dipendente e non è di una gravità tale incidere sull’elemento fiduciario (respinta, nella specie, la tesi del datore secondo cui dalla semplice detenzione della pianta andava dedotta la finalità di spaccio, con relativa incisione sulla valutazione del comportamento del dipendente e quindi sul rapporto di lavoro)” (Cass. civ., sez. lav., 06/12/2012, n. 21940).
  • “Il coinvolgimento in fatti di droga, nonché la mera detenzione di stupefacenti per uso personale (nella specie, cocaina), possono non solo recare discredito al datore di lavoro, ma anche compromettere l’elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, così costituendo legittimo fondamento del recesso datoriale” (Trib. Taranto, sez. lav., 09/10/2015).
  • “Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, la dipendenza da alcool non è di per sè motivo sufficiente a far venire meno la fiducia del datore di lavoro, essendo necessario accertare di volta in volta la condotta del dipendente, nella concretezza dello svolgimento del rapporto, così come per ogni altro lavoratore, alla stregua degli ordinari criteri stabiliti dalla legge e dal contratto collettivo, al fine di valutare la legittimità o meno della sanzione irrogata. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un dipendente bancario, avendo accertato che il provvedimento non era stato adottato per il fatto in sè della patologia da cui questi era affetto, ma per taluni comportamenti particolarmente gravi dello stesso dipendente che, ancorché favoriti dal suo stato psichico, avevano comportato discredito e disordine anche nei confronti della clientela)” (Cass. civ., sez. lav., 26/05/2001, n. 7192).
  • “La clausola del bando di concorso, per il reclutamento di nuovo personale da parte di un ente pubblico economico, la quale subordini l’assunzione dei vincitori all’inesistenza di vincoli di coniugio, parentela o affinità con amministratori o dipendenti dall’ente medesimo, deve ritenersi nulla ed inoperante, in quanto si traduce in una consentita interferenza nei fondamentali ed inderogabili diritti della persona, in tema di matrimonio e di rapporti familiari, nonché in una violazione della norma imperativa dell’art. 8 st. lav., che nega incidenza nel rapporto di lavoro a fatti che non siano rilevanti sull’attitudine professionale del lavoratore. Tale nullità comporta, qualora la relativa clausola non risulti essenziale rispetto alle determinazioni dell’ente in ordine al concorso, sì da invalidare l’intero bando (art. 1419 c.c.), il diritto dei vincitori del concorso di conseguire l’assunzione, nonostante la ricorrenza dei suddetti vincoli, nonché, eventualmente, il risarcimento del danno, a titolo di responsabilità precontrattuale del datore di lavoro, ove il comportamento di quest’ultimo, nell’introduzione della clausola invalida, risulti contrario a buona fede” (Cass. civ, sez. un., 23/07/1981, n. 4736).