Statuto dei lavoratori

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Questa voce è stata curata da Andrea Bordone e aggiornata da Alexander Bell

Scheda sintetica

Si definisce Statuto dei Lavoratori la Legge 20 maggio 1970 n. 300, che reca “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”.

Si tratta di un corpo normativo fondamentale del diritto del lavoro italiano che, parzialmente modificato e integrato nel corso di questi decenni, ancora oggi costituisce la disciplina di riferimento per i rapporti tra lavoratore e impresa e i diritti sindacali.

Approvato a seguito delle tensioni sociali e delle lotte sindacali della fine degli anni sessanta, conosciute come la stagione dell’autunno caldo, e preceduto dall’introduzione nell’ordinamento di alcune significative norme di tutela e garanzia per i lavoratori, quali la Legge 1124/1965 in materia di infortuni e malattie professionali, la Legge 903/65 in materia pensionistica e la Legge 604/66 in materia di licenziamenti, lo Statuto rappresentò una svolta dal punto di vista sia politico che giuridico, nel sancire positivamente alcuni dei diritti fondamentali del lavoratore e delle sue rappresentanze sindacali.

Per oltre quaranta anni l’impianto statutario ha retto alle profonde trasformazioni della società e dell’impresa e continua a costituire uno strumento di tutela giuridica imprescindibile nell’ambito del diritto del lavoro.

Il titolo I dello Statuto (artt. 1 – 13) disciplina diritti e divieti volti a garantire la libertà e dignità del lavoratore; in particolare in materia di libertà di opinione del lavoratore (art. 1), regolamentazione del potere di controllo (artt. 2 – 6) e disciplinare (art. 7), di mansioni e trasferimenti (art. 13).

Il titolo II (artt. 14 – 18), dedicato alla libertà sindacale, nell’affermare e disciplinare il principio cardine del diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro e di aderirvi (art. 14), sancisce la nullità degli atti discriminatori (art. 15), pone il divieto di costituire o sostenere sindacati di comodo (art. 17) e, allo scopo di rendere effettivi tali diritti, introduce la garanzia della stabilità del posto di lavoro, disponendo le tutele accordate al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo (art. 18).

Nel titolo III si tracciano le prerogative dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, attraverso il riconoscimento al sindacato del potere di operare nella sfera giuridica dell’imprenditore, per il conseguimento dei propri obiettivi di rappresentanza e di tutela.

Valgono a tale scopo il fondamentale diritto alla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (art. 19), nonché le ulteriori prescrizioni finalizzate a consentire l’esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, nelle sue varie forme di manifestazione (assemblea, affissione, permessi, locali e garanzie della funzione sindacale – artt. 20 – 27).

Tra le disposizioni del titolo IV, oltre a quelle in materia di permessi e aspettative per i dirigenti sindacali (artt. 30 – 32), assume una posizione cruciale l’art. 28, che predispone un particolare strumento giudiziario volto a reprimere condotte antisindacali, in quanto impeditive o limitative dell’esercizio dell’attività sindacale o del diritto di sciopero.

Si tratta di una norma di centrale importanza nel disegno complessivo dello Statuto, in quanto legittima il sindacato ad agire direttamente nei confronti dell’imprenditore e a ottenere una pronuncia giudiziale di condanna, con ciò sancendo nella sostanza l’effettività dei diritti sindacali enunciati.

Fonti normative

  • Legge 20 maggio 1970, n. 300
  • Legge 11 maggio 1990, n. 108
  • Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
  • Decreto legislativo 23/2015, Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti

 

Scheda di approfondimento

Le origini

L’idea di introdurre nell’ordinamento uno Statuto dei diritti dei lavoratori risale ai primi anni ’50, quando, nel contesto sociale e politico scaturito dal dopoguerra, fu avanzata per la prima volta dal segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio.
L’esigenza nasceva dal clima di intimidazione, se non di repressione, che si respirava nei luoghi di lavoro, tanto più nei confronti dei lavoratori maggiormente impegnati sul fronte sindacale.

Per oltre un decennio non fu possibile realizzare tale aspirazione, tenuto conto anche delle resistenze della parte più moderata del sindacato.

Agli inizi degli anni ’60, con l’avvento dei governi di centro-sinistra, cominciano a farsi strada diritti e garanzie per i lavoratori, attraverso una serie di significativi interventi legislativi, fino alla introduzione nell’ordinamento della prima, seppur limitata, disciplina in materia di licenziamenti, con la Legge 15 luglio 1966, n. 604.

Con il movimento del ’68 e con la più intensa stagione delle lotte operaie tornò di attualità l’idea dello Statuto, come strumento legislativo volto a garantire e rafforzare i diritti dei lavoratori e ad assicurare la presenza del sindacato nei luoghi di lavoro, come peraltro era, almeno in parte, avvenuto per via contrattuale con l’accordo del settore metalmeccanico del gennaio 1970.

Elaborata su iniziativa dell’allora ministro del lavoro, il socialista Giacomo Brodoloni, e sotto la guida di Gino Giugni, la Legge venne approvata il 20 maggio del 1970.

Il contenuto

Lo Statuto si apre con l’affermazione del fondamentale principio di libera manifestazione del pensiero, che, già sancito in via generale dall’art. 21 della Costituzione, trova espresso riconoscimento nel particolare ambito lavorativo. Si tratta di una petizione di principio per nulla superflua, ove si consideri come all’epoca (ma l’osservazione vale anche per l’oggi) il lavoratore fosse condizionato nell’esercizio di tale diritto dal timore di incisive ripercussioni sul rapporto di lavoro.

La norma si completa, sul piano sistematico, con il divieto di indagini sulle opinioni previsto dall’art. 8 e con la disposizione di respiro collettivo contenuta nell’art. 14, che sancisce il diritto dei lavoratori di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacali all’interno dei luoghi di lavoro.

La finalità di garantire la libertà e la dignità del lavoratore ispira le disposizioni contenute negli articoli da 2 a 6, che si riferiscono in particolare a:

  • divieto di impiego di guardie giurate per scopi diversi dalla tutela del patrimonio aziendale (art. 2);
  • obbligo di comunicazione dei nominativi del personale di vigilanza (art. 3);
  • divieto di uso di impianti audiovisivi e di apparecchiature di controllo a distanza, a eccezione di quelle necessarie per la tutela del patrimonio aziendale, utilizzabili previo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa (art. 4);
  • divieto di accertamenti sanitari e di controlli diretti delle assenze per malattia, salva la facoltà di verifica dell’idoneità fisica attraverso gli enti pubblici competenti (art. 5);
  • divieto di perquisizione del lavoratore, a meno che il controllo non si renda indispensabile per la tutela del patrimonio aziendale, considerata la natura dell’attività (art. 6).

Di centrale importanza sul piano dei principi, ma anche di assoluta rilevanza nella prassi quotidiana, è la disposizione sancita dall’art. 7, con la quale è stato introdotto l’obbligo per il datore di lavoro di esercitare il potere disciplinare secondo forme e procedure prestabilite, a pena di illegittimità della sanzione, compresa l’ipotesi del licenziamento disciplinare, così come sancito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 29 novembre 1982.

Nell’ambito del titolo I merita di essere segnalato l’art. 13 che, nel sostituire l’art. 2103 cod. civ., regolamenta in forma compiuta la materia delle mansioni e delle qualifiche del lavoratore, limitando il relativo potere di modifica da parte del datore di lavoro (così detto ius variandi), attraverso sia l’espresso divieto di modifiche in senso peggiorativo, sia il diritto alla definitiva acquisizione del livello superiore di inquadramento, in caso di svolgimento delle corrispondenti mansioni per il periodo previsto dalla contrattazione collettiva, comunque non superiore a tre mesi; è previsto inoltre che il trasferimento del lavoratore possa avvenire solo in presenza di determinate ragioni giustificatrici.

A garanzia dell’effettività delle tutele previste dalla norma, è espressamente sancita la nullità di ogni eventuale patto contrario.

Il titolo secondo, dedicato alla libertà sindacale, si apre con il già citato art. 14, relativo al diritto di associazione e di attività sindacale, espressione del principio cardine sancito dall’art. 39 della Costituzione, secondo il quale “l’organizzazione sindacale è libera”.

La norma garantisce innanzi tutto il diritto di costituire associazioni sindacali, con una formula ampia, tale da ricomprendere qualsiasi forma di aggregazione dei lavoratori, ferme restando le prerogative riconosciute dallo Statuto alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (v. art. 19).
La disposizione in commento prevede inoltre il diritto di aderire alle organizzazioni sindacali (il che include, in negativo, anche il diritto di non aderirvi) e, in generale, di svolgere attività sindacale nei luoghi di lavoro, diritto le cui forme di concreta attuazione sono meglio specificate nel titolo III.

Al fine di rendere effettive le garanzie di libertà sindacale, l’art. 15 sancisce la nullità di qualsiasi patto o atto discriminatorio.

La norma, quale espressione di un principio generale già riconosciuto dalla Costituzione, da convenzioni e trattati internazionali e, in ambito lavoristico, dall’art. 4 Legge 604/66, ribadisce e amplia il tema della discriminazione, ponendo in via generale il divieto di qualsiasi atto diretto a recare pregiudizio al lavoratore per effetto di una discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzione personale, secondo l’estesa accezione contemplata dalla attuale formulazione.

A coronamento del principio, nell’art. 16 è sancito il divieto di trattamenti economici collettivi a carattere discriminatorio, norma che assume rilevanza concreta nell’elaborazione giurisprudenziale soprattutto in considerazione dell’insussistenza nell’ordinamento del principio di parità di trattamento.

Al fine di garantire il genuino svolgimento delle relazioni sindacali, l’art. 17 vieta al datore di lavoro e alle associazioni imprenditoriali non solo – ovviamente – di costituire, ma anche di sostenere in qualsiasi modo sindacati così detti di comodo.

Va precisato che il sostegno vietato non riguarda ipotesi di eventuale convergenza tra il datore e un sindacato in un contesto di effettiva contrapposizione, ma il caso in cui un’organizzazione sindacale svolga solo apparentemente il ruolo di antagonista, essendo invece in concreto un soggetto addomesticato.

Secondo l’opinione prevalente, in assenza di una specifica previsione sanzionatoria, l’eventuale violazione del divieto può essere ritenuta condotta antisindacale, con legittimazione al ricorso ex art. 28 da parte dei sindacati genuini.

L’art. 18 (per la cui compiuta trattazione si rimanda alle voci: Tutela reale e Licenziamento illegittimo – Effetti) ha rappresentato per quasi trentacinque anni il cardine della disciplina limitativa dei licenziamenti e ha costituito in definitiva il più efficace riconoscimento e la più ampia garanzia a livello individuale dei diritti e delle libertà enunciate dallo Statuto. In sostanza ogni volta che il giudice avesse ritenuto illegittimo un licenziamento, la sanzione prevista era una sola ed era la reintegrazione nel posto di lavoro (nel caso di imprese con più di 15 dipendenti).

Come è noto, la norma ha subito una pesante rivisitazione per opera delle riforma del 2012: mentre prima di tale legge, infatti, il principio di stabilità del rapporto di lavoro era tutelato in ogni caso, ad oggi la norma prevede quattro differenti regimi di tutela che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento.

Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto ha di recente raggiunto il suo culmine con l’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015 (contenente la disciplina del c.d. “contratto di lavoro a tutele crescenti”), attuativo della legge delega 183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, che interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015); detto regime individua nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo e limita ulteriormente le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro.

La finalità comunemente riconosciuta allo Statuto di sostegno delle organizzazioni sindacali e di promozione dell’attività del sindacato nei luoghi di lavoro, trova concreta attuazione nelle norme incluse nel titolo III.
In questa direzione si pone innanzi tutto il diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali, riconosciuto dall’art. 19 alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
La norma, che specifica e completa il diritto individuale sancito dall’art. 14, determina l’estensione della libertà sindacale a livello collettivo, individuando i soggetti ai quali sono attribuiti i diritti necessari per esplicare in concreto le prerogative sindacali nei luoghi di lavoro, ovvero, per espressa indicazione della norma, le rappresentanze sindacali aziendali (RSA) e, a seguito dell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993, anche le rappresentanze sindacali unitarie (RSU), ove costituite.

La Corte Costituzionale, con sentenza del 3 luglio 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 nella parte in cui non prevede che la Rappresentanza Sindacale Aziendale sia costituita anche da associazioni sindacali che, pur non avendo sottoscritto contratti collettivi applicati nell’azienda, abbiano partecipato alla trattativa.

Quanto al contenuto dei diritti sindacali, l’art. 20 istituisce quello di assemblea, disciplinandone le modalità di esercizio, fatta salva sul punto la contrattazione collettiva e aziendale, nonché individuando i soggetti legittimati a indire le riunione, consentendo la partecipazione anche ai dirigenti esterni dei sindacati, previo avviso al datore di lavoro.
Si tratta di un istituto di democrazia diretta, per quanto mediata dalla facoltà di iniziativa attribuita alle rappresentanze sindacali, conforme allo spirito dello Statuto di permettere a tutti i lavoratori la partecipazione a discussioni in tema di politiche contrattuali e sindacali.

Altro istituto di democrazia diretta è il referendum previsto dall’art. 21; le consultazioni devono svolgersi fuori dell’orario di lavoro e riguardare materie inerenti l’attività sindacale, come sempre più di frequente avviene, in particolare qualora venga chiesto ai lavoratori di esprimere il loro voto rispetto sia a piattaforme contrattuali che all’esito di accordi.

L’art. 22 prevede una tutela speciale per i dirigenti sindacali in materia di trasferimento, disponendo che tale provvedimento non debba solo essere giustificato dalle ragioni di cui all’art. 2103 cod. civ., ma anche che debba essere preceduto dal nulla osta dell’organizzazione sindacale di appartenenza.

La norma è finalizzata a garantire il libero e incontrastato esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, tramite il principio della inamovibilità del lavoratore che rivesta cariche sindacali.

Destinatari della norma, originariamente riferita ai membri delle commissioni interne e delle rappresentanze sindacali aziendali, nonché ai candidati alle relative posizioni, oggi devono ritenersi anche i componenti e i candidati delle RSU.
Quanto all’ambito applicativo della norma, la nozione di unità produttiva è costantemente interpretata con riferimento a una rilevante componente dell’impresa, sicché la disposizione in questione non si applica, ad esempio, al trasferimento da un reparto all’altro dello stesso stabilimento.

Gli artt. 23 e 24 disciplinano la materia dei permessi retribuiti e non retribuiti in favore dei sindacalisti interni, attribuendo loro, allo scopo di garantire il libero svolgimento dell’attività sindacale, il diritto incondizionato di fruirne.

Quanto invece ai componenti degli organismi direttivi delle organizzazioni sindacali, l’art. 30 demanda alla contrattazione collettiva la disciplina dei permessi.

Diversa è l’ipotesi dei lavoratori chiamati a ricoprire stabilmente cariche sindacali o funzioni pubbliche elettive, i quali hanno diritto, a mente dell’art. 31, di essere collocati in aspettativa non retribuita per tutta la durata del mandato.

Il diritto di affissione contemplato dall’art. 25, comporta l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione delle rappresentanze sindacali, unici soggetti titolari del diritto, spazi adeguati per esporre documenti e comunicati di interesse sindacale.

Onde consentire una effettiva pubblicità e conoscibilità dei comunicati affissi, il luogo deve trovarsi all’interno dell’azienda e deve essere accessibile a tutti i lavoratori.

Analogamente l’art. 27 pone a carico dei datori di lavoro con più di 200 dipendenti l’obbligo di consentire in via permanente l’esercizio delle funzioni sindacali attraverso la messa a disposizione di un apposito locale; per le altre aziende o unità, è previsto invece il diritto di chiedere l’utilizzazione di un locale per riunioni di interesse sindacale.

L’art. 26 sancisce il diritto dei lavoratori di svolgere attività di proselitismo, quale naturale estensione dei diritti di manifestazione del pensiero ex art. 1 e di libertà sindacale ex art. 14.

Precisato che tale attività comprende, oltre alla semplice propaganda, anche la possibilità di promuovere l’adesione al sindacato e di raccogliere l’iscrizione, essa trova il limite di non ostacolare il normale svolgimento dell’attività aziendale.
Il medesimo articolo disciplina anche la complessa materia del versamento diretto dei contributi sindacali, che è stata oggetto di un vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale, così come di una modifica sostanziale della disciplina, a seguito del referendum abrogativo del 1995.

Assume infine cruciale importanza l’art. 28, disposizione che, nel prevedere uno speciale procedimento per la repressione della condotta antisindacale, ovvero di comportamenti potenzialmente lesivi dei diritti e delle libertà sindacali, nonché del diritto di sciopero, è comunemente riconosciuta come la vera norma di chiusura della legge.
Il legislatore del ’70 ha inteso offrire alle organizzazioni sindacali uno strumento processuale fino allora inedito, legittimandole ad agire direttamente allo scopo di impedire atti, provvedimenti e iniziative datoriali volti a ostacolare l’esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro.