Dirigenti

Tu sei qui:

Trattamento economico e normativo del dirigente di azienda commerciale

In forza del contratto collettivo dei dirigenti commerciali, il dirigente ha diritto ad una retribuzione composta dal minimo contrattuale (per il neo-assunto, € 3.000,00), dagli scatti di anzianità (€ 129.11 mensili al compimento di ogni biennio di anzianità, con un massimo di 11 bienni) e, per i dirigenti assunti o nominati fino alla data del 30/6/95 dall’elemento di maggiorazione (12% degli elementi della retribuzione utili per il calcolo del TFR).

Nei mesi di dicembre e di giugno di ogni anno il dirigente ha diritto a mensilità supplementari (Tredicesima e Quattordicesima).
Al dirigente spettano 4 giorni di permesso retribuito in sostituzione delle festività abolite, e 30 giorni di ferie (nel periodo di ferie non vanno computate le domeniche e le festività).

Per giustificato motivo, al dirigente deve essere concessa una aspettativa fino a 6 mesi, con facoltà del datore di lavoro di non corrispondere, in tutto o in parte, la retribuzione.

In caso di malattia, il dirigente ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione, per 12 mesi ; successivamente, può essere chiesta l’aspettativa di cui si è detto.

In caso di infortunio per causa di servizio, il posto di lavoro deve essere conservato fino all’accertata guarigione, e la retribuzione deve essere corrisposta per non più di 30 mesi.
Inoltre, il datore di lavoro deve stipulare una polizza contro gli infortuni e deve contribuire, insieme al lavoratore, a forme di previdenza e assistenza sanitaria integrative.

Il licenziamento e le dimissioni devono essere comunicate per iscritto.
Mancando una giusta causa, chi recede deve rispettare i termini di preavviso (da 2 a 4 mesi, a seconda dell’anzianità, in caso di dimissioni del dirigente; da 6 a 12 mesi in caso di licenziamento da parte dell’impresa).
Il licenziamento deve essere contestualmente motivato: in caso contrario, al dirigente spetta l’indennità supplementare (da un minimo corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso dovuto in caso di licenziamento, ad un massimo pari ad una somma corrispondente a 18 mesi).
In ogni caso, al dirigente spetta il Trattamento di Fine Rapporto.

Dimettendosi per giusta causa, il dirigente ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso che gli sarebbe dovuta in caso di licenziamento, nonché ad un’indennità supplementare pari a 1/3 del preavviso.
Sono previste alcune ipotesi esemplificative di dimissioni per giusta causa:

Solo nel primo tra i casi citati spetta, oltre all’indennità sostitutiva del preavviso, anche l’indennità supplementare.
Inoltre, il dirigente ha l’onere di richiamare espressamente la causa delle dimissioni e di rassegnarle entro un termine perentoriamente stabilito.

 

Mancato riconoscimento della qualifica di dirigente

Una questione che è molto affrontata nella aule giudiziarie è quella del mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale: un lavoratore, formalmente inquadrato al vertice della carriera impiegatizia, si sente sottostimato rispetto all’importanza che egli attribuisce alle mansioni svolte e, spesso in occasione della cessazione del rapporto, egli promuove una causa contro il suo datore di lavoro, appunto per cercare di ottenere giudizialmente l’accertamento della natura dirigenziale del suo rapporto di lavoro e la condanna al pagamento delle differenze retributive.
La situazione di frustrazione che colpisce tale lavoratore è accentuata dal fatto che, spesso, il datore di lavoro attribuisce unilateralmente la qualifica dirigenziale anche a persone che, in senso stretto, non avrebbero diritto a quella qualifica.
Bisogna però subito avvertire che, in assenza di un principio di parità di trattamento, un conto è se il datore di lavoro attribuisce, appunto unilateralmente, la qualifica dirigenziale; altro è riuscire ad ottenere giudizialmente il riconoscimento del diritto a quella qualifica.
A tale ultimo riguardo, bisogna subito avvertire che la giurisprudenza è piuttosto rigorosa.
Con una sentenza (n. 11218 del 7/10/99), la Corte di cassazione ha preliminarmente definito la categoria dei dirigenti, peraltro desumendola da un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato.

Infatti, è stato ritenuto che il dirigente è il lavoratore che si configuri come alter ego dell’imprenditore e che sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, o di una branca o di un settore autonomo di essa.
Inoltre, è necessario che, ai fini del riconoscimento della qualifica in questione, il lavoratore abbia in concreto una serie di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i conseguenti poteri di iniziativa e discrezionalità, gli consentano di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo dell’azienda e alla scelta dei mezzi produttivi.
In altre parole il dirigente ha una responsabilità ad alto livello, che gli deriva appunto da quel potere di indirizzo di cui si è appena detto, ed è unicamente sottoposto all’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro.
Sulla scorta di questa definizione, è stata tratta la conclusione che un dirigente non può essere sottoposto a vincoli di subordinazione gerarchica nei confronti di altri dirigenti.
Più precisamente, è stato affermato che vi è incompatibilità tra la qualifica di dirigente e l’esercizio di mansioni con vincolo di dipendenza gerarchica, e ciò anche nei casi di aziende caratterizzate da una complessa organizzazione e da una pluralità di dirigenti con graduazione di compiti: per la sussistenza di funzioni dirigenziali, occorre che le mansioni, per il loro corretto svolgimento, siano coordinate con quelle degli altri dirigenti e non già subordinate ad altre.

D’altra parte la sentenza appena citata, se può precludere la strada a molti lavoratori che intendono ottenere la qualifica di dirigente, può tornare utile a quei lavoratori che, di fatto, hanno ottenuto la qualifica di dirigente, pur senza ricoprire un ruolo apicale nell’ambito della gerarchia aziendale.
Infatti, costoro, in caso di licenziamento, potrebbero invocare il principio, enunciato dalla citata sentenza, della incompatibilità tra la qualifica dirigenziale e la subordinazione ad altri dirigenti, e ciò al fine di rivendicare, nei propri confronti, l’applicabilità delle norme di legge che tutelano i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo che, come è noto, non si applicano ai dirigenti.
Oppure potrebbero lamentare una dequalificazione, con conseguente richiesta di risarcimento del danno professionale.

 

Trasferta del dirigente

La trasferta deve essere distinta dal trasferimento, disciplinato dall’art. 2103 c.c..
Più precisamente, la trasferta presuppone il sopravvenire di esigenze transitorie, non previste al momento dell’assunzione, che non incontrano limitazioni da parte della legge: pertanto, il lavoratore inviato in trasferta non ha spunti per contestare, nel merito, il provvedimento.
In altre parole, nel caso in cui il datore di lavoro modificasse il luogo di esecuzione della prestazione di lavoro, è necessario verificare se la modifica sia stabile e definitiva, nel qual caso ricorrerebbe l’ipotesi del trasferimento, ovvero temporanea, nel qual caso si configurerebbe la trasferta: naturalmente, il provvedimento che si qualificasse come “trasferta temporanea”, ma senza una precisa data di rientro, o con una previsione di durata molto lunga, sarebbe qualificabile alla stregua di un trasferimento.

La trasferta è disciplinata dal contratto collettivo che, come normalmente accade, prevede essenzialmente il diritto del lavoratore al rimborso delle spese.
Più precisamente, l’art. 18 del contratto collettivo dei dirigenti commerciali (ma analogamente è previsto, per esempio, dall’art. 10 del CCNL dirigenti industriali) dispone che il lavoratore in trasferta ha diritto al rimborso delle spese di viaggio, di vitto e alloggio, nonché di ogni spesa che sia stata sostenuta in esecuzione del mandato o nell’interesse dell’azienda.
Il rimborso del vitto e dell’alloggio può avvenire a piè di lista, o per equivalente, in una misura da convenire tra il datore di lavoro e il lavoratore.
Il dirigente in trasferta, qualora utilizzasse l’autovettura privata, avrebbe diritto – sempre che l’uso dell’auto privata sia stato autorizzato dal datore di lavoro – al rimborso chilometrico secondo le tariffe ACI.
Infine, è previsto il rimborso delle piccole spese non documentabili, senza peraltro che il contratto offra, al riguardo, alcun parametro.

 

Trasferimento ad una diversa sede di lavoro

Il trasferimento del dirigente soggiace alla ordinaria disciplina dei trasferimenti, regolata dall’art. 2103 c.c..
Tale norma subordina la legittimità del licenziamento all’esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che, per giurisprudenza costante, devono sussistere sia nella sede di provenienza che in quella di destinazione.
Tuttavia, l’art. 14 del contratto dei dirigenti industriali integra la disciplina legislativa con norme volte a tutelare il dirigente. In primo luogo, il trasferimento deve essere comunicato per iscritto, con un preavviso di almeno 3 mesi, ovvero di 4 mesi se il dirigente ha familiari conviventi e a carico.

Qualora il preavviso non possa essere rispettato per motivi di particolare urgenza, il dirigente deve essere considerato in trasferta fino al raggiungimento dei termini di preavviso.
Inoltre, il dirigente ha diritto al rimborso delle spese sostenute, a seguito del trasferimento, per sé e per la famiglia, nonché – per un periodo da concordarsi e comunque non inferiore a due anni – della maggior spesa effettivamente sostenuta per l’alloggio dello stesso tipo di quello occupato nella sede di origine.
Anzi, il datore di lavoro deve attivarsi per agevolare il reperimento di un alloggio nella sede di destinazione.
Inoltre, il dirigente ha diritto ad una indennità, pari a 3,5 o a 2,5 mensilità, a seconda che il dirigente abbia o non abbia carichi di famiglia, peraltro non computabile agli effetti del Trattamento di Fine Rapporto.

Infine, qualora entro 5 anni dal trasferimento dovesse cessare il rapporto per licenziamento o per morte, il datore di lavoro deve rimborsare le spese sostenute dal dirigente e/o dalla sua famiglia per il ritorno alla sede di origine. In ogni caso, se non è diversamente convenuto, il dirigente non può essere trasferito se abbia compiuto il 55° anno di età, se uomo, o il 50° anno di età, se donna.

Il dirigente che non accetti il trasferimento può, secondo le regole generali, ricorrere al giudice per far accertare la mancanza delle ragioni giustificatrici del provvedimento.
Inoltre, secondo quanto disposto dal citato art. 14, il dirigente può recedere dal rapporto entro 60 giorni dalla comunicazione del trasferimento, motivando le proprie dimissioni con la mancata accettazione dello stesso: in questo caso, il dirigente ha diritto, oltre al Trattamento di Fine Rapporto, all’indennità sostitutiva del preavviso, nonché ad una indennità supplementare pari ad 1/3 del preavviso.
In ogni caso, il dirigente che venga licenziato per mancata accettazione del trasferimento ha diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, all’indennità sostitutiva del preavviso.

 

Diritti del dirigente in caso di trasferimento di proprietà dell’azienda

L’art. 13 c. 2 del contratto di lavoro dei dirigenti di imprese industriali riguarda l’ipotesi del “cambiamento” della proprietà dell’azienda.
Poiché vi è un esplicito riferimento alle “particolari caratteristiche del rapporto dirigenziale”, si deve intendere che la norma si applichi a tutti i casi in cui il cambiamento dell’assetto proprietario sia tale da ripercuotersi sul particolare vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro al dirigente.
In altre parole, la norma di cui si parla non si riferisce solo ai casi di trasferimento d’azienda, disciplinato dall’art. 2112 c.c..
Pertanto, oltre ai casi (per esempio) di concentrazione, fusione, scorporo, si deve ritenere che l’art. 13 del contratto si applichi anche ai casi di cessione di quote di proprietà dell’azienda, esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 2112 c.c..
Naturalmente, non deve trattarsi della cessione di una qualunque quota di proprietà aziendale.
Poiché, come si diceva, la norma si riferisce alle peculiarità del rapporto dirigenziale, è necessario che la quota trasferita sia di una consistenza tale da incidere sul già citato rapporto fiduciario: in altre parole, deve trattarsi di un mutamento che possa legittimare l’affermazione che il datore di lavoro che aveva assunto il dirigente è cambiato, in modo tale che quest’ultimo possa non avere interesse a proseguire il rapporto di lavoro con l’acquirente.

Nei casi sopra indicati, dunque, il dirigente ha la facoltà di rassegnare le proprie dimissioni, senza obbligo di preavviso e con il diritto di percepire un trattamento pari ad un terzo dell’indennità sostitutiva del preavviso spettante nel caso di licenziamento.
Tuttavia, per ottenere l’emolumento ora indicato, le dimissioni devono essere rassegnate nel termine di 180 giorni : il termine è stato evidentemente introdotto al fine di garantire che le dimissioni siano effettivamente causate dal descritto cambiamento. Bisogna sottolineare che il termine decorre dalla data legale dell’avvenuto cambiamento e non dal momento in cui il dirigente ne sia venuto a conoscenza.

Conclusivamente, dunque, in caso di trasferimento di proprietà dell’azienda, il dirigente, se non vuole proseguire il rapporto con il nuovo datore di lavoro, deve inviare, nel termine indicato, una raccomandata con ricevuta di ritorno, per comunicare le proprie dimissioni, specificando che le stesse sono motivate dall’avvenuto cambiamento dell’assetto proprietario, rivendicando altresì l’emolumento previsto dall’art. 13 c. 2 CCNL DAI.

 

Subentro del quadro nelle mansioni di dirigente e diritto alla superiore qualifica

Secondo la giurisprudenza prevalente la dipendenza gerarchica da altro dirigente non è, di per sé, un impedimento al riconoscimento della qualifica dirigenziale, potendo sussistere una struttura “piramidale” anche nell’ambito dei vertici aziendali (così si è espressa, ad esempio, la sentenza della Cassazione n. 1899/94).
Quanto alle mansioni, in base all’art. 2103 del codice civile il lavoratore che abbia svolto per almeno tre mesi mansioni superiori (purché ciò non avvenga in sostituzione di un collega avente diritto alla conservazione del posto, ad esempio, perché malato) ha diritto all’assegnazione, in via definitiva, a tali mansioni, nonché al trattamento corrispondente.
Peraltro, il fatto che il lavoratore sostituito avesse la qualifica dirigenziale non è di per sé sufficiente ad affermare che le mansioni svolte sono di natura, appunto, dirigenziale; tale qualifica potrebbe, in teoria, essergli stata attribuita, in base ad una scelta discrezionale del datore di lavoro.
Dunque, importanza determinante assume l’esame delle mansioni che il lavoratore si trova, di fatto, a svolgere.
In particolare, ciò che caratterizza la figura del dirigente, e che lo distingue dall’impiegato con funzioni direttive, è l’ampiezza dei poteri decisionali a lui in concreto affidati, nonché la possibilità di esercitare gli stessi con significativa discrezionalità, nell’ambito dell’intera impresa o di un settore rilevante della stessa.
Al riguardo, assumono particolare importanza anche le previsioni dei contratti di categoria.
Esistono, infatti, specifici contratti collettivi dei dirigenti in cui vengono individuate alcune delle caratteristiche più significative di tale figura professionale o, addirittura, una serie di ruoli professionali (direttore, vicedirettore, institore, ecc.) al cui svolgimento si accompagna il diritto al riconoscimento del ruolo dirigenziale.
Per esempio, il contratto dei dirigenti del commercio prevede che lo stesso si applichi a coloro che “rispondendo direttamente all’imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive, a tutte l’impresa o ad una sua parte autonoma”.

 

Affidamento ad altro dirigente delle mansioni originarie e demansionamento

Il diritto del datore di lavoro di modificare le mansioni dei propri dipendenti incontra i limiti della garanzia del livello retributivo raggiunto e del rispetto dell’equivalenza delle nuove mansioni con quelle precedentemente svolte, al fine di salvaguardare il livello professionale e le conseguenti prospettive di miglioramento.
Per esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la dequalificazione qualora il ridimensionamento della complessiva posizione lavorativa del dirigente “dimezzato” determini una compressione del suo spazio professionale e la divisione dei compiti, prima svolti in via esclusiva, nel senso di cogestione da parte dei due dirigenti.
La Corte di Cassazione ha rilevato che in casi del genere non è rilevante in sé l’aspetto quantitativo ai fini del problema della dequalificazione, ma deve essere confrontata la posizione del dirigente prima o dopo l’affiancamento, tenendo presente l’elevata posizione professionale già rivestita, e valutando se quelle mansioni, proprio per il rilievo che avevano, potessero essere svolte con altri, senza che la loro qualità, la loro valenza professionale, avesse a soffrirne.
Proprio l’elevatezza delle mansioni, secondo la Corte , non consentiva che le stesse fossero suscettibili di esercizio congiunto con altri, senza che venissero snaturate nella loro qualità.
E’ proprio la posizione elevata del dirigente che fa apparire come l’eventuale svolgimento delle relative mansioni, in un momento successivo a opera di due persone, abbassi il livello professionale di chi in precedenza le aveva svolte da solo, in via esclusiva.
In tal modo la nuova situazione viene ad essere dequalificante per il dirigente.
Una volta accertata la dequalificazione, il diritto al risarcimento dei danni diviene conseguenziale e resta solo un problema di quantificazione dei danni stessi (in molti casi, a seconda dell’entità del danno patito, il risarcimento è stato commisurato alla retribuzione percepita o a una parte della stessa, per tutto il periodo in cui si è consumato il fatto illecito).
Ha ancora aggiunto la Corte che la lesione del bene giuridico garantito dall’art. 2103 c.c. prescinde anche da una specifica volontà del datore di lavoro di declassare il lavoratore.

 

Lavoro straordinario e qualifica dirigenziale

Il lavoro straordinario è quello che viene effettuato dopo il normale orario di lavoro.
Il lavoratore, in relazione al lavoro straordinario, ha diritto ad un compenso maggiorato rispetto alla retribuzione ordinaria.
Di regola, la maggiorazione è quantificata dal contratto collettivo, che peraltro può legittimamente prevedere che, in alternativa, lo straordinario sia remunerato a forfait (il lavoratore percepisce una somma fissa mensile, destinata a remunerare il lavoro straordinario a prescindere dalla quantità di straordinario effettivamente prestato) o mediante i riposi compensativi.
Naturalmente, per vantare il diritto al descritto trattamento economico, lo straordinario deve essere ordinato dal datore di lavoro, ovvero deve essere da questo autorizzato, anche tacitamente (è quindi sufficiente che il datore di lavoro sapesse che il lavoratore svolgeva lavoro straordinario e non si sia opposto).

Dalle regole sopra brevemente indicate è escluso il personale direttivo, cui non si applicano i limiti d’orario previsti dalla legge e, eventualmente, dal contratto collettivo.
La nozione di personale direttivo comprende, ma non esaurisce la categoria dei dirigenti: infatti, i lavoratori di cui si parla sono tutti coloro i quali hanno la possibilità di alternare liberamente il lavoro ed il riposo, ovviamente fatto salvo l’obbligo lavorativo quotidiano (si tratta, per esempio, dei capi ufficio e dei capi reparto).
In altre parole, i dirigenti (in quanto facenti parte della più ampia categoria del personale direttivo) non hanno un orario prestabilito di lavoro; conseguentemente, nei loro confronti non si può parlare di lavoro straordinario e, dunque, neppure di diritto al compenso per il lavoro straordinario.
Questa situazione, come è evidente, può peraltro portare a conseguenze aberranti, almeno nel caso in cui il dirigente lavori per una quantità di tempo eccessiva.
Per questo, la giurisprudenza ha introdotto il principio secondo cui il dirigente ha diritto ad un compenso, che il giudice dovrà quantificare secondo equità, nel caso in cui la sua prestazione di lavoro si protragga per un periodo di tempo così lungo da superare i limiti della ragionevolezza.
In altre parole, il diritto al compenso aggiuntivo spetta nel caso in cui l’orario di lavoro del dirigente sia stato tale da rendere la prestazione lavorativa particolarmente usurante, e complessivamente più gravosa di quella prestata dal personale direttivo.

 

Disciplina del licenziamento del dirigente

Il dirigente d’azienda non è tutelato dalla legislazione che limita il potere di licenziamento, come avviene invece per le altre categorie di lavoratori (operai, impiegati e quadri).
In ogni caso, il licenziamento deve avvenire per iscritto: in questo senso dispone la Legge 108/1990 che ha modificato, anche sul punto, la previgente legislazione sui licenziamenti.
Tuttavia, la lacuna legislativa è, di regola, colmata dalla contrattazione collettiva, che impone al datore di lavoro l’obbligo di giustificare il licenziamento del dirigente.
Tuttavia, la conseguenza del licenziamento ingiustificato non è la reintegrazione nel posto di lavoro, come avviene per gli altri lavoratori delle imprese medio – grandi, ma solo la corresponsione di una somma di denaro (cosiddetta indennità supplementare).
Questa è l’ipotesi prevista per esempio dal contratto dei dirigenti industriali e dei dirigenti commerciali, che quantificano l’indennità tra un minimo e un massimo (per i dirigenti industriali, il minimo è pari al preavviso maggiorato di due mensilità, mentre il massimo corrisponde a ventidue mensilità di preavviso).

Nel caso in cui il dirigente intenda contestare il licenziamento, deve senz’altro ricorrere al Giudice del lavoro nel caso di licenziamento per pretesa giusta causa: in altre parole, il tribunale è sicuramente competente in ordine all’eventuale diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
Invece, con riguardo al diritto all’indennità supplementare, sono stati sollevati dubbi circa la competenza del tribunale, poiché i contratti collettivi sopra citati riservano ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato il compito di quantificare la somma di denaro dovuta per il caso di licenziamento ingiustificato.
Conseguentemente, era stata affacciata l’ipotesi che il diritto alla indennità in questione potesse essere riconosciuto solo da tale collegio.

In realtà, ormai la questione non dovrebbe più costituire un problema, essendo ormai stata risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 1463 dell’11/2/87, hanno riconosciuto al tribunale del lavoro la competenza in ordine alla liquidazione dell’indennità in parola.
L’orientamento delle S. U. è stato successivamente seguito dalla Sezione lavoro (v. per esempio Cass. 11/2/91 n. 1397).
Pertanto, il dirigente che intenda rivendicare il proprio diritto alla indennità supplementare, può indifferentemente fare ricorso al tribunale, ovvero al collegio di conciliazione e arbitrato.

 

Obbligo di specificare i motivi del recesso nella lettera di licenziamento

Quasi tutti i contratti collettivi che disciplinano il rapporto di lavoro dirigenziale, prevedono che il licenziamento del dirigente debba essere contestualmente motivato (con particolare riferimento al CCNL dei dirigenti di aziende del terziario, v. l’art. 30 c. 1).
La regola sopra indicata comporta, in primo luogo, la necessità che licenziamento e motivazione siano comunicati nello stesso momento, nonché l’irrilevanza di motivi che dovessero essere successivamente addotti e l’impossibilità di modificare i motivi originariamente indicati.
In secondo luogo, la motivazione del licenziamento, anche non disciplinare, deve consistere in un fatto storico e non in un astratto richiamo a norme di legge o di contratto, e ciò all’evidente fine di consentire al dirigente di preparare una adeguata difesa giudiziaria.
Ma anche questo non basta: in altre parole, non è sufficiente un richiamo generico ad un qualche fatto storico, che deve invece essere indicato in maniera specifica, sempre al fine di consentire al dirigente di apprezzare pienamente le ragioni del recesso e, dunque, di valutare l’opportunità di una causa.
Le conseguenze della omessa indicazione contestuale della motivazione è evidente: poiché il dirigente ha diritto, nel caso di licenziamento ingiustificato, alla indennità supplementare, e poiché in assenza della contestuale motivazione è impossibile verificare la sussistenza della giustificazione, ne deriva che il caso di cui si parla è del tutto equiparabile a quello del licenziamento ingiustificato, con conseguente diritto del dirigente alla indennità di cui si è detto.
In un caso del genere, dunque, al dirigente non resta altro che scegliere se fare ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato, disciplinato dal CCNL, o se adire l’autorità giudiziaria.

 

Diritti del dirigente licenziato a seguito di soppressione della mansione

Il contratto dei dirigenti di aziende industriali disciplina il licenziamento intimato da una impresa in stato di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione ovvero crisi aziendale riconosciute con decreto del ministro del lavoro.
Più precisamente, l’accordo 27/4/95 (e, ancor prima, gli accordi 13/4/81 e 16/5/85) dispone che se il licenziamento dipende da una delle situazioni sopra indicate, il dirigente ha diritto alla indennità supplementare in misura pari al preavviso.
Proprio l’accordo da ultimo citato è stato utilizzato dalla sentenza del Tribunale di Milano del 26/11/94 per risolvere il caso del licenziamento del dirigente per soppressione del posto di lavoro.
Più precisamente, il Tribunale è partito dal presupposto che il contratto collettivo non specifica quando il licenziamento del dirigente possa dirsi giustificato; conseguentemente, il giudice deve interpretare la clausola contrattuale facendo innanzi tutto riferimento al complessivo contesto contrattuale.
In questa prospettiva, è di primaria importanza l’accordo relativo al licenziamento da parte di aziende in crisi sopra citato.
Infatti, se le parti collettive hanno attribuito il diritto alla indennità supplementare, sia pure nella misura minima sopra indicata, al caso in cui il licenziamento sia dovuto a motivi non solo seri, ma addirittura accertati tramite un provvedimento amministrativo, a maggior ragione tale diritto deve essere riconosciuto allorquando il licenziamento, pur dovuto a motivi non pretestuosi né capricciosi, dipenda da una scelta discrezionale del datore di lavoro che, per motivi insindacabili ma non necessitati, si orienti verso una diversa organizzazione del lavoro.
Conseguentemente, il dirigente licenziato avrà diritto, nel caso di cui si parla, oltre che al preavviso, anche alla indennità supplementare, nella misura minima contrattualmente prevista.

Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione, secondo cui ogni licenziamento di dirigente motivato con la soppressione del posto di lavoro dà diritto all’indennità supplementare di cui al relativo contratto collettivo.
La questione riguardava un dirigente licenziato per crisi aziendale.
Il Tribunale di Bergamo aveva però rilevato che, in realtà, il licenziamento era imputabile a un mero processo di riorganizzazione e ristrutturazione, che aveva determinato la soppressione del posto di lavoro del dirigente e che non aveva nulla a che vedere con ipotesi di crisi.
Conseguentemente, il Tribunale aveva ritenuto che l’art. 19 CCNL dirigenti industria (che prevede la corresponsione dell’indennità supplementare in caso di licenziamento ingiustificato del dirigente), interpretato in base a un equo contemperamento degli interessi contrapposti, escludesse dall’area del licenziamento giustificato quello determinato da scelte organizzative che non fossero necessitate da ragioni attinenti a una oggettiva crisi aziendale.
In altre parole, il Tribunale aveva ritenuto che l’indennità di cui alla citata norma contrattuale non può essere confinata solo nell’ambito della tutela della dignità personale del dirigente, per reprimere ipotesi di licenziamenti offensivi o discriminatori; al contrario, la norma deve essere estesa alle ipotesi di ridimensionamento o ristrutturazione aziendale determinate da mere opportunità economiche che, pur essendo in sé legittime, comunque giustificano il ristoro del danno patito dal dirigente licenziato.

La Corte di cassazione (sentenza n. 9896/98) ha confermato tale sentenza, partendo dal principio pacifico per cui la tutela legale contro i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo è inapplicabile ai dirigenti, se non per il caso di licenziamento discriminatorio.
Piuttosto, osserva la Corte , il dirigente dispone di una tutela convenzionale, disposta dal contratto collettivo, che prevede – come già si diceva – la corresponsione di una indennità supplementare per il caso di licenziamento ingiustificato.
Ora, secondo la Corte , che sul punto segue la giurisprudenza pacifica, la nozione di licenziamento giustificato non corrisponde a quella di licenziamento sorretto da un giustificato motivo.
Piuttosto, la giustificatezza prevista dal contratto riguarda ogni vicenda o comportamento del dirigente oggettivamente idonei a incidere irreversibilmente sulla fiducia del datore di lavoro.
Insomma, secondo la Corte , la giustificatezza del licenziamento dipende dalla ragionevolezza e dalla serietà del motivo del recesso, da accertarsi secondo un equo contemperamento dei contrapposti interessi.
Secondo la Corte , il Tribunale si era correttamente uniformato ai principi sopra enunciati: infatti, correttamente era stato distinto tra recesso per crisi aziendale e recesso per altri motivi oggettivi.
In questo modo, si perviene ad un equo bilanciamento della libertà di licenziare con la correlativa esigenza di compensare il disagio del dirigente licenziato.
La Corte ha anche osservato che, per questa via, si risponde non solo a criteri di equità, ma anche di corretta interpretazione della volontà delle parti che, sia pur successivamente ai fatti di causa, mediante l’accordo interconfederale 27/4/95, hanno previsto, per il caso di licenziamento per motivo oggettivo del dirigente, il diritto del lavoratore a una indennità supplementare.

 

Licenziamento disciplinare del dirigente

La sentenza n. 7880, pronunciata dalla Corte di cassazione a S.U. in data 30 marzo 2007, ha (definitivamente) chiarito che le garanzie procedurali previste dall’art. 7 Statuto dei Lavoratori in caso di licenziamento disciplinare devono trovare applicazione anche nei confronti di coloro che rivestono la qualifica di dirigente, senza distinzione alcuna tra dirigenti top manager e “altri” dirigenti (c.d. dirigenti “medi” o “minori”).

A tale riguardo, conviene preliminarmente ricordare che, in caso di licenziamento disciplinare, l’art. 7 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) prescrive una articolata procedura, che il datore di lavoro deve seguire pena l’illegittimità del licenziamento: il datore di lavoro deve preliminarmente contestare l’addebito, con conseguente facoltà del lavoratore di far pervenire, nei successivi 5 giorni, le proprie giustificazioni.
Solo allo spirare di detto termine, e sempre che si ritenga di non accogliere le giustificazioni, può essere inflitta la sanzione del licenziamento.
La procedura sopra descritta è pacificamente applicabile nei confronti di operai, impiegati e quadri.
Al contrario, nei confronti dei dirigenti, la giurisprudenza della S.C. ha espresso orientamenti difformi, ora affermando, ora negando la necessità di esperirla.
In un primo momento, le Sezioni Unite (n. 6041 del 29 maggio 1995) avevano escluso l’applicabilità dell’art. 7 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) nei confronti del dirigente: ciò voleva dire che il dirigente poteva essere licenziato per motivi disciplinari anche senza l’attuazione della procedura garantista imposta dalla norma citata.

La sentenza n. 1434 – pronunciata dalla Corte di cassazione l’undici febbraio 1998 –, però, aveva riaperto il dibattito sull’argomento. Pur annullando una sentenza pronunciata dal Tribunale di Alessandria che si era espressamente “ribellata” all’orientamento giurisprudenziale di chiusura consacrato dalle S.U. nel 1995, la Suprema Corte aveva infatti svolto una serie di riflessioni che – a ben vedere – muovevano i primi passi sulla strada dell’estensione delle garanzie procedurali ex art. 7 Legge 300/1970 anche ai dirigenti.
In particolare, la sentenza in oggetto aveva messo in luce come le Sezioni Unite del 1995 avessero escluso l’obbligatorietà della procedura ai sensi dell’art. 7 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) solo nei confronti dei dirigenti di vertice dell’azienda; e che, al contrario, nei confronti dei cosiddetti pseudo-dirigenti (di cui veniva fornita una nozione piuttosto estesa), la procedura dovesse essere espletata.

Come detto, sulla questione sono intervenute le S.U., che – procedendo nella direzione indicata dalla pronuncia della Cassazione del 1998, nel senso di un’interpretazione sempre più estensiva del campo di applicazione dell’art. 7 Legge 300/1970 – hanno fatto un passo ulteriore e hanno affermato che la diversità contenutistica tra posizioni dirigenziali non legittima alcuna differenza di disciplina in materia di garanzie in caso di licenziamento disciplinare.
Di talché, le tutele previste dall’art. 7 Statuto Lavoratori devono trovare applicazione anche nei confronti dei dirigenti, a nulla rilevando la specifica collocazione che gli stessi assumono all’interno dell’impresa.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di contratto di dirigenza

Mansioni e qualifica

  1. In presenza di prestazioni riconducibili a funzioni dirigenziali, la subordinazione si manifesta attraverso direttive di massima dettata in via programmatica o impresse nella struttura aziendale e assume particolare rilevanza l’inserimento continuativo e organico di tali prestazioni nell’organizzazione dell’impresa, con conseguente illiceità per frode alla legge di un contratto di consulenza tra società che mascheri un rapporto di lavoro dirigenziale tra quella beneficiaria delle prestazioni e un socio della seconda. (Cass. 23/4/2014 n. 9196, Pres. Coletti De Cesare Est. D’Antonio, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di R. Diamanti, “Rapporti di lavoro dirigenziale e subordinazione”, 62)
  2. Ai sensi del CCNL per giornalisti 11 aprile 2001, non può essere qualificato dirigente il direttore di giornale che non gestisce autonomamente la struttura redazionale e la linea editoriale, non si occupi autonomamente delle assunzioni, cessazioni e trasferimenti del personale e che sia soggetto alle disposizioni dell’editore anche per l’utilizzazione del personale redazionale. (Trib. Perugia 5/1/2013, Giud. Liscio, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Ilaria Fiaoni, 712)
  3. Ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia e il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerente con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata. (Cass. 15/5/2012 n. 7517, Pres. Roselli Est. Meliadò, in Orient. Giur. Lav. 2012, 263)
  4. Una volta esclusa (come nel caso di specie) la possibilità di un repechage, che andrebbe valutata con riferimento a mansioni equivalenti, l’eventuale disponibilità del dirigente a svolgere mansioni inferiori, in virtù di un patto di demansionamento, dovrebbe risultare da una manifestazione di volontà antecedente al licenziamento. (Trib. Napoli 17/1/2012 n. 975, Giud. Scognamiglio, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Joanna Mugneco, “Giustificatezza e obbligo di repechage: aspetti controversi del licenziamento del dirigente d’azienda”, 822)
  5. La figura professionale del dirigente implica lo svolgimento di compiti coordinati e non già subordinati a quelli di altri dirigenti, di qualsiasi livello, i quali siano caratterizzati da significativa autonomia e poteri decisionali, che li differenzino qualitativamente da quelli affidati agli impiegati direttivi. (Cass. 22/2/2011 n. 4272, Pres. Roselli Est. Nobile, in Lav. nella giur. 2011, 520)
  6. La garanzia accordata dall’art. 16 del Ccnl per Dirigenti Aziende Industriali, ai sensi del quale il dirigente ha diritto a un’indennità pari a quella sostitutiva del preavviso ove egli receda dal rapporto entro 60 giorni dal mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulla sua posizione, non presuppone un mutamento in peius delle mansioni in violazione dell’art. 2103 c.c., essendo volta a tutelare meramente il disaccordo del dirigente al mutamento della mansione che, pur legittimo ex art. 2103 c.c., incida sulla posizione a esso assegnata (nella fattispecie, è stato ritenuto sussistente tale mutamento di posizione con riferimento al caso di un dirigente il quale, dopo aver svolto le mansioni di direttore amministrativo finanziario e di controllo, era stato adibito alle mansioni di direttore progetti speciali). (Trib. Monza 3/5/2010, Est. Pipponzi, in D&L 2010, con nota di Renato Scorcelli, “Sulla tutela del Ccnl di settore per il caso di mutamento della posizione del dirigente”, 859)
  7. In caso di illegittimità, per contrarietà alla lagge, del provvedimento di riforma della pianta organica di un comune, con soppressione delle posizioni dirigenziali, questo deve essere disapplicato dal giudice ordinario, con conseguente perdita di effetti dei successivi atti di gestione del rapporto di lavoro costituiti dalla revoca dell’incarico dirigenziale, non sussistendo la giusta causa per il recesso ante tempus del contratto a tempo determinato, che sorge a seguito del relativo conferimento, con diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata e detratto il periodo di illegittima revoca. (Trib. Trani 3/3/2009, ord., Est. La Notte Chirone, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Vincenzo De Michele, 373)
  8. Un rapporto di lavoro può essere qualificato come subordinato se si dimostra che la subordinazione si è di fatto realizzata in fase di esecuzione con l’assoggettamento del lavoratore al potere del datore di lavoro di disporre della prestazione e controllarne intrinsecamente lo svolgimento. Presupposto essenziale per il riconoscimento della qualifica dirigenziale è l’esercizio del potere di iniziativa e di individuazione di strategie aziendali in modo autonomo, caratteristica incompatibile con l’assoggettamento a vincoli di subordinazione gerarchica. (Trib. Monza 7/2/2009, dott. Di Lauro, in Lav. nella giur. 2009, 529)
  9. Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, la qualifica di dirigente spetta al prestatore d’opera che, operando sul piano gerarchico più elevato e quale “alter ego” dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale o a quella di un settore autonomo dell’azienda, esplicando la sua attività con ampi poteri discrezionali, pur nel quadro delle direttive dell’imprenditore. (Corte app. Napoli 8/1/2009, Pres. Bavoso Rel. Landi, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Filippo Collia, Abramo Abrami e Stefania Corvaglia, 925)
  10. In mancanza di una previsione del contratto collettivo che disciplini il rapporto, è pacifico che la figura professionale del dirigente debba essere determinata (in relazione alla previsione dell’art. 2095 c.c.) alla stregua della relativa definizione giurisprudenziale, tenuto conto che tale qualifica è caratterizzata dall’autonomia e discrezionalità delle decisioni e della mancanza di una vera e propria dipendenza gerarchica, nonché dall’ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla condizione dell’intera azienda o di un suo ramo autonomo e non circoscritte a un settore, ramo o ufficio della stessa. (Corte app. Napoli 8/1/2009, Pres. Bavoso Rel. Landi, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Filippo Collia, Abramo Abrami e Stefania Corvaglia, 925)
  11. La graduale e oggettiva soppressione delle mansioni del dirigente, della sua posizione nonché dell’ufficio commerciale dallo stesso diretto, sebbene intervenuta nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, fino al licenziamento del dirigente, costituisce demansionamento. Lo stato di cose sopra descritto può provocare una malattia da stress e un danno alla professionalità. Una volta provato il demansionamento e l’effettiva sussistenza dei danni non patrimoniali, questi ultimi vanno liquidati in via equitativa ex art. 1226 c.c. (Trib. Milano 5/12/2008, dott. Mariani, in Lav. nella giur. 2009, 417)
  12. Il dirigente che, per definizione, era l’alter ego dell imprenditore e che tradotto in termini attuali – dove la più moderna e complessa organizzazione aziendale rende anacronistica quella figura – è il dipendente che non solo e non tanto partecipa attivamente alle realizzazione degli obiettivi dell’impresa, quanto piuttosto concorre a definirli, operando significative scelte di politica aziendale. (Trib. Milano 16/10/2008, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2009, 308)
  13. Il tratto caratterizzante della figura del dirigente è rappresentato dall’esercizio di un potere ampiamente discrezionale che incide sull’andamento dell’intera azienda o che attiene a un autonomo settore produttivo della stessa, non essendo per converso necessaria la preposizione dell’intera azienda. (Cass. 11/7/2007 n. 15489, Pres. de Luca Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2008, 84 e in Dir. e prat. lav. 2008, 1152)
  14. La qualifica di dirigente spetta soltanto al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, è preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, ovvero a una branca o a un settore autonomo di essa, ed è investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo all’azienda. (Cass. 22/12/2006 n. 27464, Pres. Senese Est. D’Agostino, in D&L 2007, con nota di Alvise Moro, Pseudo dirigenti e tutela reale”, 207)
  15. L’attribuzione della qualifica dirigenziale può spettare, in base a una nozione ricavata dalla contrattazione collettiva di riferimento, anche a colui il quale si trovi in una situazione di sottoposizione gerarchica rispetto ad altro dirigente; tuttavia deve essere fatta salva, anche nel dirigente di grado inferiore, una vasta autonomia decisionale, quantunque circoscritta dal potere direttivo di massima del dirigente di livello superiore. Ne consegue pure che la subordinazione di un dirigente a un altro non può escludere l’attribuzione della qualifica dirigenziale, la collocazione verticistica del prestatore di lavoro, nell’ambito dell’organizzazione aziendale di riferimento e in assenza del conferimento di autonomi poteri decisionali in grado di influire in modo determinante sugli obiettivi dell’impresa, non necessariamente la implica. (Corte App. Potenza 9/11/2006, Pres. Ferrone Rel. Di Nicola, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Annamaria Monte, 498)
  16. Il contratto collettivo dei dirigenti individua criteri di inquadramento nella categoria dirigenziale che sono, per un verso, di carattere formale e, per altro verso, riferiti ad attività che implicano e comportano poteri decisionali direttamente inerenti le scelte di politica aziendale che, peraltro, a seconda delle dimensioni e della struttura gerarchica dell’imprenditore, possono esplicarsi a diversi livelli, appunto, della gerarchia aziendale. Nella seconda ipotesi, in cui manca una attribuzione formale della categoria, il dipendente ha l’onere di fornire una prova rigorosa dell’attività effettivamente svolta nonchè dei fatti che consentono di individuare l’elemento qualificante della categoria dirigenziale: il potere decisionale di cui sopra. (Trib. Milano 18/2/2006, D.ssa Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2006, 1026)
  17. Al fine di stabilire l’esatto inquadramento del dipendente, se l’appartenenza alla categoria dei dirigenti è espressamente regolata dalla contrattazione collettiva, occorre far riferimento, non alla nozione legale di tale categoria, ma alle relative disposizioni della contrattazione ed il giudice ha l’obbligo di attenersi ai requisiti dalle medesime previsti, poiché esse – riflettendo la volontà delle parti stipulanti e la loro specifica esperienza di settore – assumono valore vincolante e decisivo, tenendo altresì conto che in organizzazioni aziendali complesse è ammissibile – anche in riferimento alla prassi aziendale ed alla concreta organizzazione degli uffici – la previsione di una pluralità di dirigenti (a diversi livelli, con graduazione di compiti) i quali sono tra loro coordinati da vincoli di gerarchia che però facciano salva, anche nel dirigente di grado inferiore, una vasta autonomia decisionale circoscritta dal potere direttivo generale di massima del dirigente di livello superiore; e l’accertamento compiuto alla stregua dei contratti collettivi da parte del giudice di merito è censurabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale. (Nella specie la Corte Cass. ha confermato la sentenza del merito che aveva rigettato la domanda di un dipendente Rai, inquadrato come funzionario e incaricato di seguire il contenzioso insieme ad altri avvocati, volta al riconoscimento della qualifica dirigenziale di quarto livello, ai sensi dell’art. 1 del Ccnl dei dirigenti di aziende industriali). (Cass. 26/4/2005 n. 8650, Pres. Sciarelli Rel. Figurelli, in Dir. e prat. lav. 2005, 2336)
  18. Ai fini della valutazione in ordine al riconoscimento della qualifica di dirigente, il tratto caratteristico della figura del dirigente d’azienda rispetto a funzioni simili come quella di impiegato con funzioni direttive, va individuato nella autonomia e nella discrezionalità delle scelte decisionali, in modo che l’attività del dirigente influisca sugli obiettivi complessivi dell’imprenditore. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse fatto corretta applicazione di tali principi, avendo escluso la qualifica dirigenziale in mancanza di prova circa i poteri decisionali, l’autonomia e la discrezionalità dell’operato, non attribuendo rilevanza decisiva alla circostanza che il ricorrente si avvalesse o meno della collaborazione di un sottoposto ed organizzasse turni di ferie sue e dell’impiegato che con lui collaborava). (Cass. 30/8/2004 n. 17344, Pres. Ciciretti Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2005, 281)
  19. La figura professionale del dirigente, che in mancanza di una previsione della disciplina collettiva del rapporto di lavoro va determinata alla stregua della nozione legale di tale categoria, è caratterizzata dall’autonomia e dalla discrezionalità delle decisioni e dalla mancanza di una vera e propria dipendenza gerarchica, nonché dall’ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla conduzione dell’intera azienda o di un suo ramo autonomo e cioè tali da non poter essere circoscritte ad un settore di essa; nell’ipotesi di struttura imprenditoriale di modeste dimensioni, in particolare, l’indagine del Giudice di merito volta ad accertare la fondatezza della pretesa del lavoratore al riconoscimento della qualifica dirigenziale deve essere ispirata a particolare rigore, essendo difficilmente ipotizzabile la necessità di supplenza imprenditoriale se non si è in presenza di ampie articolazioni produttive e di numerosi dipendenti. (Cass. 16/6/2003 n. 9654, Pres. Mileo Rel. Capitanio, in Dir. e prat. lav. 2003, 3110)
  20. La circostanza che compiti identici a quelli svolti dal lavoratore aspirante alla qualifica di dirigente siano stati in precedenza assegnati a lavoratori con la detta qualifica non è decisiva ai fini del riconoscimento del diritto al superiore inquadramento (Cass. Sez. lav., 17/2/94, n. 1530). Ciò perché nell’ambito delle imprese private non vige il principio di parità di trattamento (Cass. S.U., 29/5/93, n. 6030; Cass. S.U., 17/5/96, n. 4570) e perché la qualifica del predecessore può essere stata impropriamente attribuita dal datore di lavoro. (Cass. 12/2/02, n. 1985, pres. Prestipino, est. Roselli, in Lavoro e prev. oggi 2002, pag. 564, con nota di Canali De Rossi, Rivendicazione di qualifica dirigenziale e caratteristiche della funzione. Non vigenza del principio di parità di trattamento)
  21. E’ irrilevante a giustificare l’accantonamento di un dirigente (nel caso per la durata di 16 mesi) la giustificazione aziendale secondo cui, a seguito della fusione tra due istituti di credito, si sarebbe verificata una duplicazione di funzioni ed un conseguente esubero di personale, giacché è preciso ed ineludibile dovere del datore di lavoro, cui corrisponde un altrettanto specifico diritto del prestatore – entrambi discendenti dall’enunciato normativo contenuto nell’art. 2103 c.c. – di fornire al dipendente un incarico determinato e stabile, nel rispetto dell’inquadramento riconosciuto e della professionalità acquisita. Del pari irrilevante la circostanza che nei confronti del predetto dirigente l’azienda avesse l’intenzione, e fossero stati avviati contatti, di addivenire ad una risoluzione consensuale anticipata del rapporto di lavoro rispetto all’età per il pensionamento di vecchiaia, in quanto ciò non giustifica, in alcun modo, la pratica datoriale di spoliazione delle mansioni, irrispettosa della precitata previsione codicistica. Ne consegue, in ragione del riscontro di una forzata inattività per 16 mesi e di una sindrome depressiva indotta dall’illegittimo contegno aziendale – accertata come causalmente conseguente ad opera del Servizio neurologico dell’Asl, qualificato ed indipendente dalle parti, escludente pertanto il ricorso a Ctu sanitaria – la liquidazione al ricorrente, in via equitativa ex art. 1226 c.c., dell’importo netto di 100 milioni (comprensivo di interessi e rivalutazione monetaria) tenuto conto della retribuzione mensile percepita ed a ristoro cumulativo del danno professionale e biologico subito (Trib. Torino 10/8/01, pres. e est. Ciocchetti, in Lavoro e prev. oggi 2002, pag. 165, con nota di Meucci, Accantonare il dirigente per un anno e mezzo può costare alla Banca 100 milioni netti)
  22. In ipotesi di dequalificazione a mansioni impiegatizie il dirigente ha diritto, ai sensi dell’art. 2103 c.c., di essere reimmesso in mansioni dirigenziali, nell’ambito di quelle ultimamente svolte (Pret. Milano 16/9/94, est. De Angelis, in D&L 1995, 143)
  23. Non può qualificarsi come dirigente il dipendente che, pur avendo il potere di firma, gestisca un settore di dimensioni modeste, tali che le sue mansioni consistano nel garantire la corretta esecuzione del lavoro minuto e non di determinare le direttive di ordine generale proprie della funzione dirigenziale (nella fattispecie, è stato altresì escluso che il dipendente potesse essere qualificato come dirigente per il fatto che per sei mesi avesse coperto l’interregno tra vecchio e nuovo dirigente, poiché le sue mansioni non erano equivalenti a quelle in seguito svolte dal nuovo dirigente) (Cass. 28/7/94 n. 7039, pres. Alvaro, est. Sciarelli, in D&L 1995, 367, nota MUGGIA)

 

 

Questioni retributive

  1. Il compenso dovuto all’amministratore di una società di capitali, quale organo legato da rapporto interno alla società, è determinato dall’assemblea dei soci, sussistendo la facoltà dell’amministratore di insorgere avverso una liquidazione effettuata dall’assemblea della società in maniera inadeguata e di chiedere al giudice la quantificazione delle proprie spettanze, salva l’ipotesi in cui, trattandosi di diritti disponibili, la delibera assembleare sia stata dall’amministratore accettata e posta in esecuzione senza riserve. (Cass. 24/5/2010 n. 12592, Pres. Roselli, Est. Balletti, in D&L 2010, 854)
  2. La clausola del contratto collettivo (nella specie art. 6 Ccnl Dirigenti del Credito) che prevede il diritto del dirigente a ottenere il rimborso delle spese processuali sostenute dallo stesso in relazione a procedimenti penali per fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni, deve essere interpretata nel senso che essa copre i costi del collegio difensivo ragionevolmente necessario in relazione alla complessità della difesa, e non necessariamente di un solo legale, mentre in ogni caso non sono sindacabili dal giudice le parcelle dei legali ove conformi alle tariffe professionali. (Trib. Milano 1/9/2009, Est. Ravazzoni, in D&L 2010, 562)
  3. Alla stregua dell’art. 24, c. 2, del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 16 del d.lgs. n. 80 del 1998 (ora art. 24 d.lgs. n. 165 del 2001) – che ha rimesso la disciplina del trattamento economico del personale dirigenziale al contratto individuale, prescrivendo, per “il trattamento economico fondamentale”, che assuma, come parametri di base, “i valori economici massimi contemplati dai contratti collettivi dirigenziali” e, per il “trattamento economico accessorio”, che sia “collegato al livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione e ai risultati conseguiti nell’attività amministrativa e di gestione” – la retribuzione di posizione, che riflette il livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione ed esprime lo specifico valore economico di una determinata posizione dirigenziale al di fuori di ogni automatismo, non può essere attribuita nella misura massima dell’emolumento per il solo rilievo apicale del ruolo dirigenziale ricoperto. (Cass. 15/5/2007 n. 11084, Pres. Senese Rel. Curcuruto, in Lav. nelle P.A. 2007, 737)
  4. I dirigenti pubblici a regime privatistico percepiscono una retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva e individuale, la cui struttura è determinata dalla legge in un trattamento economico fondamentale e uno accessorio. In particolare, la struttura della retribuzione delle dirigenza contempla voci fisse (stipendio tabellare; retribuzione di posizione – parte fissa) e voci variabili (retribuzione di posizione – parte variabile; retribuzione di risultato). Il c.d. divieto di reformatio in peius del trattamento retributivo dei dipendenti statali, desumibile dall’art. 202 del D.P.R. n. 3 del 1957 (la cui portata applicativa è stata precisata dall’art. 3, commi 57-58, L. n. 537 del 1993 e dall’art. 1, comma 226, L. n. 266 del 2005) è stato previsto al fine di evitare che possibili peggioramenti del trattamento economico possano costituire disincentivo alla mobilità del personale. Esso però non si applica a tutte le componenti retributive provvisorie aventi carattere precario e accidentale. Segnatamente, non si applica nè alla retribuzione di risultato, nè alla parte variabile della retribuzione di posizione; essendo, in particolare, quest’ultima priva di quel carattere di stabilità, che ne assicurerebbe la conservazione da parte del dirigente il quale transiti dall’una all’altra Amministrazione. (Cons. Stato 11/12/2006 n. 14, Pres. De Roberto Est. Allegretta, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Lorenzo Ieva, 307)
  5. Nei confronti dei dirigenti, che sono esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, un diritto a compenso per lavoro straordinario può sorgere o nel caso in cui la normativa collettiva (o la prassi aziendale o il contratto individuale) delimiti anche per essi un orario normale di lavoro, che risulti nel caso concreto superato, ovvero, allorquando non sussista tale delimitazione, nel caso in cui la durata della prestazione lavorativa ecceda i limiti della ragionevolezza in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute, dovendosi ritenere che, perché sia configurabile il carattere gravoso e usurante della prestazione non è necessario che essa debba portare alla rovina fisico-psichica del lavoratore. (Sulla base di tale principio, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito, che aveva negato la configurabilità del lavoro straordinario da parte di un dirigente di azienda di credito, asserendo che l’art. 29 del CCNL dei dirigenti delle aziende di credito prevede un orario flessibile, laddove esso, invece, stabilisce che di massima il loro orario di lavoro è quello normale degli altri dipendenti e solo se le funzioni ed i compiti lo richiedano, può svolgersi con criteri di flessibilità temporale e, inoltre, aveva apoditticamente affermato che la protrazione continuativa e quotidiana di un’ora e quarantacinque minuti oltre il termine ordinario del lavoro non costituiva attività usurante). (Cass. 23/7/2004 n. 13882, Pres. Ravagnani Rel. Balletti, in Lav. e prev. oggi 2004, 1650)
  6. Nei confronti dei dirigenti, che sono esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, il diritto al compenso per lavoro straordinario può sorgere o nel caso in cui la normativa collettiva (o la prassi aziendale o il contratto individuale) delimiti anche per essi un orario normale di lavoro e questo venga in concreto superato, ovvero nel caso in cui la durata della prestazione fornita ecceda i limiti determinabili in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute. (Cass. 16/6/2003 n. 9650, Pres. Mileo Rel. Putaturo Donati, in Dir. e prat. lav. 2003, 3109)
  7. Ove al dirigente distaccato all’estero sia stata erogata, per il periodo di permanenza presso la sede straniera, una speciale indennità, deve ritenersi che tale emolumento sia stato corrisposto per una metà in funzione ristoratrice delle maggiori spese, e, per l’altra metà, in funzione compensativa delle particolari modalità della prestazione, sì da avere, limitatamente al 50%, natura retributiva, con conseguente computabilità, ai fini del calcolo del Tfr e dell’indennità sostitutiva del preavviso (Trib. Milano 19/4/97, pres. Mannacio, est. Accardo, in D&L 1997, 813)
  8. Non compete l’indennità per ferie non godute al dirigente che abbia il potere di autodisciplinare le proprie ferie, senza ingerenza da parte del datore di lavoro, in quanto, se il diritto alle ferie è irrinunciabile, il mancato godimento imputabile esclusivamente al dirigente esclude il diritto all’indennità sostitutiva, salva la ricorrenza di eccezionali e obbiettive esigenze aziendali ostative a quel godimento (Cass. 7/3/96 n.1793, pres. Micali, est. Picone, in D&L 1997, 353)
  9. Le somme corrisposte, in base a pattuizione diretta fra le parti, dalla società capogruppo estera al dirigente della società italiana, in aggiunta alla retribuzione corrisposta dalla società effettiva datrice di lavoro, debbono considerarsi parte integrante della retribuzione dovuta dal datore di lavoro, utile ai fini del computo delle c.d. retribuzioni indirette, ove sia accertato che tali somme ulteriori costituivano corrispettivo della stessa prestazione resa nell’ambito dell’unico rapporto di lavoro dirigenziale in essere (Cass. 7/3/96 n.1793, pres. Micali, est. Picone, in D&L 1997, 353)
  10. L’indennità una tantum prevista dall’art. 14 CCNL dirigenti di aziende industriali, avendo funzione di compensazione forfettaria per i disagi economici connessi al trasferimento, non costituisce un riconoscimento economico comunque dovuto, ma richiede, quale presupposto, la prova dell’effettivo mutamento della residenza e dell’organizzazione domestica del dirigente (Pret. Milano 1/3/95, est,. Cecconi, in D&L 1995, 664)

 

 

Licenziamento

  1. Il licenziamento del dirigente non può trovare la sua giustificazione, ed è al limite del ritorsivo, se fondato su una riorganizzazione che sia stata adottata per far fronte ad un suo lungo stato di malattia.
    Il Tribunale accoglie il ricorso con cui un dirigente licenziato per ragioni economiche lamentava il carattere illegittimo del licenziamento, ritenuto ritorsivo. Il Giudice rileva come nella decisione aziendale di estromettere il lavoratore avesse assunto un ruolo decisivo la sua prolungata assenza per malattia, e che in tale circostanza conferma l’illiceità il fatto che ruolo di direttore dello stabilimento già ricoperto dal ricorrente non fosse stato soppresso, ma solo affidato a un manager dipendente della società capogruppo. Riconosciuta al dirigente la l’indennità supplementare del CCNL dirigenti d’industria, nella sua misura massima. (Trib. Rovereto 7/3/2023, dott. Cuccaro, in Wikilabour, Newsletter n. 7/23)
  2. Licenziamento ritorsivo del dirigente: la prova può essere data anche per presunzioni fra cui l’insussistenza della giusta causa di recesso.
    Un dirigente, poco dopo l’assunzione, veniva prima rimosso dall’incarico assegnato e poi licenziato per giusta causa adducendo motivi di scarsa consistenza. Il Giudice, accertata l’insussistenza dei fatti contestati (sotto il profilo oggettivo e soggettivo) nonché la pretestuosità degli addebiti, dichiara la nullità del licenziamento: sotto il profilo dell’onere della prova, che ricade sul lavoratore, il Giudice valorizza una serie di elementi presuntivi, tra i quali la breve successione temporale dei fatti e l’assenza di un giustificato motivo di recesso. (Trib. Bari 16/6/2020, Giud. Vernia, in Wikilabour, Newsletter n. 15/2020)
  3. Licenziamento collettivo e (vecchia) esclusione dei dirigenti dalla procedura: lo Stato italiano condannato a risarcire il “danno comunitario”.
    Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso di alcuni dirigenti licenziati individualmente e rimasti privi di tutele poiché (all’epoca del licenziamento, precedente al 2014) la direttiva europea sui licenziamenti collettivi (dir. 98/59/CE) era stata recepita dallo Stato italiano in modo incompleto, escludendo dall’ambito di applicazione i dirigenti. Il Tribunale ritiene che il mancato corretto recepimento della Direttiva abbia impedito ai ricorrenti di “accedere agli strumenti sociali di sostegno del reddito” (Fondo di solidarietà di settore) e pertanto condanna lo Stato a risarcire il danno subito in misura pari alle erogazioni che i ricorrenti avrebbero percepito. (Trib. Roma 2/4/2020, Giud. Canonaco, in Wikilabour, Newsletter n. 8/2020)
  4. L’espressione “invalidità” deve essere intesa in senso restrittivo, avendo riguardo ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre effetti conformi alla sua funzione economico-sociale: nel concetto di invalidità non può, pertanto, ricondursi l’ipotesi della “ingiustificatezza” di fonte convenzionale, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare. (Cass. 13/1/2020 n. 395, Pres. Nobile Est. Arienzo, in Riv. It. Dir. lav. 2020, coon nota di R. Vianello, “Sulla non estensibilità del termine di cui all’art. 32, l. n. 183/2010 al licenziamento ingiustificato del dirigente: la Cassazione sposa la teoria del doppio binario”, 311)
  5. La disciplina sulla decadenza del Collegato Lavoro non può riferirsi anche alle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti, se per questi ultimi non era ancora stata prevista alcuna tutela rafforzata propria di un regime di invalidità, riguardante casi esterni alla legge 604/1966: perciò, deve essere esclusa l’estensione del regime decadenziale, che dipende dal significato che si attribuisce al termine “invalidità”, a casi che rientrano nel più ampio concetto di illegittimità. L’ambito di applicabilità oggettiva dell’art. 32, co. 2, l. n. 183/2010 non può che riferirsi alle ipotesi di stretta invalidità (rectius: nullità) menzionate dall’art. 18, co. 1, St. lav. In caso di proposizione dell’azione avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. lav., in ipotesi di nullità, e dell’azione diretta ad ottenere l’indennità supplementare, alla diversità delle azioni corrisponde un diverso regime di impugnazione. (Cass. 13/1/2020 n. 395, Pres. Nobile Est. Arienzo, in Riv. It. Dir. lav. 2020, coon nota di R. Vianello, “Sulla non estensibilità del termine di cui all’art. 32, l. n. 183/2010 al licenziamento ingiustificato del dirigente: la Cassazione sposa la teoria del doppio binario”, 311)
  6. L’impugnazione del licenziamento del dirigente rientra nell’ambito di applicazione del rito ex art. 1, co. 47 ss., della l. n. 92/2012, qualora, in base alla prospettazione della domanda, il recesso sia ritenuto discriminatorio e, dunque, meritevole della tutela ex art. 18 l. n. 300/1970. (Trib. Roma 23/10/2014, ord., Est. Marrocco, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Daniela Schiuma, “Licenziamento del dirigente, accordi aziendali e rito Fornero: una decisione controversa”, 427)
  7. Un accordo aziendale di riduzione del personale con qualifica dirigenziale, sottoscritto da una rsa in possesso dei requisiti previsti dall’art. 5 Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 è idoneo ad acquisire efficacia per tutto il personale in forza nell’azienda di riferimento anche se non sia stato sottoposto al voto certificativo dei lavoratori, la cui consultazione si configura come eventuale. (Trib. Roma 23/10/2014, ord., Est. Marrocco, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Daniela Schiuma, “Licenziamento del dirigente, accordi aziendali e rito Fornero: una decisione controversa”, 427)
  8. La nozione di giustificatezza del licenziamento non coincide con quello di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento del lavoratore subordinato, ma è molto più ampia, e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda la arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e di buona fede e del divieto di licenziamento discriminatorio. (Trib. Milano 18/7/2014, Giud. Gasparini, in Lav. nella giur. 2015, 98)
  9. Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui alla l. n. 604/1966, artt. 1 e 3, e la nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, prevista dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dalla stessa l. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3. (Cass. 19/6/2014 n. 13958, Pres. Roselli Rel. Amendola, in Lav. nella giur. 2014, 1125)
  10. Ferma la specificità della posizione del dirigente anche all’atto del recesso dal rapporto a iniziativa del datore di lavoro, l’onere della prova della sussistenza di un’idonea giustificazione a base del licenziamento (con o senza preavviso) grava pur sempre sulla parte datoriale. (Trib. Milano 7/4/2014, Giud. Greco, in Lav. nella giur. 2014, 933)
  11. Per stabilire se sia giustificato il licenziamento di un dirigente intimato per ragioni di ristrutturazione aziendale, non è dirimente la circostanza che le mansioni da questi precedentemente svolte vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle sue proprie, in quanto quel che rileva è che presso l’azienda non esista più una posizione lavorativa esattamente sovrapponibile a quella del lavoratore licenziato. (Trib. Milano 14/3/2014, Giud. Ravazzoni, in Lav. nella giur. 2014, 721)
  12. La Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi incombenti in forza dell’art. 1 della Direttiva europea 98/59/CE del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, in quanto ha escluso la categoria dei “dirigenti” dalla disciplina dei licenziamenti collettivi della L. 23 luglio 1991, n. 223. (Corte Giustizia UE 13/2/2014, causa C-596/12, Pres. Silva de Lapuerta Rel. Bonichot, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Michele Miscione, 233)
  13. Va disposta la condanna della Repubblica Italiana la quale, avendo escluso, mediante l’articolo 4, paragrafo 2, della legge del 23 luglio 1991, n. 223, la categoria dei “dirigenti” dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’articolo 2 della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva. (Corte di Giustizia 13/2/2014, C-596/12, Pres. Silva de Lapuerta Rel. Bonichot, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di A. Donini, “Estensione della procedura di licenziamento collettivo ai dirigenti: un vuoto di tutela colmato?”, 366)
  14. L’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una P.A. con un dirigente (nella specie comunale) comporta l’applicazione, al rapporto fondamentale sottostante, della disciplina dell’art. 18 Stat. Lav., con conseguenze reintegratorie, a norma dell’art. 51 comma 2 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, mentre all’incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria. (Cass. 29/7/2013 n. 18918, Pres. Roselli Est. Napoletano, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Raffaele Squeglia, 1077)
  15. L’art. 32, co. 2, l. n. 183/2010, facendo riferimento a tutti i casi di invalidità del licenziamento, estende la regolamentazione di cui all’art. 6 l. n. 604/1966 anche alla ipotesi di nullità e ingiustificatezza dell’atto di recesso a iniziativa datoriale posto in essere nei confronti del dipendente con qualifica dirigenziale. (Trib. Milano 9/7/2013 n. 2797, Est. Cipolla, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Roberto Pettinelli, “Il dirigente, il giudice e il legislatore: l’impugnazione del licenziamento tra ‘invalidità’ e ‘ingiustificatezza’, e Anna Rota, “Anche il dirigente deve impugnare il licenziamento nei termini di cui all’art. 6, L. n. 604/1966”, 275)
  16. La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 604 del 1966, neppure ai dirigenti convenzionali, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, a eccezione, tuttavia, degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro che dirigenti non sono, non essendo le mansioni da essi espletate riconducibili in alcun modo alla nozione ordinamentale o contrattuale del dirigente. (Cass. 23/11/2012 n. 20763, Pres. Roselli Est. Balestrieri, in Lav. nella giur. 2013, 197)
  17. È illegittimo il licenziamento intimato al dirigente d’azienda sulla scorta di accertamenti effettuati per un lasso di tempo inidoneo a effettuare una valutazione compiuta del suo operato. (Trib. Milano 26/7/2012, Est. Scarzella, in D&L 2012, con nota di Davide Bonsignorio, “Sul potere di controllo del datore di lavoro”, 738)
  18. I criteri cui parametrare la giustificatezza del licenziamento del dirigente sono quelli del rispetto da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede e del divieto di licenziamento discriminatorio per motivo illecito nonché quello civilistico che in materia di inadempimento impone una valutazione della gravità dell’inadempimento secondo un criterio di proporzionalità. (Trib. Milano 21/3/2012, Giud. Atanasio, in Lav. nella giur. 2012, 731)
  19. La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo ex art. 1 della l. n. 604/1966, potendo rilevare qualsiasi motivo purché apprezzabile sul piano del diritto idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili “ex ante”, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e, quindi, giustificarne il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso, con valutazione rimessa al giudice di merito sindacabile, in sede di legittimità, solo per vizi di motivazione. (Cass. 1/2/2012 n. 1424, Pres. Lamorgese Rel. Arienzo, in Lav. nella giur. 2012, 404)
  20. Stante l’autonomia concettuale del requisito della “giustificatezza contrattuale” rispetto a quello di giustificato motivo (nel senso che il criterio di valutazione del primo, di natura prettamente convenzionale, risulta più ampio di quello del secondo, tipizzato dall’art. 3 della legge 604/66), la soppressione della posizione organizzativa di direttore generale, quale insindacabile scelta imprenditoriale giustificata dalla necessità di fronteggiare situazioni di perdite economiche dell’azienda, giustifica il licenziamento del dirigente. (Trib. Napoli 17/1/2012 n. 975, Giud. Scognamiglio, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Joanna Mugneco, “Giustificatezza e obbligo di repechage: aspetti controversi del licenziamento del dirigente d’azienda”, 822)
  21. Pur dovendosi riconoscere che le garanzie procedimentali ex art. 7, l. n. 300/1970 trovano applicazione anche nell’ipotesi di licenziamento del personale dirigente, tale tutela non ha luogo nel caso in cui il recesso non abbia natura ontologicamente disciplinare ma sia invece dovuto a una riorganizzazione aziendale volta a fronteggiare una sfavorevole congiuntura economica. (Cass. 21/3/2011 n. 6367, Pres. Vidiri Rel. Arienzo, in Lav. nella giur. 2011, 630)
  22. Le garanzie procedimentali sancite dalla l. n. 300/1970 (art. 7, commi 2 e 3) trovano applicazione anche nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che egli riveste nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o colpevole), sia che, a base del recesso, siano comunque poste condotte suscettibili di far venire meno la fiducia. Dalla violazione delle predette garanzie derivano incontestabilmente l’impossibilità di far valutare le condotte che hanno provocato il recesso e la conseguente applicazione degli effetti stabiliti dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento ingiustificato. (Cass. 17/1/2011 n. 897, Pres. Foglia Est. Curzio, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Gianluigi Girardi, 807)
  23. Ai fini della spettanza dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la giustificatezza del recesso non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale continuazione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe radicalmente negata ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa. (Trib. Milano 2/9/2010, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2010, 1145)
  24. La nozione di giustificatezza del licenziamento, in considerazione della specialità della posizione del dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale, si distingue da quella di giustificato motivo ex L. 15 luglio 1966, n. 604, e consiste nell’assenza di arbitrarietà, o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento che lo dispone, da correlare alla presenza di valide ragioni di cessazione del rapporto, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede. (Cass. 14/4/2010 n. 8893, Pres. Vidiri Est. Bandini, in Orient. giur. lav. 2010, 359)
  25. Il dirigente che, in conseguenza della risoluzione del rapporto di lavoro per recesso ingiustificato del datore, rivendica il risarcimento del danno biologico dovuto all’illegittima condotta datoriale, deve provare i fatti posti a fondamento della domanda, in quanto gli effetti risarcitori non derivano automaticamente dall’accertata illegittimità del recesso, e, in particolare, deve provare l’elemento soggettivo della colpa grave e del dolo sotteso ai comportamenti datoriali. (Cass. 22/3/2010 n. 684, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in D&L 2010, con nota di Vania Scalambrieri, “Il risarcimento del danno biologico per illegittimo licenziamento presuppone la prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave in capo al datore di lavoro”, 582)
  26. La valutazione della giustificatezza del licenziamento del dirigente deve essere operata sulla base di criteri non integralmente coincidenti con quelli di cui alla L. n. 604/196: invero l’espressione “giustificatezza” utilizzata nella disposizione contrattuale non corrisponde al concetto legale di giustificato motivo, posto che, comunque, rispetto al dirigente resta un’area di libera recedibilità del datore di lavoro. Ciò significa che il licenziamento del dirigente è ingiustificato ogni volta che il datore di lavoro eserciti il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all’esecuzione dei contratti ex art. 1375 c.c. (Trib. Milano 22/11/2007, Est. Vitali, in Lav. nella giur. 2008, 742)
  27. La distinzione, operata dalla giurisprudenza in passato, tra dirigente apicale e dirigente convenzionale è irrilevante con specifico riferimento alle garanzie procedimentali dettate dall’art. 7 SL, le quali devono essere, comunque, applicate a prescindere dalla specifica collocazione che il dirigente assume nell’impresa. Ne consegue la declarazione diilliceità del licenziamento disposto nei confronti del dirigente per ragioni soggettive, in assenze delle garanzie difensive previste dalla disciplina statutaria. (Cass. 21/11/2007 n. 24246, Pres. Ciciretti Est. Monaci, in D&L 2008, con nota di Giuseppe Bulgarini D’Elci, “Licenziamento del dirigente: si conferma il superamento della distinzione tra dirigenti apicali e dirigenti minori o pseudodirigenti”, 283)
  28. La declaratoria di illiceità del licenziamento disposto nei confronti del dirigente comporta unicamente il diritto al pagamento delle apposite indennità previste dalla contrattazione collettiva, ma non quello alla reintegrazione nel posto di lavoro né al pagamento delle retribuzioni mensili maturate medio tempore, in quanto ai dipendenti inquadrati nella categoria dirigenziale – a prescindere dalla distinzione tra un livello alto, intermedio o basso – non si applica la disciplina legale sulla limitazione dei licenziamenti. (Cass. 21/11/2007 n. 24246, Pres. Ciciretti Est. Monaci, in D&L 2008, con nota di Giuseppe Bulgarini D’Elci, “Licenziamento del dirigente: si conferma il superamento della distinzione tra dirigenti apicali e dirigenti minori o pseudodirigenti”, 283)
  29. In assenza di una definizione contrattuale di cosa renda ingiustificato il licenziamento non sarà possibile fare riferimento alla normativa in vigore per le altre categorie di lavoratori. Infatti, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente ai fini dell’indennità spettante alla stregua della contrattazione di categoria non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del lavoratore subordinato ex L. n. 604/1966, stante la peculiarità di un rapporto in cui l’aspetto fiduciario assume – specialmente per il dirigente maggiore o di vertice – un’incisiva rilevanza. Conseguentemente, fatti e condotte non integrabili una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, con conseguente disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva, allorquando risultino suscettibili di concretizzazione valide ragioni di cessazione del rapporto lavorativo in relazione al carattere spiccatamente fiduciario di questo. (Trib. Milano 14/11/2007, Est. Ravazzoni, in Lav. nella giur. 2008, 430)
  30. La disciplina limitativa dei licenziamenti prevista per i dirigenti trova applicazione non solo nei confronti del dirigente apical, posto cioè al vertice dell’organizzazione aziendale e preposto, quale alter ego dell’imprenditore, alla direzione dell’intera azienda ovvero di una branca o settore autonomo di essa, ma anche nei confronti di quello non apicale, con esclusione solamente dei soggetti per i quali l’attribuzione della qualifica sia avvenuta, sulla base di una convenzione individuale, in deroga ai principi di legge e alla normativa contrattuale collettiva. La qualifica di dirigente non presuppone una posizione apicale assoluta, dovendosi ritenere che la presenza di una pluralità di dirigenti di livelli diversi, con graduazione di compiti, sia compatibile con la complessità delle attuali organizzazioni aziendali. (Cass. 5/10/2007 n. 20895, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Francesco Basenghi, “Il licenziamento del dirigente: alcuni spunti di riflessione”, 659)
  31. Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenzial, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del recesso del datore di lavoro ex art. 1 l. n. 604/1966; conseguentemente, fatti e condotte non integranti tali fattispecie con riguardo ai rapporti di lavoro subordinato in generale possono ben giustificare il licenziamento, ai fini della giustificatezza del quale può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro. (Cass. 5/10/2007 n. 20895, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Francesco Basenghi, “Il licenziamento del dirigente: alcuni spunti di riflessione”, 659)
  32. Il lavoratore che abbia rinunziato alla qualifica dirigenziale già acquisita e abbia smesso di svolgerne le relative mansioni, pur conservando il precedente trattamento retributivo dopo il passaggio alle mansioni inferiori, può essere licenziato (ove non sia intervenuta la caducazione di tale rinuncia, che non è nulla ma annullabile, ai sensi dell’art. 2113 c.c., su impugnazione del solo lavoratore) soltanto per giusta causa o giustificato motivo, ancorchè per fatti riferibili a epoca in cui il lavoratore medesimo era dirigente, dovendo la tutela applicabile essere individuata con riguardo al posto ricoperto dal lavoratore all’epoca del licenziamento, dato che in tale posto – e non in quello (dirigenziale) precedentemente occupato – egli sarebbe reimmesso in caso di accoglimento dell’impugnazione del recesso. (Nella specie, alla stregua del principio enunciato, la S.C. ha rigettato il ricorso proposto e confermato a sentenza impugnata, con la quale, sul presupposto dell’applicabilità della tutela prevista dalla L. n. 300 del 1970, era stata accolta l’impugnativa di licenziamento, siccome privo di giustificato motivo o di giusta causa, intimato nei confronti di primario di reparto ospedaliero che aveva svolto le mansioni di dirigente apicale, quale direttore sanitario, dal cui incarico era stato dimesso senza che lo stesso avesse impugnato il relativo provvedimento datoriale, così rinunciando alla qualifica dirigenziale ricoperta, con la conseguente impossibilità, da parte del datore di lavoro, di far valere, in suo favore, l’invalidità del proprio atto negoziale di revoca dell’incarico di dirigente al dipendente). (Cass. 20/2/2007 n. 3920, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in Lav. nella giur. 2007, 1145 e in ADL 2008, con commento di Carla Spinelli, “Rinuncia alla qualifica dirigenziale e tutela applicabile in caso di licenziamento”, 162, e in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Tiziana Laratta, “Rinuncia alla qualifica dirigenziale e applicazione del regime generale di protezione contro il licenziamento”, 856)
  33. Nel caso di licenziamento di un dirigente pubblico per mancato superamento della prova, l’atto di recesso, qualora intimato dopo che il periodo di prova era scaduto, è illegittimo e in virtù dell’art. 51, D.Lgs. 165/2001 le conseguenze di tale illegittimità sono quelle previste dall’art. 18 SL: reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno. (Cass. 1/2/2007 n. 2233, Pres. Senese Rel. De Matteis, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Luigi Menghini, 895, e in Lav. nelle P.A. 2007, con commento di Marco Sgroi, “Dirigenti pubblici e tutela reale ex art. 18 SL in caso di licenziamento illegittimo”, 515)
  34. Il licenziamento ad nutum, a prescindere dalla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, è applicabile solo a un dirigente apicale, mentre il licenziamento dello pseudo dirigente è soggetto alle norme ordinarie della L. 15/7/66 n. 604 e dello Statuto dei Lavoratori. (Cass. 22/12/2006 n. 27464, Pres. Senese Est. D’Agostino, in D&L 2007, con nota di Alvise Moro, Pseudo dirigenti e tutela reale”, 207 e in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di A. Zoppoli, “Il lavoro dirigenziale tra regole giuridiche e distinzioni sociologiche”, 641)
  35. Il rapporto di lavoro dei dirigenti, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1990, non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3, legge 604 del 1966, non avendo la suddetta legge n. 108 inciso sull’art. 10 della legge n. 604, con la consegu8enza che nel suddetto rapporto di lavoro la stabilità può essere assicurata soltanto mediante l’introduzione a opera dell’autonomia collettiva o individuale di limitazioni alla facoltà di recesso del datore di lavoro; tuttavia, in caso di recesso – come nella specie – non affetto da nullità ma soltanto ingiustificato, l’atto di recesso è inidoneo a realizzare la risoluzione del rapporto di lavoro soltanto nell’ambito dell’area di operatività della stabilità reale. (Nella specie, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che, a fronte del recesso datoriale dal rapporto di lavoro con due dirigenti comunicato per un motivo non consentito dal contratto di lavoro, aveva ritenuto che il rapporto di lavoro non si fosse risolto). (Cassa con rinvio, App. Trieste, 28 gennaio 2004). (Cass. 22/6/2006 n. 14461, Pres. Mercurio Est. Lamorgese, in Dir. e prat. lav. 2007, 435)
  36. Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966 e la nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 della stessa legge 15 luglio 1966, n. 604. Inoltre, ai fini della spettanza dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la giustificatezza del recesso del datore di lavoro non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e di buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe radicalmente negata, ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa. (Nella specie, la S.C., sulla scorta degli enunciati principi, ha confermato la sentenza impugnata che, all’esito di giudizio di rinvio, aveva correttamente escluso la pretestuosità del licenziamento del dirigente ricorrente, alla stregua – in applicazione della sentenza di cassazione rescindente – della giustificatezza del recesso datoriale fondato sul legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore di riorganizzare le risorse umane in modo da consentire una gestione non in perdita dell’azienda). (Rigetta, App. Milano, 28 aprile 2003). (Cass. 14/6/2006 n. 13719, Pres. Ianniruberto Est. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2007, 134)
  37. Non ricorre il requisito della giustificatezza del dirigente nel caso in cui dalla comunicazione di recesso emerga il connotato meramente eventuale e potenziale, e non attuale, della soppressione del posto di lavoro, collegata all’approvazione di un progetto di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale nel quale non sono esplicati tempi e modalità delle medesime e nella quale si faccia riferimento alla non prevedibilità di un futuro proficuo utilizzo del lavoratore. (Corte app. Firenze 23/11/2005, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2006, con n. Roberto Muller, “Sulla nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente”, 601)
  38. Anche nell’ipotesi di licenziamento del dirigente per motivi di carattere economico conseguenti a scelte organizzative dell’impresa, è indispensabile valutare la natura spiccatamente fiduciaria del rapporto di lavoro del dirigente; pertanto, in ragione della peculiare struttura del rapporto del dirigente, è giustificato il licenziamento motivato dalla convenienza della riduzione dei costi gestionali, non essendo necessaria l’esistenza di una conclamata crisi economica aziendale. (Corte app. Firenze 25/10/2005, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2006, con n. Andrea Danilo Conte, “Il licenziamento economico del dirigente tra oggettività e soggettività del vincolo fiduciario”, 581)
  39. Considerata la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento ex art. 1 della legge 604/1966; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato, ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell’idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto idonea a pregiudicare il rapporto di fiducia la condotta di un dirigente che aveva comunicato ad un collega fatti non veri e disdicevoli sul conto della società e del suo presidente ed aveva determinato talvolta un intralcio al normale svolgimento dell’attività produttiva). (Cass. 19/8/2005 n. 17039, Pres. mercurio Rel. Curcuruto, in Dir. e prat. lav. 2006, 472)
  40. È illegittimo il licenziamento del dirigente di azienda industriale, se il provvedimento risulti carente di specifiche e circostanziate motivazioni, così come prescritto dalla contrattazione collettiva applicabile. La motivazione deve sostanziarsi nella precisazione degli addebiti che determinano l’uso del potere risolutivo e non può ritenersi in alcun modo surrogata dalla conoscenza aliunde degli stessi. L’inottemperanza a tale obbligo inficia la validità del provvedimento di licenziamento per mancanza di requisiti formali ex art. 1352 c.c. (Trib. Milano 12/7/2005, Est. Chiavassa, i Orient. Giur. Lav. 2005, 694)
  41. A differenza dell’esonero del datore di lavoro dal pagamento dell’indennità supplementare, generalmente prevista per i dirigenti d’azienda della contrattazione collettiva, che presuppone la giustificatezza del licenziamento, l’esonero dall’obbligo del preavviso o da quello alternativo del pagamento dell’indennità sostitutiva presuppone la giusta causa, nozione non del tutto sovrapponibile a quella di giustificatezza; mentre la giusta causa consiste in un fatto che, in concreto valutato (e cioè, sia in relazione alla sua oggettività sia con riferimento alle sue connotazioni soggettive), determina una grave lesione della fiducia del datore di lavoro nel proprio dipendente, tale da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto, tenuto conto altresì della natura di quest’ultimo e del grado di fiducia che esso postula, la ricorrenza della giustificatezza dell’atto risolutivo – ancor più strettamente vincolata al carattere fiduciario del rapporto di lavoro dirigenziale – è da correlare alla presenza di valide ragioni di cessazione del rapporto lavorativo, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede, sicchè non giustificato è il licenziamento per ragioni meramente pretestuose, al limite della discriminazione, ovvero anche del tutto irrispettoso delle regole procedimentali che assicurano la correttezza dell’esercizio del diritto. (Cass. 1/6/2005 n. 11691, Pres. Ciciretti rel. Stile, in Lav. e prev. oggi 2005, 1278)
  42. In tema di licenziamento dei dirigenti, per quanto non possa affermarsi che la nozione di “giustificatezza” coincida con quella di giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, gli elementi di tale nozione devono essere ricostruiti dal giudice di merito – sulla scorta delle specifiche espressioni letterali delle clausole contrattuali – attraverso il riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento. (Nella specie, la Corte Cass. ha ritenuto che il giudice di merito non avesse fatto corretta applicazione di questo principio per aver commisurato gli addebiti contestati esclusivamente in termini di lesione del vincolo fiduciario, nulla dicendo in ordine all’eventualità che gli stessi potessero integrare la giustificatezza, nel senso della non arbitrarietà o non pretestuosità, del licenziamento). (Cass. 3/1/2005 n. 27, Pres. Mercurio Rel. Foglia, in Dir. e prat. lav. 2005, 1361)
  43. La regola della licenziabilità ad nutum dei dirigenti, desumibile dall’art. 10, L. n. 604/1966, è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, che, nell’ambito dell’azienda, abbia un ruolo caratterizzato dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi. (Cass. 9/8/2004 n. 15351, Pres. Sciarelli Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Cesare Pozzoli, 556)
  44. Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento ex art. 1 della legge n. 604 del 1966, conseguentemente fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente: maggiori poteri presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio più ampio ai fatto idonei a scuoterla. La valutazione dell’idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto idonea a minare il rapporto di fiducia la condotta di un dirigente che non aveva controllato l’ufficio amministrativo da lui dipendente, in maniera tale da ottenere, all’occorrenza, dati contabili certi e precisi, sulla base dei quali predisporre, in qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione, un progetto di bilancio attendibile e tempestivo e per non aver fatto sì che gli uffici da lui dipendenti fossero efficienti e in grado di approntare la documentazione necessaria). (Cass. 7/8/2004 n. 15322, Pres. Sciarelli Rel. Cuoco, in Dir. e prat. lav. 2005, 127)
  45. La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento ex art. 1 della legge 15 luglio 1966 n. 604, stante la peculiarità di un rapporto in cui l’aspetto fiduciario assume (Cass. 6 aprile 1998 n. 3527). Conseguentemente, fatti o condotte non integrabili una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento del dirigente; per cui, ai fini della giustificatezza del licenziamento può rilevare qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto (Cass. 27 agosto 2003 n. 12562). In tal modo, limiti al potere del datore sono stati individuati in primo luogo nell’arbitrarietà (al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso: Cass. 3 aprile 2002 n. 4729), nonché nel rispetto dei principi di correttezza e di buona fede, dei quali è specificazione anche il divieto di atti discriminatori ex articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108 (ex plurimis, Cass. 12 febbraio 2000 n. 1591). (In fattispecie, la Suprema Corte ha ritenuto insussistente la giustificatezza del licenziamento del dirigente, anzi generici e pretestuosi gli addebiti, confermando così la sentenza del Tribunale). (Cass. 1/7/2004 n. 12090, Pres. Prestipino Rel. Cuoco, in Lav. e prev. oggi 2004, 1845)
  46. La nozione contrattuale collettiva di giustificatezza del licenziamento del dirigente non coincide con quella di giusta causa o giustificato motivo ed è meno rigida dell’altra di cui all’art. 2119 c.c. e, soprattutto, di cui all’art. 3, L. n. 604/1966, in particolare essendone estranei, quanto al rapporto di quest’ultima, i caratteri di extrema ratio attribuiti dalla giurisprudenza al giustificato motivo oggettivo, con il conseguente obbligo di repéchage. Tuttavia, ai fini della ricostruzione della nozione appare più appropriato il riferimento all’esistenza di una causa ragionevole e meritevole di tutela anziché alle regole di correttezza e buona fede e alla pretestuosità del licenziamento, essendo quelle regole strumenti di adattamento delle singole norme ai principi dell’ordinamento. (Corte d’appello Milano 11/6/2004, Pres. Ruiz Rel. De Angelis, in Lav. nella giur. 2005, 189)
  47. La specialità della posizione assunta dal dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale impedisce una identificazione della nozione di del suo licenziamento-sottratto al regime della tutela obbligatoria di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966, come di quella reale ex art. 18 legge n. 300/1970-con quelle di o del licenziamento del lavoratore subordinato, ai fini del riconoscimento del diritto alla indennità supplementare spettante alla stregua della contrattazione collettiva al dirigente licenziato ingiustificatamente. Trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale, l’interpretazione della disposizione contrattuale che prevede il canone della giustificatezza del recesso va compiuta-nell’ambito di una valutazione che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso del datore di lavoro-dal Giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneuticacontrattuale, ovvero se non sia sorretta da una motivazione sufficiente logica e coerente. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto sussistenti i presupposti per l’applicabilità dell’art. 19 del Ccnl dei dirigenti di imprese industriali, il quale prevede, a carico dell’imprenditore, il pagamento di una penale risarcitoria, nel caso del licenziamento privo del requisito della giustificatezza, in quanto le risultanze dell’istruttoria avevano permesso di accertare sia che il dirigente licenziato non era mai stato addetto al settore la cui ristrutturazione era stata indicata quale causa della risoluzione del rapporto, sia che la riorganizzazione di altri settori dell’azienda, pure richiamata per giustificare il recesso, era stata effettuata in un tempo apprezzabilmente anteriore al licenziamento). (Cass. 20/6/2003, n. 9896, Pres. Dell’Anno, Rel. Stile, in Dir. e prat. lav. 2003, 3179)
  48. Ove con la lettera di licenziamento di un dirigente il datore di lavoro comunichi il recesso con effetto immediato, senza il rispetto, quindi, dei termini di preavviso, e con riconoscimento del diritto del dirigente alla relativa indennità sostitutiva, l’effetto risolutorio del rapporto, proprio della dichiarazione unilaterale recettizia del datore, si produce al momento del ricevimento della comunicazione da parte del dipendente. Ne consegue l’irrilevanza della malattia insorta successivamente la quale può sospendere solo la decorrenza del periodo di preavviso lavorato, dato che l’effetto c.d. reale attribuito al preavviso del contratto collettivo (interpretato secondo i canoni di ermeneutica contrattuale) altro non è che una fictio iuris che consente al dirigente di beneficiare di eventuali aumenti economici e normativi introdotti successivamente alla risoluzione del rapporto. (Trib. Milano 17/6/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 385)
  49. La nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966. Pertanto, i comportamenti del dirigente, pur non integrabili in una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato, possono giustificare il licenziamento del dirigente, con conseguente disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva, allorquando risultino suscettibili di concretizzare una valida ragione di cessazione del rapporto lavorativo in ragione della concreta posizione assunta nell’organizzazione aziendale del dirigente stesso e del carattere spiccatamente fiduciario del rapporto di lavoro. (Cass. 12/4/2002, n. 11118, Pres. Sciarelli, Est. Balletti, in Giur. italiana 2003, 1376, con nota di Camilla Nannetti, Brevi note sulla nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente)
  50. La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quelle di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento del lavoratore subordinato di cui alla L. 15/7/66 n. 604, stante la peculiarità di un rapporto in cui l’aspetto fiduciario assume – specialmente per il cosiddetto dirigente maggior o di vertice – un’incisiva rilevanza. Tuttavia, al fine di considerare giustificato il licenziamento del dirigente, si richiede che sopravvenga un qualche fatto, oggettivamente apprezzabile, che, se anche non sia dimostrativo del venir meno del rapporto di fiducia tra imprenditore e dirigente, tuttavia sia tale da indurre il primo a ritenere non conveniente, per il buon andamento dell’azienda, utilizzare ulteriormente il secondo. (Nella fattispecie la Corte ha escluso la giustificatezza del licenziamento disposto dal datore di lavoro non per sopperire a mancanze imputabili, sia pure indirettamente, alla conduzione aziendale da parte del dirigente, esclusivamente al fine di sostituirlo con altro dirigente da lui più apprezzato). (Cass. 8/5/2001 n. 9715, Pres. Santojanni Est. Mileo, in D&L 2002, 421, con nota di Claudia Messana, “Sull’applicabilità delle garanzie procedimentali dell’art. 7 SL al dirigente di vertice declassato e sul licenziamento del dirigente per ragioni di nepotismo”)
  51. Nell’ambito del rapporto dirigenziale, la cui disciplina è ispirata alla libera recedibilità, e in virtù dell’autonomia negoziale riconosciuta dagli artt. 1321 e 1322 c.c., le parti sono libere, così come di stipulare un patto di prova per il caso di nuova assunzione, anche di riconoscere pattiziamente soltanto al datore di lavoro la facoltà di risolvere il rapporto entro un breve termine, dietro corresponsione al dirigente di una penale, scegliendo in tal modo uno schema contrattuale preposto a rimuovere possibili situazioni di incertezza sugli effettivi diritti della parti nel caso di estinzione (Cass. 30/10/00, n. 14299, pres. Santojanni, est. Putaturo Donati, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 542, con nota di Di Paola, Patto di “prova unilaterale” atipico nel rapporto dirigenziale e ambito di applicazione dell’articolo 2113 c.c.: un chiarimento utile della Cassazione)
  52. La specialità della posizione assunta dal dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale impedisce una identificazione tra la nozione di “giustificatezza” del licenziamento ai fini della indennità supplementare spettante alla stregua della contrattazione collettiva al dirigente e quella di “giusta causa” o “giustificato motivo” del licenziamento del lavoratore subordinato a norma della l. n. 604/66; ne consegue che fatti o condotte non integranti giusta causa o giustificato motivo con riguardo al rapporto di lavoro in generale ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, con conseguente disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva; in questa prospettiva il criterio col quale valutare la legittimità del licenziamento del dirigente è dato dal rispetto da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. 4/1/00, n. 22, pres. Dell’Anno, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 298, con nota di Foglia, Licenziamento del dirigente e qualificazione della nozione convenzionale di “giustificatezza”)
  53. L’esclusione legale della categoria dei dirigenti dall’ambito dell’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, con la conseguente possibilità di licenziamento ad nutum, è limitata unicamente a coloro che appartengono all’alta dirigenza, caratterizzata dall’ampiezza ed effettività del potere gestorio e corrispondente alla nozione originaria dell’alter ego dell’imprenditore e non anche agli appartenenti alla dirigenza media e bassa, che gode delle medesime garanzie di stabilità degli altri lavoratori. In conformità a tale principio desunto da norme inderogabili di legge, il Ccnl del personale direttivo delle aziende di credito distingue tra dirigenti che compongono la direzione dell’intera azienda ovvero di pari grado, il cui licenziamento resta regolato esclusivamente dal codice civile e altri dirigenti, cui si applicano le normali regole del licenziamento “giustificato” (Cass. sez. lav. 12 novembre 1999 n. 12571, pres. De Tommaso, est. Sciarelli, in D&L 2000, 209, n. Ianniello, Ancora sul licenziamento dei dirigenti intermedi. Una svolta?; in Mass. Giur. lav. 2000, pag. 73, con nota di Gramiccia, Il licenziamento del dirigente di vertice e dello pseudo dirigente; in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 746, con nota di Venditti, Recesso ad nutum e licenziamento del dirigente minore)
  54. Il requisito della giustificatezza del licenziamento richiesto dalla contrattazione collettiva fornisce ai dirigenti – non dotati di stabilità né reale né obbligatoria – la minor tutela consistente nel penalizzare il recesso che non risponda a condizioni minime di ragionevolezza e cioè che da un lato non sia coerente con la motivazione addotta e dall’altro rappresenti l’esercizio arbitrario e non conforme a buona fede e correttezza della facoltà di recesso (Trib. Milano 12/1/99, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1999, 385)
  55. L’attribuzione da parte del datore di lavoro della qualifica dirigenziale a un proprio dipendente può essere contestata da quest’ultimo ove le mansioni effettivamente svolte non corrispondano a quelle previste e/o manchino i caratteri distintivi propri della qualifica dirigenziale: in tal caso, trattandosi in realtà di pseudo dirigente, il rapporto di lavoro soggiace all’ordinaria disciplina legale limitativa dei licenziamenti (Pret. Napoli 10/6/97, est. Vitiello, in D&L 1998, 109, n. MANNA, Il controllo del giudice sull’attribuzione convenzionale della qualifica di dirigente)
  56. Non può ritenersi giustificato il licenziamento del dirigente che non sia sorretto da motivi di una certa consistenza e ragionevolezza, tenendo conto delle posizioni e dei contrapposti interessi delle parti: in particolare, non può ritenersi contestabile il modo in cui il dirigente perviene a un risultato utile all’azienda, a meno che non gli si imputi di avere agito scorrettamente o in modo illecito; nemmeno è censurabile l’avere posto all’azienda l’alternativa fra le proprie dimissioni e la risoluzione del rapporto con un consulente, perché il dirigente può disporre del proprio rapporto di lavoro e può e deve esprimere i propri giudizi e convinzioni nelle questioni sulle quali è chiamato a operare e rispondere (Trib. Milano 10/9/97, pres. ed est. Ruiz, in D&L 1998, 190)
  57. Al licenziamento intimato al dirigente, giusto il disposto di cui all’art. 10 L. 604/66, non può trovare applicazione il termine di decadenza di cui all’art. 6 della medesima legge, mentre si applica la procedura ex art. 7 S.L. (Pret. Monza 11/3/96, est. Padalino, in D&L 1996, 792)
  58. Compete il risarcimento dei danni al dirigente che abbia perduto il diritto alla copertura assicurativa prevista dall’art. 12 c. 4 CCNL 16/5/85 Dirigenti aziende industriali, a cagione della colpevole inerzia della società datrice nei confronti della compagnia assicuratrice, ove risulti accertato che il rapporto di lavoro si è effettivamente risolto a causa dell’invalidità del dirigente, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto (Trib. Sondrio 19/12/94, pres. Guadagnino, est. Covino, in D&L 1996, 183)
  59. In tema di licenziamento del dirigente industriale, il cui rapporto di lavoro è caratterizzato da una accentuata fiducia, spetta al giudice di merito apprezzare – con valutazione incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata – se l’atto di recesso sia determinato o meno dalla menomazione dell’elemento fiduciario e sia quindi giustificato dalla presenza di una giusta causa. (Trib. Forlì 18/8/2004, Est. Sorgi, in Lav. nella giur. 2005, 190)
  60. Il licenziamento di una dirigente, che sia stato adottato per ragioni collegate alla gravidanza o alla maternità della stessa, costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso, con le conseguenze previste dall’art. 18 SL, a prescindere dal numero dei dipendenti e anche in favore dei dirigenti. (Trib. Milano 9/8/2007, Est. Ravazzoni, in D&L 2007, con nota di Andrea Bordone, “Rientro dalla maternità e licenziamento: una tipica ipotesi di discriminazione diretta”, 1235)
  61. Il datore di lavoro non può pretendere che il dirigente sia disposto ad assumere qualsiasi iniziativa nell’interesse della società, specie se il comportamento richiesto sia ritenuto, fondatamente, tale da agevolare il compimento di atti illeciti, consistenti nella fattispecie nella richiesta di alterare i dati del bilancio della società (operazione poi effettuata con la collaborazione di altro dipendente). Siccome la perplessità della dirigente amministrativa sulle variazioni contabili richiestele erano motivate da specifiche ragioni non pretestuose, la perdita del posto di lavoro a seguito di licenziamento disciplinare si pone in contrasto con il principio di buona fede e, conseguentemente, alla manager licenziata perché rifiutatasi di compiere atti illeciti o irregolarità fiscali, spetta sia l’indennità per mancato preavviso sia l’indennità supplementare (Cass. 8/11/2002, n. 15749, Pres. Trezza, Rel. Fogli, in Lav. e prev. oggi 2003, 323)
  62. E’ illegittimo il licenziamento intimato a un dirigente per essersi rifiutato, in assenza di un preciso ordine in tal senso, di trasferirsi all’estero a svolgere la propria attività lavorativa come prospettatogli dalla società datrice di lavoro (Trib. Milano 9 maggio 2000, est. Martello, in D&L 2000, 1009)
  63. Deve ritenersi illegittimo il licenziamento disposto nei confronti di un dirigente dell’Ente Poste italiane per il raggiungimento dei 65 anni di età, come previsto dalla normativa successiva alla privatizzazione dell’Ente, qualora il dirigente avesse precedentemente esercitato l’opzione ai sensi degli artt. 3, L. 23/10/92 n. 421 e 16, D. Lgs. 30/12/92 n. 503 per la prosecuzione del rapporto per i due anni successivi al compimento dei 65 anni, stante il mantenimento ai sensi dell’art. 6, 1° comma, L. 29/1/94 n. 71 dei diritti acquisiti prima della privatizzazione, con conseguente obbligo da parte dell’Ente Poste di corrispondergli tutte le retribuzioni dal licenziamento fino alla data in cui il dirigente avrebbe avuto diritto alla continuazione del rapporto, con esclusione invece dell’indennità supplementare (Trib. Milano 9/5/98, pres. Gargiulo, est. Ruiz, in D&L 1998, 1037)
  64. Il licenziamento del dirigente per soppressione di posto in conseguenza della ristrutturazione di ufficio è giustificato, le cause di giustificatezza di diritto comune sono assorbite nel principio di giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3, L. 15/7/66 n. 604 (Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 2/12/97, est. Perrino, in D&L 1998, 454, n. PANDURI, Soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione dell’organigramma aziendale; giustificato motivo e giustificatezza del licenziamento del dirigente; giustificatezza e cause tipiche di risoluzione del contratto; criteri e principi che sottendono alla giustificatezza del licenziamento e principio della buona fede)
  65. Il comportamento del dirigente, che, in nome e per conto della società datrice, abbia sottoscritto una modifica di patti contrattuali, rivelatasi poi eccessivamente onerosa per l’azienda, integra gli estremi del giustificato motivo di licenziamento, ma non quelli della giusta causa, trattandosi di atto rientrante nei poteri di rappresentanza del dirigente, e dall’antieconomicità non immediatamente percepibile, sì da potersi escludere il dolo e la colpa grave, in relazione ai primari doveri di diligenza e fedeltà (Trib. Milano 19/4/97, pres. Mannacio, est. Accardo, in D&L 1997, 813)

 

 

Licenziamento disciplinare

  1. Le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7 l. 20 maggio 1970, n. 300 devono trovare applicazione anche nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente (nel caso di specie la contestazione è stata ritenuta del tutto generica mancando di una precisa descrizione dei fatti e delle relative coordinate spazio-temporali “al punto da rendere pressoché impossibile individuare il nucleo dei fatti storici integranti la mancanza che si intende sanzionare”). (Trib. Milano 21/8/2014, Giud. Dossi, in Lav. nella giur. 2014, 1132)
  2. Il licenziamento del dirigente, motivato da una condotta colposa o comunque manchevole, deve essere considerato di natura disciplinare, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, sicché deve essere assoggettato alle garanzie dettate a tutela del lavoratore circa la contestazione degli addebiti e il diritto di difesa. (Cass. 30/7/2013 n. 18270, Pres. Stile Est. Venuti, in Lav. nella giur. 2013, 1042)
  3. Le garanzie procedimentali (di cui all’art. 7 St. Lav. N.d.r.) si applicano nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente, a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa e, quindi, senza distinzione alcuna tra dirigenti top manager e altri appartenenti alla stessa categoria. (Trib. Milano 24/6/2013, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2013, 959)
  4. La responsabilità dirigenziale deve essere accertata attraverso il parere obbligatorio del comitato dei garanti, pena la nullità del licenziamento. Ma l’insubordinazione a un ordine di servizio rientra nella responsabilità disciplinare, per cui la mancanza del parere non è rilevante (fattispecie relativa al licenziamento per insubordinazione di un dirigente medico). (Cass. 17/7/2012 n. 11250, Pres. Vidiri Est. Mancino, in Lav. nella giur. 2012, 1110)
  5. In tema di licenziamento del dirigente, la giusta causa, che esonera il datore di lavoro dall’obbligo di concedere il preavviso o di pagare l’indennità sostitutiva, non coincide con la giustificatezza, che esonera il datore di lavoro soltanto dall’obbligo di pagare l’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, in quanto la giusta causa consiste in un fatto che, valutato in concreto, determina una tale lesione del rapporto fiduciario da non consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso del datore di lavoro avverso la decisione di merito che l’aveva condannato al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, ritenendo che la condotta del dirigente in malattia, assentatosi dal domicilio nelle ore di reperibilità per la visita medica di controllo al fine di sottoporsi a cure ambulatoriali programmabili in orari differenti, non poneva in dubbio la veridicità della patologia e quindi, pur giustificando il licenziamento per il maggior rigore cui è tenuto un lavoratore di posizione apicale, non impediva la prosecuzione provvisoria del rapporto). (Cass. 10/4/2012 n. 5671, Pres. Miani Canevari Est. Mancino, in Orient. Giur. Lav. 2012, 412)
  6. La mera sottoposizione all’autorità giudiziaria di fatti o atti per valutarne la rilevanza penale e per la verifica dell’integrazione di estremi di specificati titoli di reato non può aver riflesso nell’ambito del rapporto di lavoro, anche se connotato da un particolare vincolo di fiducia come quello del lavoratore con qualifica dirigenziale, e non costituisce un comportamento di rilievo disciplinare sanzionabile con il licenziamento. (Cass. 23/2/2012 n. 4707, Pres. Vidiri Est. Amoroso, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Marco Peruzzi, “Diritto di critica, whistleblowing e obbligo di fedeltà del dirigente”, 831)
  7. Con riferimento a una prestazione continuativa di un orario di lavoro pressoché corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro part-time può trasformarsi in rapporto a tempo pieno, nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non essendo necessario alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, bastando in proposito dei fatti concludenti, in relazione alla prestazione lavorativa resa, costantemente secondo l’orario normale o, addirittura, superiore. (Cass. 13/8/2010 n. 21160, Pres. Sciarelli Rel. Morcavallo, in Lav. Nella giur. 2011, con commento di Gianluigi Girardi, 283)
  8. La normativa nazionale sulla dirigenza, se da un lato ha sottratto tale atto di recesso ai vincoli sostanziali del giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, consentendo una più ampia possibilità di cessazione del rapporto a iniziativa datoriale, ha tuttavia richiesto che tale provvedimento fosse adottato con l’osservanza di regole di trasparenza formale adeguate. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione. Ne consegue inevitabilmente che, se pure il comportamento del dirigente sia stato, in concreto e nella sua realtà storica, effettivamente non collaborativo con i vertici aziendali, oltre che scorretto, pesante e scurrile nel suo manifestarsi quotidiano con i colleghi o sottoposti, nei termini in cui si legge in alcune mail prodotte, tali aspetti non possono essere esaminati se non hanno formato oggetto di rituale e precisa contestazione disciplinare. (Corte app. Milano 27/1/2010, Pres. Ruiz Rel. Curcio, in Lav. Nella giur. 2010, con commento di Alessandro Ripa, 684)
  9. Le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, commi secondo e terzo, della L. 20 maggio 1970, n. 300 ai fini dell’irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d’azienda, prescindendo dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’ambito dell’organizzazione aziendale, sia se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, sia se a base del detto recesso ponga, comunque condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso. (Cass. Sez. Un. 30/3/2007 n. 7880, Pres. Carbone Rel. Vidiri, in Giur. it. 2008, 70, e in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Scimè, “Licenziamento disciplinare del dirigente e applicabilità dell’art. 7 St. Lav.”, 146)
  10. La non applicabilità al rapporto di lavoro dei dirigenti delle garanzie procedimentali ex articolo 7 della legge n. 300 del 1970 si riferisce solo al dirigente di azienda che si trovi in posizione apicale nell’ambito dell’impresa e che nei suoi confronti non sia ipotizzabile una dipendenza gerarchica e la sottoposizione al potere disciplinare dell’imprenditore; sicchè la procedura ex articolo 7 trova, invece, applicazione nei confronti del personale della media e bassa dirigenza (c.d. pseudo dirigenti o dirigenti meramente convenzionali) ascrivibili alla categoria del personale direttivo. (Cass. 13/5/2005 n. 10058, Pres. Ciciretti rel. Balletti, in Lav.e prev. oggi 2005, 1275)
  11. Le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7, commi 2 e 3, della legge 20 maggio 1970 n. 300 ai fini della irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure alla indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato; la violazione di dette garanzie comporta non la nullità del licenziamento stesso ma l’impossibilità di tener conto dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini dell’esclusione del diritto al preavviso ed all’indennità supplementare. (Cass. 3/4/2003, n. 5213, Pres. Ciciretti, Rel. Toffoli, in Dir. e prat. lav. 2003, 2105)
  12. Le garanzie procedimentali dell’art. 7 SL sono applicabili nei confronti dei dirigenti che, già in posizione apicale nell’ambito dell’impresa, siano stati rimossi dalla suddetta posizione ed adibiti a mansioni residue riconducibili alla media e bassa dirigenza (nel caso di specie al dirigente erano state revocate le funzioni di capo del personale). (Cass. 8/5/2001 n. 9715, Pres. Santojanni Est. Mileo, in D&L 2002, 421, con nota di Claudia Messana, “Sull’applicabilità delle garanzie procedimentali dell’art. 7 SL al dirigente di vertice declassato e sul licenziamento del dirigente per ragioni di nepotismo”)
  13. Nel licenziamento disciplinare del dirigente, il mancato rispetto da parte del datore di lavoro della procedura prevista dall’art. 7 SL non comporta di per sé l’obbligo alla corresponsione dell’indennità supplementare, che è invece dovuta, secondo il contratto collettivo, esclusivamente in ipotesi particolari, quali il recesso irrogato senza l’indicazione dell’addebito o del tutto privo di requisito causale (Trib. Milano 23/5/98, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1998, 1058, nota Capurro, Violazione delle regole procedurali e conseguenze sanzionatorie nel licenziamento disciplinare del dirigente)
  14. In tema di licenziamento disciplinare del dirigente, l’inosservanza del procedimento di cui all’art. 7 c. 2 e 3 SL impedisce di considerare l’atto come giustificato e determina il sorgere di tutti gli obblighi risarcitori previsti dalla contrattazione collettiva per il licenziamento ingiustificato, in quanto la non corretta enunciazione delle ragioni poste a fondamento del recesso non consente di ritenere integrata la giusta causa o il giustificato motivo invocato dal datore di lavoro (Pret. Monza 19/2/96, est. Padalino, in D&L 1997, 170)

 

 

Collegio arbitrale

  1. A norma dell’art. 829 c.p.c., il difetto di “potestas iudicandi” del collegio arbitrale può essere rilevato anche d’ufficio, indipendentemente dalla sua precedente deduzione nell’ambito del procedimento arbitrale, soltanto qualora derivi dalla nullità del compromesso o della clausola compromissoria, mentre, in tutti gli altri casi – e, cioè, nelle ipotesi di nomine avvenute con modalità diverse da quelle previste dalle parti o, in difetto, dal codice di rito civile – l’irregolare composizione del collegio decidente può costituire motivo di impugnazione soltanto quando essa sia stata già denunciata nel corso del giudizio arbitrale. (Nella specie, la Corte di legittimità ha ritenuto la conformità a tale principio di diritto della statuizione della Corte d’appello che aveva qualificato come inammissibile il motivo di gravame, in quanto attinente a un’ipotesi di nullità prevista dall’art. 829, n. 2, c.p.c. e mai dedotta nel giudizio arbitrale). (Cass. 23/3/2006 n. 6425, Pres. Senese, Est. Miani Canevari, in Lav. nella giur. 2006, 1017)
  2. Qualora un dirigente industriale, senza incontrare l’opposizione del datore, abbia adito il collegio arbitrale in forza della clausola compromissoria per arbitrato irrituale prevista nel c.c.n.l. per la determinazione dell’indennità supplementare conseguente al licenziamento ritenuto ingiustificato, egli non può successivamente riproporre la medesima azione dinanzi al giudice togato, che dovrà in ipotesi dichiarare inammissibile la domanda (nella fattispecie il collegio arbitrale dal canto suo aveva dichiarato irricevibile il ricorso per intervenuta decadenza, stante il superamento del termine perentorio per proporlo. (Cass. 28/3/2002, n. 4566, Pres. Prestipino, Est. Putaturo Donati, in Riv. it. dir. lav. 2003, 105, con nota di Michele Mariani, Sui rapporti tra la giurisdizione ordinaria e quella arbitrale).
  3. In presenza di una chiara e inequivoca manifestazione di volontà di voler adire l’autorità giudiziaria, il ricorso al Collegio arbitrale previsto dal contratto collettivo dirigenti di azienda del terziario 1/3/88 per la determinazione dell’indennità supplementare, proposto per meri fini tuzioristici dal dirigente licenziato, non impedisce il contestuale ricorso al pretore del lavoro per la proposizione della medesima domanda, relativa alla spettanza e alla misura dell’indennità suppletiva, nonché per la diversa domanda relativa alla nullità del licenziamento (Pret. Milano 31/1/95, est. Peragallo, in D&L 1995, 749)

 

 

Indennità supplementare

  1. In mancanza di preavviso lavorato, il contenuto dell’obbligo di parte recedente di pagare, ex art. 2118 c.c., un’indennità equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso, attribuisce rilevanza agli aumenti retributivi intervenuti nel medesimo periodo ai fini della determinazione sia dell’indennità sostitutiva del preavviso sia dell’indennità supplementare per i dirigenti. (Cass. 15/5/2007 n. 11094, Pres. Ciciretti Est. De Matteis, in D&L 2007,ncon nota di Paolo Perucco, “Il recesso senza preavviso fra effetti meramente obbligatori e prosecuzione del vincolo contrattuale”, 881)
  2. Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e la nozione di “giustificatezza” posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del suo licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 della stessa legge n. 604 del 1966. Ne consegue che, ai fini dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la suddetta “giustificatezza” non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe realmente negata ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa. In ogni caso, il recesso in questione non può risultare privo di qualsiasi giustificazione sociale perchè concretizzantesi unicamente in condotte lesive, nella loro oggettività, della personalità del dirigente e, al fine di accertare la configurabilità del diritto del dirigente all’indennità supplementare di preavviso, l’ingiustificatezza del recesso datoriale può evincersi da una incompleta e inveritiera comunicazione dei motivi di licenziamento ovvero da un’infondata contestazione degli addebiti, potendo tali condotte rendere quanto meno più disagevole la verifica che il recesso sia eziologicamente riconducibile a condotte discriminatorie ovvero prive di giustificatezza sociale. (Rigetta, App. Bologna, 18 dicembre 2003). (Cass. 20/12/2006 n. 27197, Pres. Sciarelli Est. Vidiri, in Dir. e prat. lav. 2007, 1973)
  3. Le previsione della indennità supplementare corrisposta al dirigente di azienda ingiustificatamente licenziato rappresenta la sanzione per l’aver oltrepassato, da parte del datore di lavoro, il limite di recedere dal contratto, non essendo stata prevista allo scopo di risarcire il dirigente ingiustificatamente licenziato dalla perdita di redditi, bensì, prevalentemente, di reintegrare il patrimonio professionale leso: essa va quindi esclusa da Irpef (Comm. Trib. Prov. Roma 8/3/01, pres. Carteny, est. Centi, in Dir. lav. 2001, pag. 357, con nota di Salvatore, Sull’imponibilità, ai fini Irpef, dell’indennità supplementare corrisposta ad un dirigente licenziato ingiustificatamente)
  4. Nel vigore del DPR 22/12/86 n. 917, che assoggetta a tassazione i proventi conseguiti a titolo di risarcimento del danno cagionato dalla perdita di redditi, deve escludersi la tassabilità dell’indennità supplementare per ingiustificato licenziamento del dirigente, che costituisce risarcimento del danno alla professionalità e al prestigio del prestatore d’opera, e non risarcimento del danno da perdita di redditi (Comm. Trib. Reg. Milano 25/1/97, pres. Bozzi, est. Colavolpe, in D&L 1997, 825 n. Tagliagambe, Profili di incostituzionalità del decreto Dini in materia di tassazione di sentenze e transazioni di lavoro)

 

 

Dimissioni

  1. L’art. 16 ccnl Dirigenti Industria 23 maggio 2000 (che riconosce il diritto del dirigente, il quale, a seguito di mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulla sua posizione, risolva entro 60 giorni il rapporto di lavoro, oltre che al TFR, anche a un trattamento pari alla indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento) integra un’autonoma e diversa ipotesi di recesso, per il solo effetto del mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulle sue posizioni nella sua giuridica ricorrenza obiettiva, rispetto alla giusta causa di recesso eventualmente integrata dal demansionamento vietato del dirigente. (Cass. 11/9/2015 n. 17990, Pres. Macioce Rel. Piatti, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Stella Laforgia, “A proposito di dimissioni del dirigente per mutamento della propria attività incidente sulla sua posizione. Formula neutra (di favore per il dirigente) o anodina?”, 94)
  2. Il dirigente di azienda industriale trasferito senza alcuna comunicazione scritta non beneficia della facoltà di rassegnare le dimissioni c.d. qualificate e, di conseguenza, del più favorevole trattamento economico in occasione dell’estinzione del rapporto, poiché l’art. 14 del ccnl per i dirigenti di aziende industriali non contempla né l’ipotesi di una comunicazione “non scritta” né l’ipotesi del “trasferimento di fatto”. (Corte app. Torino 3/10/2011 n. 999, Pres. Girolami Rel. Mancuso, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Maurizio Falsone, “Le dimissioni ‘qualificate’ del dirigente in caso di ‘trasferimento di fatto’”, 36)
  3. L’art. 13 del ccnl dei dirigenti industriali – che prevede in caso di trasferimento di proprietà dell’azienda la facoltà del dirigente di recedere dal rapporto entro 180 giorni dalla data legale dell’avvenuto cambiamento senza l’obbligo di preavviso e con il diritto al riconoscimento di un trattamento pari a un terzo dell’indennità sostitutiva del preavviso spettante per il licenziamento – deve essere interpretato nel senso che la norma trova applicazione anche nel caso di cessione dell’intero pacchetto azionario della società datrice di lavoro poiché in tal caso l’acquirente assume il pieno controllo del capitale sociale e si verifica dunque un integrale mutamento dell’assetto proprietario della società. (Trib. Milano 17/6/2003, Est. Salmeri, in Lav. nella giur. 2005, 94)
  4. L’art. 13 del CCNL dei dirigenti industriali – che prevede in caso di trasferimento di proprietà dell’azienda la facoltà del dirigente di recedere dal rapporto entro 180 giorni dalla data legale dell’avvenuto cambiamento senza l’obbligo di preavviso e con il diritto al riconoscimento di un trattamento pari ad un terzo dell’indennità sostitutiva del preavviso spettante per il licenziamento – deve essere interpretata nel senso che la norma trova applicazione anche nel caso di cessione dell’intero pacchetto azionario della società datrice di lavoro poiché in tal caso l’acquirente assume il pieno controllo del capitale sociale e si verifica dunque un integrale mutamento dell’assetto proprietario della società. (Trib. Milano 17/6/2003, Est. Salmeri, in Lav. nella giur. 2005, 193)
  5. Nell’interpretazione delle clausole della contrattazione collettiva con cui, in riferimento all’ambito delle fusioni societarie e dei trasferimenti di azienda, siano riconosciuti ai lavoratori benefici e vantaggi aggiuntivi rispetto a quelli legislativamente previsti, le nozioni legislative e comunitarie di tali eventi non sono necessariamente vincolanti (Nella specie era oggetto di interpretazione l’art. 13, secondo comma, del c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali, nella parte relativa all’indennità riconosciuta al dirigente resosi dimissionario nel termine di 180 giorni dal verificarsi di uno degli eventi previsti dal primo comma; il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto che il riferimento alle ipotesi di fusione aziendale andava interpretato, sulla base del tenore complessivo delle disposizioni e della “ratio” della specifica indennità, nel senso della normale irrilevanza di una fusione societaria per incorporazione per il dirigente della società incorporante (Cass. 9/8/00, n. 10500, pres. Ianniruberto, est. Vidiri, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 30)

 

 

Preavviso

  1. Il contratto di lavoro si risolve immediatamente nell’ipotesi in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere senza preavviso. La natura obbligatoria e non reale del preavviso esclude la necessità del consenso della parte recedente per addivenire alla risoluzione del contratto, stabilendo l’art. 2118 c.c. solo l’obbligo della parte recedente di corrispondere in favore dell’altra indennità sostitutiva del preavviso. (Cass. 17/5/2007 n. 11740, Pres. Ciciretti Est. Vidiri, in D&L 2007, con nota di Paolo Perucco, “Il recesso senza preavviso fra effetti meramente obbligatori e prosecuzione del vincolo contrattuale”, 881)
  2. L’effetto reale attribuito al preavviso dal contratto collettivo altro non è che una fictio iuris che consente al dirigente di beneficiare di eventuali aumenti economici e normativi introdotti dalla contrattazione collettiva successivamente alla risoluzione del rapporto. (Trib. Milano 17/6/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 567, con commento di Filippo Collia)

 

 

Contratto a termine

  1. La regola secondo cui l’apposizione del termine al contratto di lavoro deve essere anteriore o, quantomeno, coeva all’inizio del rapporto di lavoro non si applica ai contratti di lavoro stipulati con i dirigenti, in quanto ai dirigenti non si applica la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Non si applica ai contratti di lavoro a termine con personale dirigenziale la regola secondo cui, se il rapporto di lavoro prosegue dopo la scadenza del termine inizialmente pattuito, il contratto si considera come stipulato a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore. (Cass. 16/1/2006 n. 749, Pres. Sciarelli Est. De Luca, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Maria Luisa Vallauri, “Sull’inapplicabilità ai dirigenti delle sanzioni che colpiscono le irregolarità nella stipulazione o nello svolgimento del rapporto di lavoro a termine”, 390)
  2. E’ legittima l’attribuzione al lavoratore, quale trattamento di miglior favore, della qualifica convenzionale di dirigente, superiore a quella corrispondente alle mansioni svolte. In tal caso l’apposizione del termine al contratto di lavoro è legittima quando sia sorretta da ragioni obiettive e non risulti che sia diretta ad aggirare il divieto di contratti di lavoro a tempo determinato (Cass. 22/9/2002, n. 13326, Pres. Senese, Est. D’Agostino, in Riv. it. dir. lav. 2003, 554, con nota di Carlo Pisani, Il lavoro a termine dello pseudodirigente)
  3. Costituisce legittima espressione dell’autonomia negoziale, quando risponda ad un apprezzabile interesse delle parti e non sia provato un intento elusivo di norme imperative, il riconoscimento ad un lavoratore della qualifica di dirigente che prescinda dalla corrispondenza della stessa alle mansioni effettivamente svolte. E’ pertanto legittima e non può di per sé ritenersi in contrasto con norme imperative e con l’ordine pubblico l’apposizione di un termine al contratto di lavoro di un dirigente, cui sia stata attribuita tale qualifica pur in difetto dei requisiti previsti dalla contrattazione collettiva. (Cass. 22/9/2002, n. 13326, Pres. Senese, Est. D’Agostino, in Riv. it. dir. lav. 2003, 298, con nota di Stefano Bartalotta, La qualifica di dirigente tra legge e contratto)

 

 

Rimborso delle spese legali

  1. Il diritto del dirigente ad ottenere il rimborso delle spese del giudizio, previsto dall’art. 15 Ccnl nel caso in cui nei suoi confronti sia stato aperto procedimento penale per fatti connessi all’esercizio delle sue funzioni, sussiste anche qualora il giudizio penale sia stato concluso con una sentenza di patteggiamento, restando esclusa la sola ipotesi di dolo e colpa accertata con sentenza passata in giudicato. (Trib. Firenze 22/11/2001, Est. Muntoni, in D&L 2002, 669, con nota di Roberto Muller, “Sentenza penale di patteggiamento e riconoscimento di responsabilità”)

 

Dirigente pubblico

  1. Il dirigente, rispetto ad una illegittima cessazione anticipata dell’incarico, è titolare di un diritto soggettivo che, se ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (ove possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre, a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico, può far valere un interesse legittimo di diritto privato, correlato all’obbligo per l’amministrazione di agire secondo i canoni della correttezza e buona fede, nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buona andamento di cui all’art. 97 Cost., la cui eventuale lesione non legittima la domanda di attribuzione dell’incarico ma solo quella di ristoro dei pregiudizi ingiusta- mente subiti. (Corte App. Roma 28/10/2020, Pres. e Rel. Garzia, in Lav. nella giur. 2021, 320)
  2. Il periodo di formazione specialistica non è computabile nell’anzianità di servizio richiesta per il conferimento di incarichi dirigenziali presso gli ospedali, salvo espressa previsione, gravando in capo all’azienda sanitaria l’onere di accertare l’effettiva sussistenza dei requisiti di ammissione dei candidati.
    Il Giudice conferma la natura di atti di diritto privato, e non di concorsi pubblici, dei conferimenti di incarichi di struttura dirigenziale di secondo livello presso le strutture sanitarie. Ferma dunque la giurisdizione del giudice ordinario, la legittimità di tali atti discrezionali può contestarsi solo per violazione dei principi di correttezza e buon andamento della pubblica amministrazione. Il Tribunale rileva tuttavia come gravi in capo all’azienda sanitaria l’onere di verificare e provare l’effettiva sussistenza dei requisiti di idoneità richiesti, in capo ai candidati risultati idonei, anche in ragione della tutela della salute di cui all’art. 32 della Cost.. Nel caso di specie, il candidato nominato direttore di UOC non aveva conseguito l’anzianità di servizio minima richiesta dal bando, sia perché non poteva computarsi a tal fine il periodo svolto durante il periodo di specializzazione, essendo questo un periodo di formazione e non di lavoro, sia perché l’azienda non aveva verificato l’effettività del periodo di lavoro asseritamente svolto all’estero e allegato dal candidato. Dichiarata l’illegittimità del giudizio di idoneità del candidato nominato direttore, il Giudice condanna l’ospedale al risarcimento del danno da perdita di chance per i medici risultati idonei, quantificato in via equitativa. (Trib. Monza 20/5/2020, Giud. Sommariva, in Wikilabour, Newsletter n. 11/2020)
  3. Una normativa nazionale che esclude un cittadino dell’Unione europea da una selezione pubblica è incompatibile con il par. 2 dell’art. 45 TFUE, nella parte in cui impedisce in assoluto ai cittadini di altri Stati membri di assumere posti di livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consente una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative. (Cons. St., Ad. Plen., 18/4/2018 n. 9, Pres. Pajno Est. Contessa, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di V. Capuano, “Cittadinanza europea e lavoro pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa: il caso dei musei italiani”, 869)
  4. La responsabilità dirigenziale di cui all’art. 21, d.lgs. n. 165/2001 – concernente il mancato raggiungimento degli obiettivi –, non coincide con la responsabilità disciplinare, che ricorre nei casi in cui la condotta integri la violazione di singoli doveri. Pertanto, quando la causa del recesso sia rinvenibile nell’esito negativo della valutazione complessiva dell’operato gestionale del dirigente non si applicano le procedure previste dall’art. 55, d.lgs. n. 165/2001. (Corte app. Torino 13/10/2016, Pres. Girolami Est. Baisi, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di M. Russo, “Sulla distinzione tra responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare”, 291)
  5. Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria 3 giugno 2005, n. 12 (Norme in materia di nomine e di personale della Regione Calabria), nella parte in cui si applica al presidente del consiglio di amministrazione di Fincalabra s.p.a. I meccanismi di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle vicende del rapporto instaurato con il titolare e non correlati a valutazioni concernenti i risultati conseguiti da quest’ultimo, sono incompatibili con l’art. 97 Cost. quando siano riferiti non al personale addetto a uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo ovvero a figure apicali, ma ai titolari di incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di funzioni amministrative di attuazione dell’indirizzo politico. (Corte Cost. 21/12/2016, n. 269, Pres. Grossi Rel. Zanon, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di G. E. Comes, “Incarichi dirigenziali non apicali: illegittimità dello spoils system”, 365)
  6. L’art. 6 del d.lgs. n. 368/2001 riconosce al lavoratore a tempo determinato ogni trattamento proprio dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine: la fruizione del congedo straordinario per dottorato di ricerca è incompatibile col rapporto di lavoro a tempo determinato. (Trib. Genova 11/3/2014 n. 80, Giud. Barenghi, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di L. Busico, “Spettanza del congedo per dottorato al lavoratore pubblico a termine: una voce fuori dal coro”, 145)
  7. Il rapporto di lavoro del dirigente pubblico illegittimamente licenziato è destinatario della tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, l. n. 300/1970, richiamato dall’art. 51, co. 2, d.lgs. n. 165/2001. Il dirigente ha diritto altresì alla reintegrazione nell’incarico dirigenziale per il tempo residuo di durata e detratto il periodo di illegittima revoca. (Cass. 18/12/2012 n. 23330, Pres. Lamorgese Rel. Venuti, in Riv. It. Dir. Lav. 2013, con nota di Annamaria Donini, “La tutela reintegratoria a favore del dirigente pubblico tra interpretazioni formalistiche e valorizzazione dell’interesse pubblico”, 424)
  8. Il rapporto di lavoro del dirigente pubblico illegittimamente licenziato è destinatario della tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, l. n. 300/1970, richiamato dall’art. 51, co. 2, d.lgs. n. 165/2001. L’Amministrazione di appartenenza è tenuta a ripristinare il rapporto con effetto ex tunc e ad adempiere tutte le relative obbligazioni. (Cass. 13/6/2012 n. 9651, Pres. Roselli Est. Arienzo, in Riv. It. Dir. Lav. 2013, con nota di Annamaria Donini, “La tutela reintegratoria a favore del dirigente pubblico tra interpretazioni formalistiche e valorizzazione dell’interesse pubblico”, 424)
  9. Con l’art. 17 bis d.lgs. n. 165/2001 (ndr) il legislatore ha rimesso esclusivamente alla contrattazione collettiva il compito di istituire l’area della vice-dirigenza, dettando i criteri ai quali le parti contraenti devono attenersi per individuare quali dipendenti possano essere inquadrati in detta area e l’assenza della disciplina negoziale impedisce il sorgere del diritto a favore di quelli che vantano i requisiti di legge, in quanto tali requisiti non costituiscono la sola condizione prevista dalla legge, essendo invece indispensabile l’intervento della disciplina negoziale. Non può quindi ravvisarsi alcun inadempimento direttamente imputabile all’Amministrazione che abbia omesso di inquadrare i dipendenti in possesso dei requisiti nell’area della vice-dirigenza, trattandosi di area che verrà a esistenza solo quando vi sarà specifica disciplina contrattuale. (Trib. Napoli 6/5/2011, Giud. Urzini, in Lav. nella giur. 2011, 854)
  10. In tema di pubblico impiego privatizzato, nell’ambito del quale anche gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, le norme contenute nell’art. 19, comma 1, d.lgs. 30 marzo 2011, n. 165 obbligano l’Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost. Tali norme obbligano la P.A. a valutazioni comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e a esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto, l’Amministrazione non abbia fornito alcun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella selezione dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale suscettibile di produrre danno risarcibile. (Trib. dell’Aquila 9/3/2011, Giud. Tracanna, in Lav. nella giur. 2011, 638)
  11. Le disposizioni introdotte dall’art. 40, d.lgs. n. 150/2009, che ha modificato il disposto di cui all’art. 19, d.lgs. n. 165/2001, hanno implicitamente abrogato i commi 1 e 2 dell’art. 110, d.lgs. n. 267/2000. Anche gli enti locali, pertanto, possono conferire incarichi dirigenziali a tempo determinato a soggetti esterni all’amministrazione solo nei limiti, per le ragioni e con le modalità che oggi si rinvengono nei commi 6 e 6 bis, d.lgs. n. 165/2001. (Corte di Conti, sez. regionale di controllo per il Veneto, 27/10/2010 n. 231, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Francesco Rossi, 618)
  12. In base ai principi generali di cui all’art. 1, comma 2, e al disposto di cui all’art. 5, 2° comma, del Dpcm 20/11/2000 (codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni) il dirigente deve comunicare formalmente all’amministrazione, prima di assumere le sue funzioni e durante tutto il corso del rapporto, le partecipazioni azionarie e tutti gli interessi finanziari che possano porlo in conflitto d’interessi con la funzione pubblica che svolge e dichiarare se ha parenti entro il quarto grado e affini entro il secondo, o conviventi che esercitano attività politiche, professionali o economiche che pongano in contatti frequenti con l’ufficio che egli dovrà dirigere o che siano coinvolte nelle decisioni o nelle attività inerenti all’ufficio. Pertanto, è legittimo il licenziamento del dirigente pubblico che, attivando una procedura di evidenza pubblica, non comunichi situazioni di conflitto di interesse esistenti con l’impresa prescelta e, in violazione dell’art. 6 del citato Dpcm, non si astenga da partecipare all’adozione delle decisioni inerenti a tale procedura. (Cass. 3/3/2010 n. 5113, Pres. De Luca Est. Amoroso, in D&L 2010, con nota di Nico Cerana, “Dirigente pubblico e conflitto di interessi”, 607)
  13. Le disposizioni relative al comparto Ministeri che consentono la reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, devono essere interpretate nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata dalla straordinarietà e temporaneità, con la conseguenza che a tale posizione può farsi luogo, senza che si producano gli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo previsti per tale copertura, cosicché, al di fuori di tale ipotesi, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni superiori. (Cass. Sez. Un. 22/2/2010 n. 4063, Pres. Papa Est. Morcavallo, in D&L 2010, con nota di Vania Scalambrieri, “Le somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno da demansionamento non sono tassabili”, 502)
  14. È costituzionalmente illegittimo l’art. 24, comma 2, della l.r. Piemonte n. 23 del 2008, che consente il conferimento degli incarichi di direttore generale a persone esterne all’amministrazione regionale entro il limite del 30 per cento dei rispettivi posti. Tale disposizione contrasta con l’art. 97, comma 3, Cost. in quanto ammette una deroga al principio del concorso pubblico senza circoscriverla a casi nei quali ricorrano specifiche esigenze di ordine pubblico. (Corte Cost. 15/1/2010 n. 9, pres. Amirante Red. Mazzella, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di E. Pasqualetto, “Il rapporto a termine con la pubblica amministrazione del dirigente esterno”, 847)
  15. Nel lavoro con la pubblica amministrazione, la qualifica dirigenziale implica non il diritto soggettivo allo svolgimento di mansioni e dunque di conferimento dell’incarico, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale. Gli eventuali atti dirigenziali hanno natura negoziale, ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, artt. 2, comma 1; 5, comma 2, e 63, comma 1. Ne discende la sottrazione al regime e alle regole proprie degli atti amministrativi e la rilevanza, sul piano sostanziale e su quello del procedimento da seguire, delle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). (Cass. 26/11/2008 n. 28274, Pres. De Luca Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 1149)
  16. La revoca ante tempus di un incarico dirigenziale è possibile solo nei casi previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. (Trib. Pavia 5/11/2008, Est. Ferrari, in D&L 2009, 857)
  17. In caso di revoca illegittima di un incarico dirigenziale il dirigente ha diritto alla riassegnazione dell’incarico revocato per il tempo residuo. (Trib. Pavia 5/11/2008, Est. Ferrari, in D&L 2009, 857)
  18. A differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dpendente, nel settore pubblico il potere dell’amministrazione di esonerare un dirigente dall’incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi: in particolare, ai sensi dell’art. 7 Cost. contrasta con l’imparzialità amministrativa, un regime di automatica cessazione dell’incarico che non rispetti il giusto procedimento, mentre contrasta con il buon andamento, un sistema di automatica sostituzione dei dirigenti che prescinda dall’accertamento dei risultati conseguiti. Ne deriva, sul piano degli strumenti di tutela, che forme di riparazione economica, quali, a esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi. (Corte Cost. 24/10/2008 n. 351, Pres. Flick Rel. Cassese, in Lav. nelle P.A. 2009, con nota di Mauro Montini, Le “cose buone dal sapore antico, l’art. 97 della Costituzione e la tutela del dirigente pubblico”, 109)
  19. In mancanza di una esplicita regolamentazione del caso di specie, di fronte al contenuto contrattuale di cui agli artt. 39 e 40 CCNL Dirigenti Enti locali, la tesi della cumulabilità di più compensi dovrebbe essere supportata da una esplicita affermazione del maggior contenuto professionale della prestazione offerta dal dirigente nel caso di copertura di più servizi. Allo stato della contrattazione collettiva, tuttavia, una tale impostazione è esclusa proprio dalla lettura dell’art. 24, che collega il trattamento economico del dirigente non alla “quantità” del lavoro svolto, ma “alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità”, con espressione, che in mancanza di esplicita pattuizione collettiva può essere intesa in senso solamente qualitativo e non quantitativo. (Cass. 15/9/2008 n. 23696, Pres. De Luca Rel. Mammone, in Lav. nelle P.A. 2008, 885)
  20. La disciplina del d.P.C.M. 8 marzo 2001 sulla riconoscibilità dei servizi al personale convenzionato che è inquadrato nella qualifica di dirigente del Servizio sanitario nazionale per effetto del d.lgs. n. 502 del 1992, ha carattere eccezionale e riguarda solo i soggetti tassativamente indicati dal decreto. L’applicazione di tale normativa non può, dunque, essere estesa ai dirigenti sanitari in genere, già a rapporto di impiego (che vantino servizi convenzionali anteriormente all’assunzione ai fini dell’attuazione degli artt. 3 o 5 del CCNL 8 giugno 2000, secondo biennio economico, recando il predetto d.P.C.M. una normativa speciale non suscettibile di applicazione non solo analogica, ma neppure estensiva. (Cass. 29/7/2008 n. 20581, Pres. Mattone Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 650)
  21. Ai fini del computo dell’esperienza professionale per la corresponsione dell’indennità di esclusività di cui agli artt. 5 e 12 del Ccnl dell’area dirigenza medica e veterinaria biennio economico 2000-200, così come risulta dall’accordo di interpretazione autentica 12.07.2002, è valida esclusivamente l’esperienza maturata in qualità di dirigente del SSN, senza soluzione di continuità, presso aziende o enti del comparto sanità di cui al CCNQ del 2 giugno 1998, compresa quella derivante dai servizi riconosciuti agli effetti economici della carriera in virtù del d.P.R. n. 384 del 1990, art. 118. Si deve pertanto escludere che il lavoro autonomo a convenzioni sia suscettibile di essere compreso nel “comparto”, nozione circoscritta ai contratti collettivi stipulati per la disciplina dei rapporti di lavoro subordinato (d.lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2). (Cass. 29/7/2008 n. 20581, Pres. Mattone Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 650)
  22. Anche per i “dirigenti esterni”, titolari di incarichi non apicali, il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce l’incarico deve essere – così come la stessa Corte Costituzionale ha già affermato nella sentenza n. 103 del 2007 – “connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione”. Nel caso in esame, la norma denunciata, prevede in via transitoria che i rapporti dirigenziali di cui all’art. 19 comma 5-bis del d.lgs. 165/2001 sorti in data anteriore al 17 maggio 2006 (data di formazione del Governo) cessino alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge n. 262 del 2006, in caso di mancata riconferma. Tale disposizione viola, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità. Infatti, la cessazione anticipata ex lege del rapporto di lavoro dirigenziale in corso, senza alcun accertamento di responsabilità dirigenziale, impedisce che l’attivi8tà del dirigente possa espletarsi in conformità al nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza “alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita”. La Corte conferma la considerazioni espresse nella sentenza n. 103/2007 (giudizio sull’art. 3 comma 7 della L. 145/2002) in quanto non ritiene che le differenze tra le due tipologie di destinatari della decadenza automatica una tantum dall’incarico siano tali da giustificare un esito diverso in merito al giudizio di legittimità costituzionale. Pertanto, la natura esterna dell’incarico non costituisce di per sé un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie. (Corte Cost. 20/5/2008 n. 161, Pres. Bile Red. Quaranta, in Lav. nelle P.A., con commento di Monica Ferretti, “I limiti dello spoils system nella giurisprudenza della Corte Costituzionale”, 361, e in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Raffaele Galardi, “Ancora una pronuncia di incostituzionalità sullo spoils system all’italiana”, 98)
  23. Il d.l. n. 341 del 2000, art. 24, comma 1 bis, convertito con modificazioni in l. n. 4 del 2001, ha previsto che”l’amministrazione giudiziaria provvede alla copertura della metà dei posti vacanti nella carriera dirigenzial, attingendo alle graduatorie di merito dei concorsi precedentemente banditi dalla medesima amministrazione, fermo restando il termine di validità previsto dalla l. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 39, comma 13, e della l. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 20, comma 3″. Tale disposizione costituisce deroga al disposto del d.lgs. n. 29 del 1993, art. 28, comma 6, e successive modificazioni, ove (sempre in epoca anteriore alla l. n. 145 del 2002) era previsto che l’accesso alla qualifica dirigenziale avvenisse a seguito di concorsi indetti dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, con la conseguenza che spetta al Ministero della Giustizia, ricorrendone i presupposti, la costituzione del rapporto dirigenziale. (Cass. 8/5/2008 n. 11370, Pres. Ciciretti Rel. Bandini, in Lav. nelle P.A. 2008, 644)
  24. Le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, art. 19, c. 1, obbligano l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, “procedimentalizzano” l’esercizio del potere di conferimento degli incarichi. Conseguentemente nell’ipotesi di riorganizzazione aziendale che implichi soppressione di posizioni dirigenziali e revoca degli incarichi, l’amministrazione, che agisce come privato datore di lavoro, deve fornire la prova circa i criteri seguiti e le motivazioni delle scelte, e ciò non tanto con riferimento alla revoca dell’incarico, quanto al momento successivo del conferimento dei nuovi incarichi. Diversamente deve ravvisarsi un inadempimento contrattuale, produttivo di danno risarcibile. (Cass. 14/4/2008 n. 9814, Pres. Ianniruberto Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 397)
  25. Le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, art. 19, c. 1, obbligano l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, “procedimentalizzano” l’esercizio del potere di conferimento degli incarichi. Conseguentemente nell’ipotesi di riorganizzazione aziendale che implichi soppressione di posizioni dirigenziali e revoca degli incarichi, l’amministrazione, che agisce come privato datore di lavoro, deve fornire la prova circa i criteri seguiti e le motivazioni delle scelte, e ciò non tanto con riferimento alla revoca dell’incarico, quanto al momento successivo del conferimento dei nuovi incarichi. Diversamente deve ravvisarsi un inadempimento contrattuale, produttivo di danno risarcibile. (Cass. 14/4/2008 n. 9814, Pres. Ianniruberto Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 397, e in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Daniela Bolognino, “Garanzia e tutela del dirigente pubblico attraverso il rispetto dei criteri di conferimento dell’incarico”, 845, e in Lav. nella giur. 2008, 845)
  26. Ai sensi dell’art. 52, d.lgs. 165/2001, il datore di lavoro pubblico, nell’adibire il dipendente a mansioni diverse da quelle originari, non arreca allo stesso un danno in termini di demansionamento, nel caso in cui le nuove mansioni siano tra quelle annoverate, dalla contrattazione collettiva, nella medesima categoria, secondo una valutazione non sottoponibile al vaglio giudiziale; al fine del giudizio di equivalenza, pertanto, la valutazione da parte del giudice è limitata a verificare lo svolgimento, da parte del dipendente, di mansioni considerate equivalenti da parte del contratto collettivo, mentre nessun rilievo ha una verifica di equivalenza sulle mansioni svolte in concreto. (Cass. 4/4/2008, Sez. Un., Pres. e Rel. Carbone, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Maria Giovanna Murrone, “Mansioni equivalenti nel pubblico impiego, contratto collettivo e valutazione giudiziale”, 351)
  27. Dal quadro normativo relativo al conseguimento della qualifica dirigenziale e alla regolazione del rapporto di lavoro dirigenziale attraverso specifica contrattazion, si ricava il principio secondo cui nel rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni la qualifica dirigenziale presuppone atti formali di inquadramento e non può desumersi dalla natura dei compiti assegnati. Conseguentemente in assenza di qualifica dirigenziale derivante anzitutto dall’assenza di atti di inquadramento nel relativo ruolo, e secondariamente anche dal fatto che il rapporto sia regolato da un CCNL di comparto, è inconferente al fine del riconoscimento della qualifica dirigenziale la circostanza che un dipendente abbia la responsabilità dei servizi generali e amministrativi di un grande istituto scolastico (nel caso di specie è stata esclusa la qualifica dirigenziale al Direttore dei servizi generali e amministrativi degli istituti scolastici autonomi). (Cass. 14/3/2008, n. 6986, Pres. Mattone Rel. Curcuruto, in Lav. nelle P.A. 2008, 402)
  28. Anche laddove la contrattazione collettiva non adempia alle prescrizioni dell’art. 17 bis, d.lgs. 165/2001, che impone alla contrattazione stessa di disciplinare l’istituzione di un’apposita separata area della vice dirigenza entro il decorrere del periodo contrattuale corrispondente al quadriennio normativo 2006-2009, come stabilito dall’art. 7, comma 3, della l. n. 145/2002, i lavoratori in possesso dei necessari requisiti maturano il diritto all’acquisizione del corrispondente inquadramento professionale, che, di conseguenza, può essere riconosciuto loro tramite sentenza dall’autorità giurisdizionale ordinaria. (Trib. Roma 7/3/2008, Est. Grisanti, in Lav. nelle P.A., con commento di Fabio Pantano, “L’applicazione per via giudiziale dell’art. 17-bis del d.lgs. n. 165/2001: il riconoscimento della vicedirigenza”, 341)
  29. E’ legittima la revoca dell’incarico dirigenziale, laddove si verifichi una situazione di incompatibilità ambientale del dirigente, con ricadute negative sul piano organizzativo (nella specie, il Tribunale ha accertato che alla denuncia in sede penale di un comandante di polizia municipale per gravi reati ai danni dell’amministrazione, aveva fatto seguito un disagio di carattere organizzativo, integrante un’incompatibilità ambientale del dirigente, alla luce del quale doveva ritenersi giustificata la revoca anticipata dell’incarico dirigenziale). (Trib. Ravenna 29/6/2007, ord., Giud. Riverso, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Alberto Levi, 65)
  30. Il mero inserimento nella graduatoria di un concorso pubblico per qualifica dirigenziale non dà diritto alla relativa retribuzione. Tuttavia il colpevole ritardo nel conferimento dell’incarico e nella stipulazione del contratto potrebbe essere fonte di responsabilità per l’amministrazione nei confronti del dirigente. (Cass. 22/6/2007 n. 14624, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Ogriseg, “Dirigenti pubblici portatori di handicap: questioni in tema di trattamento economico e di scelta prioritaria della sede di lavoro”, 91)
  31. Alla declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art. 71, commi 1, 3 e 4 lettera a) della legge regionale del Lazio 17 febbraio 2005 n. 9 e della legge regionale del Lazio 11 novembre 2004 n. 1, consegue il diritto alla reintegra in servizio da parte del direttore generale decaduto che aveva tempestivamente impugnato il provvedimento di cessazione automatica dall’incarico, stante l’efficacia retroattiva delle sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale che incontrano il solo limite delle situazioni giuridiche consolidate (a esempio quelle derivanti da giudicato, da atto amministrativo non impugnabile, prescrizione o decadenza). (Cons. St. 29/5/2007 n. 2700, ord., in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Mauro Montini, “A volte ritornano”, 711)
  32. A seguito del ripristino del rapporto di lavoro, illegittimamente interrotto prima della sua scadenza fissata in almeno tre anni dall’art. 3-bis del d.lgs. n. 502/1992 e dall’art. 8 della l. r. del Lazio n. 18/1994, il direttore generale ha diritto a riprendere l’attività lavorativa fino al compimento del triennio da considerarsi di effettivo svolgimento e non già di mero decorso temporale. (Cons. St. 29/5/2007 n. 2700, ord., in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Mauro Montini, “A volte ritornano”, 711)
  33. La reintegra in servizio del direttore generale illegittimamente decaduto non incontra un ostacolo nell’insediamento in carica dell’eventuale successore e nella stipula del relativo contratto di lavoro da ritenersi caducati per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 104 del 2007. (Cons. St. 29/5/2007 n. 2700, ord., in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Mauro Montini, “A volte ritornano”, 711)
  34. Il mero inserimento nella graduatoria di un concorso pubblico per qualifica dirigenziale non da diritto alla relativa retribuzione. Tuttavia il colpevole ritardo nel conferimento dell’incarico e nella stipulazione del contratto potrebbe essere fonte di responsabilità per l’amministrazione nei confronti del dirigente. (Cass. 22/6/2007 n. 14624, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Claudia Ogriseg, “Dirigenti pubblici portatori di handicap: questioni in tema di trattamento economico e di scelta prioritaria della sede di lavoro”, 91)
  35. Il dipendente pubblico che, vinta una selezione concorsuale per qualifica dirigenziale, venga assegnato a un determinato ufficio in forza di un incarico e successivamente venga dichiarato invalido, non vanta alcun diritto di scelta prioritaria della sede di lavoro ex art. 21, l. n. 104/1992. (Cass. 22/6/2007 n. 14624, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Claudia Ogriseg, “Dirigenti pubblici portatori di handicap: questioni in tema di trattamento economico e di scelta prioritaria della sede di lavoro”, 91)
  36. E’ illegittimo il combinato disposto degli artt. 71, commi 1, 3 e 4, lettera a) della legge della regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 e dell’art. 55, comma 4, della legge Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1, nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadano dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dell’incarico. (Corte Cost. 23/3/2007 n. 104, Pres. Bile Rel. Cassese, in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Gabriella Nicosia, “Le opinioni della Corte Costituzionale su spoils system, fiducia e imparzialità negli incarichi di funzione dirigenziale: il “caso Speciale” è davvero speciale?”, 496)
  37. E’ illegittimo l’art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, nella parte in cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possano essere revocati entro novanta giorni dall’insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto. (Corte Cost. 23/3/2007 n. 104, Pres. Bile Rel. Cassese, in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Gabriella Nicosia, “Le opinioni della Corte Costituzionale su spoils system, fiducia e imparzialità negli incarichi di funzione dirigenziale: il “caso Speciale” è davvero speciale?”, 496)
  38. E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 2, e/o dell’art. 55, comma 4, della legge della regione Lazio n. 1 del 2001 e dell’art. 71, commi 1, 3 e 4 della legge della regione Lazio n. 9 del 2005, sollevata con riferimento agli artt. 97, 117, terzo comma, ultimo periodo, e 117, secondo comma, lett. l). (Corte Cost. 23/3/2007 n. 104, Pres. Bile Rel. Cassese, in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Gabriella Nicosia, “Le opinioni della Corte Costituzionale su spoils system, fiducia e imparzialità negli incarichi di funzione dirigenziale: il “caso Speciale” è davvero speciale?”, 496)
  39. Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43, commi 1 e 2, della legge della regione Lazio 28 aprile 2006, n. 4, sollevata con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97 Cost. (Corte Cost. 23/3/2007 n. 104, Pres. Bile Rel. Cassese, in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Gabriella Nicosia, “Le opinioni della Corte Costituzionale su spoils system, fiducia e imparzialità negli incarichi di funzione dirigenziale: il “caso Speciale” è davvero speciale?”, 496)
  40. Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3,comma 7, della L. n. 145 del 15 luglio 2002 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), per contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzionale, nella parte in cui dispone che “i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione”. (Cost. 23/3/2007 n. 103, in Lav. nella giur. con commento di Pietro Sciortino, 769, e in Lav. nelle P.A. 2007, 495)
  41. Costituisce condotta antisindacale il mutamento della sede di lavoro del dirigente pubblico, che ricopra anche la carica di dirigente sindacale, disposto in assenza del nullaosta sindacale previsto dal Contratto Collettivo Nazionale Quadro del 7 agosto 1998, non potendosi configurare detto trasferimento in termini di assegnazione di nuovo incarico dirigenziale conseguente al rinnovo del mandato del Sindaco. (Trib. Roma 22/2/2007, decr., Est. Di Paola, in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Luca Ratti, “Il trasferimento del dirigente pubblico fra prerogative sindacali e conferimento dell’incarico”, 697)
  42. La procedura per il conferimento degli incarichi dirigenziali di struttura complessa indicata dalle disposizioni legislative, contrattuali, regolamentari, nonchè individuate dalla stessa Amministrazione con l’avviso interno, costituisce il limite al potere discrezionale dell’amministrazione esercitato mediante l’atto deliberativo finale: affidamento dell’incarico. Quindi l’Amministrazione, sia nell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale sia in quello di revoca, pur espressione di poteri privatistici, non è assolutamente libera nella scelta, dovendo osservare le disposizioni legislative, contrattuali applicabili ratione temporis; infine, in ogni caso l’Amministrazione è tenuta a osservare i principi di correttezza e buona fede che presiedono qualsiasi attività negoziale di diritto privato. Pur assegnando all’area del diritto privato i poteri di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali gli stessi non possono essere esercitati in contrasto con i principi costituzionali, deducibili dagli artt. 51, 97 e 98 Cost. (Trib. Salerno 15/2/2007, Pres. Cavaliero Rel. Viva, in Lav. nella giur. 2007, 1041)
  43. La qualifica di dirigente dello Stato si acquisisce mediante la stipulazione del contratto corrispondente con l’amministrazione. Per l’acquisizione di detta qualifica non è sufficiente il superamento del concorso. (Cass. 12/2/2007 n. 3003, Pres. ed Est. De Luca, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Raffaele Galardi, “A che punto siamo con la privatizzazione della dirigenza pubblica?”, 634)
  44. Nel rapporto dirigenziale pubblico esiste una scissione, ignota al diritto privato, tra l’acquisto della qualifica di dirigente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e il successivo conferimento, a tempo determinato, delle funzioni dirigenziali, sicchè la disciplina propria del settore privato – e in particolare l’esclusione del dirigente, ex art. 10 L. 15/7/66 n. 604, dal regime di stabilità reale – non può essere automaticamente trasposta nel settore pubblico; conseguentemente deve affermarsi che l’illegittimità del recesso di una pubblica amministrazione dal rapporto di lavoro con un dirigente comporta l’applicazione al rapporto fondamentale sottostante della disciplina di cui all’art. 18 SL, a norma dell’art. 51, 2° comma, D.Lgs. 30/3/01 n. 165, mentre all’incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria. (Cass. 1/2/2007 n. 2233, Pres. senese Est. De Matteis, in D&L 2007, con nota di Alberto Guariso, “Il dirigente pubblico torna al regime di stabilità reale”, 257, e in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Andrea Pardini, “Reintegrazione del dirigente pubblico illegittimamente licenziato”, 924)
  45. Al dirigente pubblico è inapplicabile la garanzia dell’art. 2103 c.c. in relazione “al conferimento degli incarichi e al passaggio a incarichi diversi”, sicchè il passaggio da un incarico dirigenziale a un altro pure esso dirigenziale, di per sè, non è deducibile secondo la legge come lesione del diritto alla professionalità del lavoratore. (Trib. Ravenna 22/6/2006, Est. Dott. Riverso, in Lav. nella giur. 2006, 1032)
  46. E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, c. 1, lettera b) e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97 e 98 della Costituzione. (Trib. Roma 11/3/2006, ord., Est. Rosa, in ADL 2007, “Lo spoils system una tantum di nuovo al vaglio della Corte Costituzionale”, 174)
  47. E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, c. 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, in riferimento agli artt. 1, 3, 33, 41, 70, 97 e 113 della Costituzione. (Trib. Roma 3/3/2006, ord., Est. Conte, in ADL 2007, “Lo spoils system una tantum di nuovo al vaglio della Corte Costituzionale”, 177)
  48. E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, c. 1, lettera b) e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97 e 98 della Costituzione. (Trib. Roma 1/2/2006, ord., Est. Mucci, in ADL 2007, “Lo spoils system una tantum di nuovo al vaglio della Corte Costituzionale”, 170)
  49. In tema di lavoro pubblico, secondo le disposizioni contenute nell’art. 23 d.lgs. n. 29 del 1993 e del d.p.r. n. 150 del 1999, l’amministrazione può ritenere di non avvalersi di un determinato dipendente per il conferimento di un incarico dirigenziale, collocandolo a disposizione nel ruolo unico dei dirigenti; essendo la disciplina degli incarichi fondata sui principi di temporaneità e fiduciarietà, rispetto alla discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro pubblico nella scelta dei soggetti cui conferire incarichi dirigenziali, la posizione soggettiva dei dirigenti – anche di quelli già in servizio alla data di entrata in vigore della riforma – non può atteggiarsi come diritto soggettivo al conseguimento delle funzioni dirigenziali e l’interesse del dipendente a essere designato appare come interesse legittimo di diritto privato, giuridicamente ma non direttamente tutelato. (Cass. 6/4/2005 n. 7131, Pres. Ravagnani Est. Filadoro, in Giust. Civ. 2006, 674)
  50. Poiché lo svolgimento di incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione è connotato da fiduciarietà, temporaneità e contrattualità, non sussiste un vero e proprio diritto del dirigente all’incarico, ancor più tutelabile in forma specifica, apparendo la tutela solo di tipo risarcitorio alla luce della violazione di eventuali regole di selezione e in una situazione precontrattuale. (Trib. Aquila 3/3/2005, Giud. Mostarda, in Giust. Civ. 2006, 675)
  51. È infondata la pretesa del dirigente pubblico al risarcimento del danno per tardivo conferimento dell’incarico dirigenziale, non sussistendo un obbligo della pubblica amministrazione di concludere il contratto di incarico successivamente all’approvazione della graduatoria concorsuale. (Trib. Aquila 3/3/2005, Giud. Mostarda, in Giust. Civ. 2006, 675)
  52. Nel prevedere che “nelle Pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”, l’art. 2 comma 1lett. b), D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 non esclude ogni responsabilità dell’organo apicale, in quanto deve essere coordinato con il principio generale dell’effettività della gestione del potere, e, quindi, attesa la posizione di garanzia assunta dai vertici dell’ente pubblico, la delega in favore di un soggetto che non può neppure rifiutarla, qual è il dirigente o il funzionario preposto, assume valore solo se detti organi siano incolpevolmente estranei alle inadempienze del delegato e non siano stati informati, né abbiano assunto un atteggiamento di inerzia e di colpevole tolleranza; là dove la posizione del dirigente quale datore di lavoro comporta una capacità gestionale di natura patrimoniale, poteri effettivi di gestione e l’esercizio di poteri non esauriti in attività riconducibili esclusivamente alla categoria degli obblighi e, quindi, anche a quello della sospensione del servizio, mentre l’organo apicale è sempre responsabile, alternativamente o cumulativamente, ove venga informato delle deficienze e non vi adempia ovvero nel caso in cui siano necessarie impegnative di spesa, non consentite all’organo tecnico o al dirigente del settore. (Cass. 7/10/2004 n. 39268, Pres. Postiglione Est. Novarese, in Dir. e prat. lav. 2005, 72)
  53. In materia di conferimento di incarichi dirigenziali la giurisdizione spetta al giudice ordinario, in quanto il conferimento dell’incarico costituisce esercizio di un potere privato e le scelte organizzative di tipo strutturale, identificative dell’ufficio alla cui copertura il conferimento è destinato, sono già state compiute dai competenti organi di indirizzo. (Cons. di Stato 25/7/2003 n. 4282, Pres. Giacchetti Est. Cafini, in Giur,. It. 2004, 652)
  54. In caso di licenziamento del dirigente sanitario per giusta causa non trova applicazione né l’art. 56, 1° comma, DPR 761/79, pur tuttora vigente, che disciplina il licenziamento per incapacità “professionale”, né l’art. 59 Ccnl che disciplina il recesso per responsabilità grave e reiterata del mancato conseguimento dei risultati previsti dall’incarico; trova invece applicazione l’art. 36, 3° comma, con conseguente obbligo del datore di lavoro di formulare preventivamente una specifica contestazione degli addebiti (nella fattispecie la contestazione è stata ritenuta generica in quanto riferita al solo dato statistico dei decessi avvenuti nel reparto d’assegnazione, senza indicazione di specifici comportamenti addebitati al sanitario). (Trib. Roma 12/2/2002, Est. Delle Donne, in D&L 2002, 736)
  55. E’ inammissibile la questione di costituzionalità inerente il ruolo unico della dirigenza pubblica (artt. 15, comma 1, e 23 del d.lgs. n. 29/93, trasfusi nei corrispondenti artt. 15, comma 1, e 23 del d.lgs. n. 165/01), non avendo il giudice a quo censurato anche lo specifico criterio di delega posto dalla lettera b) del quarto comma dell’art.11, l. n. 59/97, che prevede l’istituzione di tale ruolo unico; la questione proposta – concernendo non già il modo in cui il legislatore delegato ha dato attuazione alla delega, bensì la previsione stessa del ruolo unico dei dirigenti – avrebbe dovuto infatti coinvolgere anche il criterio di delega concernente l’istituzione di tale ruolo unico. (Corte Cost. ordinanza 30/1/02, n. 11, pres. Ruperto, est. Bile, in Lavoro nelle p.a. 2002, pag. 293, con nota di Boscati, La privatizzazione della dirigenza generale promossa a pieni voti dalla Consulta)
  56. I dirigenti medici di primo livello, pur non essendo preposti a strutture o reparti, sono comunque legittimamente qualificati come dirigenti dalla speciale normativa di settore in forza della particolare complessità ed autonomia della mansione; pertanto i contratti a termine con essi stipulati non sono soggetti, ai sensi dell’art. 4 L. 230/62, alle limitazioni di cui agli artt. 1 e 2 della medesima legge. (Trib. Milano 28/1/2002, ord., Est. Marasco, in D&L 2002, 365)
  57. E’ illegittima la revoca anticipata dell’incarico conferito a dirigente comunale, laddove l’Amministrazione non dimostri – ai sensi dell’art. 13 Ccnl Enti Locali – l’esistenza di comprovate esigenze organizzative o produttive, essendo a tal fine insufficiente la mera vacanza di altro posto. Il dirigente al quale sia stato illegittimamente revocato l’incarico ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale da quantificarsi nella differenza tra le retribuzioni di posizione relative all’incarico revocato ed a quello assegnato (nella specie l’incarico revocato era di terza fascia e quello assegnato era di quinta). (Trib. Milano 31/10/2001, Est. Curcio, in D&L 2002, 118)
  58. E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, decreto legislativo n. 387/98, sollevata con riferimento agli artt. 76 e 77 Cost. in quanto resta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario – suscettibile di modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze della giustizia e ad un diverso assetto dei rapporti sostanziali – il conferimento ad un giudice, sia ordinario, sia amministrativo, del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste. La scelta del legislatore – operata dall’art. 18, decreto legislativo n. 387/98 – si inquadra nella tendenza a rafforzare la effettività della tutela giurisdizionale, in modo da renderla immediatamente più efficace, anche attraverso una migliore distribuzione delle competenze e delle attribuzioni giurisdizionali, a seconda delle materie prese in considerazione. Con essa il legislatore delegante e quello delegato, in attuazione della legge di delega, hanno voluto modellare e fondare tutti i rapporti dei dipendenti della amministrazione pubblica (compresi i dirigenti) secondo “il regime di diritto privato del rapporto di lavoro”, traendone tutte le conseguenze anche sul piano del riparto di giurisdizione, a tutela degli stessi dipendenti, in base ad una esigenza di unitarietà della materia. Ne consegue che la tutela giurisdizionale del rapporto di lavoro dei dirigenti, ormai senza esclusione di livelli, è stata attratta nella devoluzione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, in capo al quale si concentra la titolarità della giurisdizione sulle posizioni soggettive dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, salve le eccezioni previste. (Corte Cost. 23/7/01, n. 275, pres. Ruperto, est. Chieppa, in Lavoro e prev. oggi. 2001, pag. 1173)
  59. Le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto sono relative a rapporti di lavoro già in corso soggetti al potere gestionale privatistico della amministrazione datore di lavoro, da cui deriva che, quand’anche la lesione lamentata dal dirigente derivi dal suo esercizio discrezionale, la situazione soggettiva lesa deve qualificarsi come interesse legittimo di diritto privato, riconducibile nell’ampia categoria dei diritti di cui all’art. 2907 c.c. (Trib. Bologna 23/4/2001, pres. E est. Palladino, in Lavoro giur. 2001, pag. 1059, con nota di Boscati, Conferimento degli incarichi dirigenziali tra discrezionalità del datore di lavoro pubblico e controllo giudiziale)
  60. L’atto di conferimento degli incarichi dirigenziali deve essere preceduto da una valutazione comparativa dei candidati in cui non può assumere alcun rilievo negativo un precedente provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale poiché esso non riveste carattere sanzionatorio, ma costituisce una semplice presa d’atto dell’esistenza di una situazione di fatto non favorevole al buon andamento dell’attività amministrativa, di carattere occasionale per essere riferita ad un determinato ambiente e ad un determinato momento temporale (Trib. Bologna 23/4/2001, pres. E est. Palladino, in Lavoro giur. 2001, pag. 1059, con nota di Boscati, Conferimento degli incarichi dirigenziali tra discrezionalità del datore di lavoro pubblico e controllo giudiziale)
  61. Non comporta alcuna lesione della discrezionalità gestoria della pubblica amministrazione, la pronuncia di condanna emanata ai sensi dell’art. 68, 2° comma, d.lgs. n. 29/93, con cui il giudice individua l’avente diritto al conferimento di un dato incarico dirigenziale sostituendo la propria valutazione a quella del datore di lavoro, in applicazione degli specifici e rigidi parametri fissati dalla fonte collettiva (Trib. Bologna 23/4/2001, pres. E est. Palladino, in Lavoro giur. 2001, pag. 1059, con nota di Boscati, Conferimento degli incarichi dirigenziali tra discrezionalità del datore di lavoro pubblico e controllo giudiziale)
  62. Non appare configurabile, nell’attuale ordinamento, un diritto soggettivo perfetto del dirigente pubblico a non essere demansionato all’interno della qualifica dirigenziale. Tuttavia occorre pur sempre accertare in concreto se il danno professionale possa comunque prospettarsi quale conseguenza dell’illegittimo comportamento della P.A. (Trib. Gorizia 2/8/00 ordinanza, est. Masiello, in Lavoro giur. 2001, pag. 565, con nota di Pizzonia, Incarichi dirigenziali e tutela giurisdizionale)
  63. L’atto di conferimento degli incarichi dirigenziali deve essere preceduto da una valutazione comparativa ed è soggetto all’obbligo di una puntuale motivazione in cui vengono esternate le ragioni della scelta effettuata (Trib. Gorizia 2/8/00 ordinanza, est. Masiello, in Lavoro giur. 2001, pag. 565, con nota di Pizzonia, Incarichi dirigenziali e tutela giurisdizionale)
  64. Con l’assetto definitivo introdotto dal D.lgs. n. 229/99 è stata nettamente delineata la distinzione tra regime lavorativo esclusivo e regime non esclusivo e si è previsto l’affidamento di compiti manageriali e di responsabilità soltanto ai medici dirigenti con rapporto di lavoro esclusivo, valorizzando il principio di concorrenzialità tra strutture sanitarie pubbliche e strutture sanitarie private e imponendo al dirigente un impegno e una collaborazione assoggettata a rigorose regole nonché evitando possibili situazioni di conflitto di interessi obbiettivamente ipotizzabili per il medico dipendente che operi in concorrenza con la propria azienda (Trib. Milano 31/7/00, est. Marasco, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 887)
  65. La graduazione delle funzioni dirigenziali, quale provvedimento amministrativo di natura costitutiva e non meramente ricognitiva delle funzioni svolte dai dirigenti, rappresenta il presupposto indefettibile ai fini della corresponsione dell’indennità di posizione prevista dall’art. 39 del Ccnl 10/4/96 per il Comparto Regioni – Enti locali. ( Consiglio di Stato 21/7/00, n. 4072, pres. Catallozzi, est. Saltelli, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 217, con nota di Zappalà, L’indennità di posizione dei dirigenti ” presa sul serio”: le potenzialità di uno strumento incentivante)
  66. L’art. 51, l. n. 142/90, come modificato dalle leggi 127/97 e 191/98, consente ai Sindaci di attribuire funzioni dirigenziali a dipendenti comunali prescindendo dalla loro qualifica funzionale e dal loro titolo di studio, anche in deroga ad ogni diversa disposizione, legando le loro scelte alla concreta realtà fattuale ed organizzativa dell’Ente con l’unico limite della necessità di motivare i provvedimenti in modo congruo e contestuale alla loro emanazione (Trib. S. Angelo dei Lombardi 4/7/00, ordinanza, pres. e est. Ciafaldini, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 244, con nota di Navilli, Incarichi dirigenziali negli enti locali, motivazione dell’atto e tutela cautelare)
  67. Ai fini del riparto di giurisdizione relativamente ad una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del conferimento di un incarico dirigenziale, nella quale venga in contestazione lo svolgimento delle procedure paraconcorsuali presupposte, occorre avere riguardo alla posizione giuridica dedotta, atteso che si tratta di una vicenda antecedente la costituzione del rapporto di lavoro, come tale attribuita alla cognizione del giudice amministrativo, mentre una volta costituito tale rapporto la relativa controversia va devoluta al giudice ordinario, in base al criterio di riparto per materia (T.A.R. Abruzzo, 26/2/00, n. 132, pres. Catoni, est. Eliantonio, in Lavoro nelle p.a. 2001, con nota di Macioce, Conferimento di incarichi dirigenziali e riparto di giurisdizione)
  68. La modifica di un incarico, attribuito a un dirigente in virtù dell’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 29/93, può aver luogo o consensualmente, oppure per volontà unilaterale dell’Amministrazione, ma solo nelle ipotesi di revoca espressamente previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva (Trib. Venezia 8/6/00, ordinanza, pres. Santoro, est. Marra, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 248, con nota di Montanari, Modifica unilaterale dell’incarico dirigenziale e requisiti di forma)
  69. Per l’individuazione del contenuto dell’incarico dirigenziale, in mancanza di un contratto formale, del quale non è requisito essenziale né l’individuazione degli obiettivi, né la forma scritta, acquistano rilievo atti concludenti, equivalenti ad esso (nella specie uno scambio di lettere tra amministrazione e dirigente) (Trib. Venezia 8/6/00, ordinanza, pres. Santoro, est. Marra, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 248, con nota di Montanari, Modifica unilaterale dell’incarico dirigenziale e requisiti di forma)
  70. Le funzioni dirigenziali conferite prima dell’entrata in vigore del d.p.r. n. 150/99 e del d.lgs. n. 80/98 non possono continuare ad essere esercitate dal dirigente in difetto di uno specifico accordo con la pubblica amministrazione (Trib. Roma 28/4/00, ordinanza, est. Cocchia, in Lavoro nelle p.a. 2001, 233, con nota di Pasqua, Accordo per incarico dirigenziale ed esecuzione in forma specifica)
  71. Non è manifestamente infondata – in relazione all’art. 76 Cost., per violazione dei limiti fissati dalla legge di delega all’art. 1 lett. q) L. 23/10/92 n. 421 e in relazione all’art. 3 Cost. per violazione del principio di uguaglianza – l’eccezione di illegittimità costituzionale del 1° e 2° comma (prima parte) dell’art. 15, D. Lgs. 30/12/92 n. 502 (nel testo antecedente il D. Lgs. 19/6/99 n. 229) nella parte in cui attribuiscono la qualifica dirigenziale anche al personale medico di primo livello, privo di responsabilità di direzione (Trib. Milano 11 aprile 2000 (ord.), est. Atanasio, in D&L 2000, 665)
  72. Ai sensi dell’art. 19, 2° comma, D. Lgs. 3/2/93 n. 29 il conferimento degli incarichi di direzione deve avvenire con atti aventi natura contrattuale e volontaria; pertanto il trasferimento del dirigente pubblico a seguito di conferimento di nuovo incarico non può essere disposto senza il consenso del dirigente stesso (Trib. Milano 3 aprile 2000 (ord.), est. Atanasio, in D&L 2000, 733)
  73. Nel caso di rapporto di lavoro con dirigenti medici, non è consentita la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, avendo il D. Lgs. 19/6/99 n. 229 eliminato con riferimento alla dirigenza medica l’istituto del tempo definito e trasformato tutti i rapporti di lavoro in rapporti a tempo pieno; considerata la disciplina speciale contenuta nel D. Lgs. 19/6/99 n. 229 deve ritenersi che alla dirigenza medica non siano applicabili le disposizioni contenute nell’art. 1, commi 57° e 58°, L. 23/12/96 n. 669, che disciplinano in via generale il rapporto di lavoro a tempo parziale nel pubblico impiego (Trib. Milano 28 marzo 2000, est. Santosuosso, in D&L 2000, 735)
  74. In base all’art. 22 del Ccnl per i dipendenti degli Enti locali, le amministrazioni formulano in via preventiva i criteri per l’affidamento e la revoca degli incarichi dirigenziali nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 19 D. Lgs 3/2/93 n. 29 e comunicano tali criteri, prima della definitiva determinazione, alle rappresentanze sindacali. E’ illegittima quindi l’attribuzione di incarichi che non sia stata preceduta dalla formulazione preventiva dei suddetti e dalla loro comunicazione alle rappresentanze sindacali (Trib. Milano 5 gennaio 2000, est. Ianniello, in D&L 2000, 383, n. Nespor, Un primo stop alla gestione del potere attraverso la politica distributiva degli incarichi dirigenziali)
  75. E’ illegittimo il mancato affidamento di un incarico dirigenziale a un dirigente in assenza di accertamento dell’inosservanza delle direttive e dei risultati negativi della gestione (Trib. Milano 5 gennaio 2000, est. Ianniello, in D&L 2000, 383, n. Nespor, Un primo stop alla gestione del potere attraverso la politica distributiva degli incarichi dirigenziali)
  76. E’ illegittimo il provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale adottato dall’amministrazione senza previa comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7, l. n. 241/90 e senza alcuna motivazione (come imposto dall’art. 3 della predetta legge); peraltro, ai fini della sospensione dell’esecutività del provvedimento di revoca dell’incarico, è sufficiente che la ricostruzione dei profili fattuali operata dal giudice accerti la violazione dei canoni di buon andamento e imparzialità (facilmente ravvisabile in un modus procedendi “contraddittorio” e “dispotico” della amministrazione) (Trib. Potenza 16/11/99, ordinanza n. 1931, est. Colucci, in Lavoro nelle p.a. 2001, 230, con nota di Salomone, L’obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell’incarico dirigenziale e la comunicazione di avvio del relativo procedimento)
  77. Al Direttore sanitario DPP in un Irccs non è direttamente applicabile la normativa vigente per i Direttori sanitari delle Aziende sanitarie locali (Pret. Milano 10/5/99 (ord), est. Chiavassa, in D&L 1999, 616, n. Piccolomini, La normativa applicabile o comunque rilevante in materia di Istituti di ricerca e cura a carattere scientifico)
  78. Ai fini del riparto di giurisdizione relativamente ad una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del conferimento di un incarico dirigenziale, nella quale venga in contestazione lo svolgimento delle procedure selettive presupposte, occorre avere riguardo al criterio della materia, a prescindere dalle posizioni giuridiche soggettive dedotte; pertanto la relativa competenza è del giudice ordinario (T.A.R. Friuli venezia Giulia 18/12/99, n. 1282, pres. Bagarotto, est. Settesoldi, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 224, con nota di Macioce, Conferimento di incarichi dirigenziali e riparto di giurisdizione)
  79. La promozione dei dipendenti e l’attribuzione di incarichi dirigenziali, rientrando nel potere di organizzazione discrezionale del datore di lavoro, sono suscettibili di controllo in sede giurisdizionale esclusivamente sotto il profilo dell’osservanza di leggi, regolamenti o CCNL, nonché del rispetto del generale dovere di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1175 c.c.; in materia di incarichi dirigenziali, sotto il profilo dell’osservanza alle leggi, viene in rilievo l’art. 19 del d.lgs. n. 29/93 che, ai fini del conferimento di incarichi dirigenziali, impone una valutazione in chiave comparativa, nell’ambito della quale è obbligatoria la considerazione di elementi di carattere obiettivo (natura e caratteristiche dei programmi da realizzare) e di carattere soggettivo (attitudini e capacità professionali). E’ quindi indispensabile estrinsecare la valutazione degli elementi che giustificano la scelta (Nella fattispecie si è ritenuto che l’intervento del giudice è legittimo nel caso in cui l’esercizio del potere di scelta discrezionale risulti affetto da manifesta irragionevolezza o inadeguatezza, rivestendo i caratteri dell’arbitrarietà, ma non può investire il merito delle scelte, riconducibile all’attività valutativa discrezionale della pubblica amministrazione rientrante nella potestà di autorganizzazione della stessa) (Trib. Napoli 10/12/99, ordinanza, pres. e est. Papa, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 254, con nota di Talamo, Onere di motivazione e criteri per il conferimento degli incarichi dirigenziali: il controllo del giudice ordinario)