Diritto di accesso ai documenti amministrativi

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Questa voce è stata curata da Francesca Levato

 

Premessa

Il diritto di accesso agli atti amministrativi è un diritto riconosciuto al cittadino in funzione dei rapporti con lo Stato e la Pubblica amministrazione, al fine, in particolare di garantire la trasparenza di quest’ultima. Il diritto di accesso è sin dall’inizio, nell’esperienza italiana, legato al possesso di una situazione legittimante (che, nel testo originario è dato dal possesso di una “situazione giuridicamente rilevante”). Il diritto di accesso ai documenti amministrativi, previsto dal Capo V della legge n. 241/90, si lega quindi sia ad esigenze di tutela del singolo (il “diritto” è riconosciuto per salvaguardare posizioni giuridicamente rilevanti che preesistono, quali “diritti soggettivi” ed “interessi legittimi”, e che attraverso l’accesso vengono salvaguardati), che a finalità di interesse generale come è ben manifestato nella originaria dizione dell’art. 22 della legge che riconosceva il diritto di accesso al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa. Questo rapporto con la trasparenza, e quindi la cd. natura “bifronte” del diritto di accesso (legato a situazioni individuali, ma funzionale anche alla cura di interessi pubblici), si è attenuato in seguito alla riforma operata dalla legge n. 15 del 2005, che ha modificato varie parti della legge n. 241.

Questo principio si è concretizzato nella possibilità per i cittadini di attuare un controllo democratico sull’attività dell’amministrazione e della sua conformità ai precetti costituzionali. La legge 15/2005 ha ridisegnato l’istituto dell’accesso elevandolo a principio fondamentale ed estendendolo a tutta la pubblica amministrazione. Titolari del diritto di accesso, ai sensi dell’art 22 della legge 241/1990, sono tutti i soggetti interessati, e cioè i privati, anche portatori di interessi diffusi che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale corrispondente ad una situazione giuridica tutelata e connessa al documento in relazione al quale si richiede l’accesso.
L’oggetto del diritto d’accesso è il documento amministrativo definito nell’art. 22 come “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa.”Riguardo alla libertà di essere informati, nell’art. 11 della Carta di Nizza del 2000 si definisce la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Questa norma pone al centro dell’attenzione il problema dell’accesso alle fonti di informazione, e implica un dovere da parte delle autorità pubbliche di non porre ostacoli alla fruizione delle notizie.

Di qui nasce il diritto di accesso agli atti della Pubblica Amministrazione, cui è dedicato il Capo V della legge n. 241/1990, Nuove sono le norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi:

  • Il requisito per l’accesso agli atti risiede in un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (art. 22).
  • Il diritto all’accesso è negato qualora dalla loro divulgazione possa derivare una lesione (…) alla sicurezza e alla difesa nazionale, quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche e persone giuridiche (art. 24).
  • Il successivo art. 25 stabilisce che il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti, peraltro avvalendosi di un rito processuale particolarmente con termini dimezzati.

Questo in sintesi è lo schema esplicativo del diritto di accesso che ora andremo ad approfondire nelle sue varie sfaccettature, soprattutto a seguito dell’intervento legislativo con la l. 15/05. La legge 11.2.2005 n. 15, innovando profondamente la legge generale sul procedimento amministrativo (n. 241/1990), ha dettato una disciplina più organica e completa in materia di accesso ai documenti, disciplinato dal capo V agli artt. 22 e seg. L’art. 22 come novellato dalla legge n. 15/2005 alla lett. a) del comma 1 si preoccupa, a differenza della normativa precedente, di definire il diritto di accesso, inteso come il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia dei documenti amministrativi.
Il diritto di accesso in questione è il c.d. accesso conoscitivo (o informativo) e va distinto dal c.d. accesso partecipativo disciplinato dal precedente art. 10 della legge 241/90. Il fondamento giuridico del diritto di accesso conoscitivo va individuato nel principio di trasparenza dell’attività amministrativa e più a monte negli artt. 97 e 98 Cost., ove si enuncia il principio di buon andamento dei pubblici uffici (parte della dottrina ha invece collegato il diritto di accesso al diritto di informazione, garantito dall’art. 21 Cost.). La stessa legge n. 15/2005 contiene in proposito un’importante enunciazione di principio, laddove innovando l’art. 22 della legge n. 241/90, prevede che l’accesso ai documenti, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce un principio generale dell’attività amministrativa, finalizzato a favorire la partecipazione dei privati e ad assicurare l’imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa. Poiché il diritto di accesso, prosegue la norma, attiene ai “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, il relativo fondamento può essere rinvenuto anche nell’art. 117 co. 2 lett. m) della Costituzione, espressamente richiamato dal nuovo art. 22.

 

Oggetto del diritto di accesso

L’oggetto del diritto di accesso è costituito dai documenti amministrativi definiti, dalla lett. d) dell’art. 22 (come novellato dalla legge n. 15/2005), come ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti relativi ad un determinato procedimento detenuti dalla P.A. La norma ha risolto espressamente ed in maniera positiva il problema se oggetto del diritto di accesso possano essere anche gli atti interni, cioè quegli atti endoprocedimentali che non hanno effetto immediato verso il privato ma costituiscono gli antecedenti del provvedimento finale (es. pareri tecnici e nulla osta).La norma ha risolto anche l’ulteriore problema se il diritto di accesso possa riguardare gli atti di diritto privato emessi dalla P.A.: secondo la nuova disciplina, che sul punto ha recepito le decisioni della giurisprudenza più recente, ciò che conta ai fini del diritto di accesso non è la natura pubblica o privata dell’attività posta in essere, bensì il fatto che l’attività di diritto privato, posta in essere dalla P.A. miri alla tutela del pubblico interesse e sia soggetta al canone di imparzialità .

 

I titolari del diritto di accesso

Il nuovo art. 22, come novellato dalla legge n. 15/2005, dopo aver puntualizzato (lett. a) che il diritto di accesso è il diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi, alla lettera b), individuando l’area dei soggetti interessati, ossia dei possibili titolari del diritto di accesso, afferma che l’interesse deve essere diretto, concreto, attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.In particolare, l’interesse deve essere:

  • attuale, non con riferimento all’interesse ad agire in giudizio per la tutela della posizione sostanziale vantata, bensì alla richiesta di accesso ai documenti;
  • diretto, ossia personale, cioè deve appartenere alla sfera dell’interessato (e non ad altri soggetti);
    concreto, con riferimento alla necessità di un collegamento tra il soggetto ed un bene della vita coinvolto dall’atto o documento; non basta, ad esempio, il generico interesse alla trasparenza amministrativa, occorrendo un ‘quid pluris’, consistente nel collegamento tra il soggetto ed un concreto bene della vita;
    Secondo la dottrina prevalente, già consolidatasi sotto la vigenza del vecchio testo, l’interesse deve inoltre essere:
  • serio, ossia meritevole e non emulativo (cioè fatto valere allo scopo di recare molestia o nocumento),
  • adeguatamente motivato, con riferimento alle ragioni che vanno esposte nella domanda di accesso.
    L’interesse all’accesso deve presentare, infine, un ulteriore requisito imprescindibile, ossia deve corrispondere ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso. Va in proposito rilevato che l’accesso è strumentale alla tutela di posizioni qualificate per le quali, già prima della legge n. 15/2005, si discuteva se dovessero avere la consistenza di diritto soggettivo, interesse legittimo o altro. La legge n. 15/2005, nel richiedere espressamente che l’interesse corrisponda ad una situazione giuridicamente tutelata dall’ordinamento, non ha fatto altro che avallare i risultati ai quali era pervenuta la giurisprudenza più recente.
    Quest’ultima da un lato esclude il diritto di accesso per i titolari degli interessi di fatto ma dall’altro va oltre la sfera dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, purchè venga in rilievo una posizione tutelata dall’ordinamento, quale ad esempio, le aspettative di diritto, ma anche posizioni di interesse procedimentale (si pensi alla situazione del legittimato a determinare l’apertura di un procedimento amministrativo ad istanza di parte, nella fase anteriore alla presentazione della domanda), nonché di interessi allo stato diffuso sia pure a certe condizioni.
    Altro problema, che si è posto ed è stato espressamente affrontato dalla legge n. 15/2005, ha riguardato le associazioni e comitati portatori di interessi diffusi. La legge 15/2005 all’art. 1 lett. b) ha espressamente esteso la qualifica di “interessati” (potenziali titolari del diritto di accesso) ai soggetti privati “portatori di interessi diffusi”.
    La giurisprudenza formatasi prima dell’intervento della nuova legge, al cospetto di istanze di accesso di enti esponenziali di interessi diffusi, si è limitata a verificare la sussistenza di un nesso pertinenziale tra l’oggetto dell’accesso ed i fini statutari dell’ente, anche considerando il tasso di rappresentatività dello stesso. Viceversa non ha consentito l’accesso quando riguarda elementi informativi estranei alla sfera giuridica dell’associazione o quando il fine statutario dell’ente è il generico interesse al controllo della trasparenza e legittimità dell’azione amministrativa, circostanza ritenuta insufficiente a giustificare il diritto di accesso; ciò risulta d’altronde confermato espressamente dalla legge n. 15/2005 che al nuovo art. 24 ha disposto che “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”.
    Va tuttavia precisato che, per es in materia ambientale, il legislatore con il d. lgs. n.. 39/97 ha previsto un ampliamento sia del novero dei soggetti legittimati all’accesso sia dei documenti ostensibili; per quanto riguarda i soggetti, è stato previsto che legittimato alla richiesta è “chiunque, senza che occorra dimostrare il proprio interesse”; per quanto riguarda l’oggetto, viene adottata una nozione allargata rispetto all’originario dettato della legge n. 241/90, perché ricomprende “qualsiasi informazione in materia ambientale”.

 

 

I soggetti passivi obbligati a consentire l’accesso

Il nuovo testo dell’art. 23, come introdotto dal comma 2 dell’art. 4 1. 265/1999, e non modificato dalla legge n. 15/2005, definisce in modo diverso e più onnicomprensivo l’ambito dei soggetti nei cui confronti è esercitabile il diritto di accesso ai documenti. Ora, infatti, tale diritto è esercitabile nei confronti di:

  • tutte le pubbliche amministrazioni (non più solo statali);
  • nei confronti delle aziende autonome e speciali (in tal modo ricomprendendo espressamente le aziende previste dall’art. 22 1. 142/1990);
  • degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi.

L’elencazione di cui all’art. 23, nuovo testo, si chiude con la specifica menzione del diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza (cd. “autorità indipendenti”), che si esercita “nell’ambito dei rispettivi ordinamenti secondo quanto previsto dall’art. 24.Il problema più importante si è posto per i privati gestori di pubblici servizi. Fondamentali sul punto sono le due decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (nn. 4 e 5 del 1999), la quale ha rilevato che ciò che conta ai fini dell’operatività del diritto di accesso non è la natura pubblica o privata dell’attività posta in essere, bensì il fatto che l’attività, ancorché di diritto privato:

  • miri alla tutela di un pubblico interesse
  • e sia soggetta al canone di imparzialità.

In tal modo l’Ad. Plenaria ha distinto tra attività privatistica della PA ed attività dei privati concessionari di pubblici servizi. Per quanto concerne l’attività privatistica della PA, è stato ritenuto che il diritto di accesso operi in ogni caso, perché tutta l’attività della PA è sempre ispirata ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento. Per quanto concerne l’attività dei concessionari, la giurisprudenza ha distinto tra i vari momenti nei quali si esplica:

  • nei procedimenti per la formazione delle determinazioni contrattuali, quali ad esempio la scelta del contraente, il dovere di imparzialità è ‘in re ipsa’ e l’accesso va garantito;
  • analogamente per quanto concerne le scelte organizzative adottate in sede di gestione del servizio (scelte dirette ad offrire un servizio avente certi standards qualitativi), ove pure il dovere di imparzialità opera: anche qui l’accesso va garantito;
  • per quanto concerne le cc.dd. attività residuali del concessionario, ossia le attività diverse dalla gestione del servizio, la giurisprudenza afferma che occorre operare un giudizio di bilanciamento degli interessi cui la stessa è preordinata, per cui se prevale l’interesse pubblico su quello puramente imprenditoriale, il diritto di accesso deve operare (in tal caso la valutazione comparativa deve tener conto di alcuni parametri, quali il grado di strumentalità dell’attività rispetto all’attività di gestione del servizio; il regime sostanziale dell’attività; l’adozione da parte del gestore di regole dirette a garantire il rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza, buona fede e correttezza).

All’opposto deve trovare applicazione integralmente il diritto privato quando il soggetto, pur avendo natura pubblica, formalmente o sostanzialmente (proprietà pubblica di una società), non gestisce servizi pubblici e svolge un’attività comunque estranea alla sfera della rilevanza collettiva degli interessi. In tal caso il privato dovrà avvalersi degli ordinari strumenti previsti dal c.p.c. (art. 210 ordine di esibizione di atti alla parte o al terzo).La legge n. 15/2005, come si è detto, non è espressamente intervenuta sul punto (anzi il disposto dell’art. 23 è rimasto invariato), ma si è indirettamente occupata del problema a livello definitorio, laddove il nuovo testo dell’art. 22 alla lett. e) ha statuito che per pubblica amministrazione deve intendersi qualunque soggetto di diritto pubblico o di diritto privato “limitatamente” all’attività di pubblico interesse, confermando in tal modo le soluzioni interpretative sopra esposte e formulate dalla giurisprudenza più recente.

 

Diritto di accesso e suoi limiti

L’art. 24 è stato fortemente innovato dalla legge n. 15/2005 che, dettagliando e specificando in maniera più esaustiva la normativa precedente, ha previsto vari livelli di limitazioni al diritto di accesso.Un primo livello di limiti è previsto dalla stessa legge stessa.
L’art. 24 al primo comma esclude il diritto per tutti i documenti coperti dal segreto di Stato ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge o dal regolamento governativo di attuazione. A tali materie, per le quali già il vecchio art. 24 prevedeva l’esclusione del diritto di accesso, la legge n. 15/2005 ha aggiunto nuove materie, onde l’accesso è stato ulteriormente escluso:

  • nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano;
  • nei confronti delle attività della PA dirette all’emanazione di atti normativi, atti amministrativi generali, di programmazione e pianificazione, che restano soggette alla loro disciplina particolare;
  • nei procedimenti selettivi, quando vengono in rilievo documenti contenenti informazioni di natura psico-attitudinale relativi a terzi.

Quando vengono in rilievo queste materie, le singole amministrazioni (Ministeri ed altri enti) debbono individuare, con uno o più regolamenti, le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso per le esigenze di salvaguardia degli interessi indicati nel comma 1. Fuori da queste ipotesi (quelle cioè indicate dal nuovo art. 24 co. 1), il nuovo comma 6 dell’art. 24 enuncia la regola di principio secondo cui il diritto di accesso può essere escluso per l’esigenza di salvaguardare:

  1. la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali;
  2. la politica monetaria e valutaria;
  3. l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità;
  4. la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, giuridiche, gruppi, imprese ed associazioni con particolare riferimento agli interessi di natura epistolare, sanitaria, finanziaria, industriale e commerciale;
  5. l’attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all’espletamento del relativo mandato.

In tali casi, la disciplina concreta è rimessa ad un regolamento delegato al Governo, emanato nella forma del D.P.R. ai sensi del secondo comma dell’ art. 17 l. 400/ 1988 (cd. delegificazione della materia), al quale è demandato di disciplinare non solo le modalità di esercizio del diritto ma soprattutto i casi di esclusione nel rispetto dei principi e criteri direttivi dettati dalla legge (cd. di delega).La legge attribuisce però alla PA anche uno specifico potere discrezionale, che le fonti secondarie possono disciplinare più dettagliatamente: il potere di differire l’accesso ai documenti richiesti, ossia di negare l’accesso solo per un periodo di tempo determinato (il nuovo comma 4 disciplina il potere di differimento più genericamente di quanto facesse in passato il vecchio comma 6 che condizionava l’esercizio del potere di differimento alle ipotesi in cui la conoscenza del documento poteva impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa).Non vi è dubbio che, anche alla luce della nuova disciplina, i regolamenti possono prevedere ipotesi specifiche di differimento, fissandone la durata (in tal caso non si configurerebbe un potere discrezionale in capo alla PA. procedente).E’ poi previsto che la P.A. non può negare l’accesso ai documenti nelle ipotesi in cui sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento (art. 24 co. 4 come modificato dalla legge n. 15/2005).

 

L’accesso negli atti tributari

Prima dell’intervento della legge n. 15/2005, la giurisprudenza aveva risolto in senso affermativo il problema della compatibilità della normativa sul diritto di accesso con il settore tributario.La tesi positiva era stata da ultimo sostenuta dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza del 28.5.1998 n. 5292. La riforma della legge sul procedimento amministrativo (n. 15/2005), nel riscrivere i casi di esclusione del diritto di accesso -prevedendo una serie di limitazioni all’esercizio di tale diritto in relazione ad esigenze di segreto o di riservatezza concernenti determinati procedimento amministrativi, poste sia nell’interesse pubblico che nell’interesse di terzi- dispone espressamente, come già rilevato in precedenza, l’esclusione dell’accesso nei procedimenti tributari, affermano che per questi ultimi “restano ferme le particolari norme che li regolano” (art. 24 co. 1 lett. b).Tale espressione ricalca quella dell’art. 13 co. 2 della legge 241/90 a mente del quale le disposizioni concernenti la partecipazione al procedimento amministrativo non si applicano ai procedimenti tributari per i quali “restano parimenti ferme le particolari norme che li regolano”.
La riforma ha espressamente risolto, quindi, in senso, negativo il problema dell’ammissibilità del diritto di accesso nei procedimenti tributari, pervenendo a conclusioni opposte a quelle sostenute dalla giurisprudenza prevalente. La ratio di tale esclusione è da ricercare nella peculiarità dell’attività svolta dagli uffici tributari e nella conseguente impossibilità logico-giuridica di un’estensione a tali procedimenti della disciplina dettata in materia di partecipazione della legge n. 241/90 per la generalità dei procedimenti. In particolare, l’inapplicabilità deriva dalla struttura del procedimento tributario, in cui esiste un solo soggetto interessato, ossia il soggetto d’imposta, e di conseguenza non è neppure astrattamente configurabile la partecipazione di terzi. In conclusione, sia il diritto di accesso sia la partecipazione al procedimento seguono, nei procedimenti tributari, le particolari norme che li regolano. Il riferimento attiene in particolare alla legge 27.7.2000 n. 212 (c.d. statuto del contribuente), che, nell’intento di perseguire, tra l’altro, finalità analoghe alla legge 241, ha introdotto alcuni principi generali improntati alla collaborazione e alla buona fede reciproca tra fisco e contribuente, derogabili solo espressamente a mezzo di legge ordinaria.
Nel delimitare l’ambito soggettivo, l’art. 1 stabilisce che la legge si applica non solo all’amministrazione finanziaria, ma anche ai soggetti che rivestono la qualifica di concessionari nonché agli enti locali, che devono, entro sei mesi, adeguare gli statuti e gli atti normativi ai principi generali della nuova legge. Alcune disposizioni (art. 2, 5 e 10) sono rivolte al legislatore e sono finalizzate a rendere conoscibile la legge tributaria mediante la previsione di obblighi concernenti la collocazione delle disposizioni tributarie solo all’interno di testi legislativi di tale natura nonché la riproduzione nel testo delle disposizioni richiamate.
Negli art. 3 e 4 si prescrive:

  • che la introduzione di nuovi tributi non può avvenire a mezzo decreto legge;
  • che solo le norme interpretative possono avere efficacia retroattiva; che sono improrogabili i termini di prescrizione e decadenza.

Gli art. 6 e 7 riproducono specificatamente alcuni principi contenuti nella 1. n. 241. Si tratta di disposizioni rivolte all’amministrazione finanziaria, che, in caso di incertezza sul contenuto della dichiarazione dei redditi, deve invitare il contribuente a fornire i chiarimenti necessari e ad esibire i documenti, a pena di nullità dell’iscrizione a ruolo. Inoltre, si ribadisce l’obbligo di motivazione in fatto e diritto dei provvedimenti e di allegazione degli atti richiamati in caso di motivazione per relationem.
Completano il quadro delle garanzie introdotte, ex art., 8, 9, 12 e 13, l’espressa previsione:

  • della compensazione tra debiti e crediti;
  • la potestà del Ministro di concedere sospensioni e differimenti dei termini di adempimento;
  • le prescrizioni che devono essere osservate nelle verifiche ed ispezioni fiscali (possono essere disposte solo in caso di effettive esigenze di indagine e previa comunicazione delle ragioni giustificatrici);
  • la nomina in ogni Regione di cui un garante del contribuente, da nominare con le modalità di cui all’ art. 13, che ne stabilisce anche i compiti e le funzioni.
    Una novità assoluta è l’istituto dell’interpello, che si pone in deroga al principio della irrilevanza dei pareri espressi dalla p.a. sull’interpretazione della legge; in caso di obiettiva incertezza interpretativa di una norma tributaria, il contribuente può interpellare l’amministrazione proponendo un’ ipotesi di soluzione; la risposta dell’amministrazione ha effetto vincolante rispetto al caso specifico mentre la mancata risposta nel termine di 120 giorni assume il significato di un silenzio assenso alla proposta del contribuente.

 

 

L’iter procedurale per l’accesso ai documenti

Poiché è riconosciuto agli interessati un “diritto” all’accesso, il relativo procedimento è evidentemente ad istanza dell’interessato. Le modalità di esercizio del diritto di accesso sono disciplinate dai commi 1-4 dell’art. 25 L. 241/90 e dagli art. 3-7 d.P.R. 352/1992.

 

La richiesta

L’interessato, per esaminare o estrarre copia di documenti, deve formulare una richiesta, formale o informale, ma sempre “motivata”, sicché sarebbe legittimo negare l’accesso nel caso di istanze generiche, defatigatorie, del tutto estranee alla sfera giuridica del richiedente.

 

La competenza

La richiesta deve essere presentata all’ufficio dell’amministrazione, centrale o periferico, competente a formare l’atto conclusivo del procedimento o a detenere stabilmente il relativo documento, ma non rileva l’eventuale errore nella presentazione essendovi l’obbligo dell’ufficio ricevente di trasmettere la richiesta a quello competente, come pure il richiedente deve essere invitato a riparare all’irregolarità o incompletezza della richiesta, che non può, quindi, essere respinta senz’altro per questa ragione.

 

L’avvio del procedimento

Si discute se sia applicabile l’art. 7 della legge 241/90 che impone di dare comunicazione dell’avvio del procedimento. La soluzione negativa appare preferibile perché la legge regolamenta il particolare procedimento per l’accesso in ogni sua parte e non richiama l’art. 7; la legge, inoltre, privilegia il rapido svolgimento della procedura di accesso e tale finalità appare inconciliabile con l’obbligo di dare avviso dell’inizio del procedimento.

 

Il responsabile

Il d.P.R. 352/92 (art. 4, co. 7) provvede direttamente ad individuare il responsabile del procedimento nel dirigente, o altro dipendente da questi designato, dell’unità organizzativa competente a formare o detenere l’atto conclusivo di un procedimento, e ciò anche in caso di accesso ad atti infraprocedimentali.

 

La decisione

Entro trenta giorni dalla richiesta, la P.A. deve esprimere le sue determinazioni:

  • se accoglie la richiesta, indica le modalità e fissa il termine (non inferiore a quindici giorni) per prendere visione dei documenti o ottenerne copia (l’accoglimento si estende di regola anche agli altri documenti richiamati e appartenenti allo stesso procedimento ); il diritto all’ accesso può anche essere realizzato mediante la pubblicazione degli atti nella Gazzetta Ufficiale o secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti, comprese le forme di pubblicità attuabili mediante strumenti informatici, elettronici e telematici;
  • se rifiuta l’accesso, totalmente o parzialmente, o lo differisce, il responsabile del procedimento deve motivare il provvedimento con riferimento specifico alla normativa vigente, alle categorie di atti per i quali è stato escluso l’accesso dai regolamenti delle singole amministrazioni e alle circostanze di fatto che rendono non accoglibile la richiesta così come proposta (art. 25 co. 3 non modificato dalla legge n. 15/2005).

 

 

La motivazione

Soltanto il provvedimento in tutto o in parte negativo dell’amministrazione deve essere motivato, il che significa che la motivazione del provvedimento di accoglimento è fornita dalla domanda dell’interessato e dalla normativa concernente l’accesso; peraltro, i contenuti dell’obbligo di motivazione sono chiaramente indicativi dell’inesistenza di veri e propri poteri discrezionale in materia (eccettuato il potere di differimento).

 

Il silenzio

Trascorsi trenta giorni dalla richiesta senza che l’amministrazione si sia pronunciata, “questa si intende respinta” (ipotesi di silenzio rigetto), con la conseguenza che l’interessato può attivare il rimedio giurisdizionale del ricorso al Tar (senza bisogno di alcun atto di diffida e messa in mora dell’ amministrazione).

 

 

La tutela giurisdizionale

Ai sensi dell’art. 25 co. 5, contro le determinazioni della P.A. (di rigetto; di accoglimento nei casi di ricorso da parte dei controinteressati all’accesso; circa la pronunzia sulle spese a carico del richiedente; nei casi di inerzia alla scadenza del trentesimo giorno), l’interessato può proporre (entro trenta giorni) ricorso al GA.
Il GA -uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta o le parti personalmente- decide in camera di consiglio, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso. La legge n. 15/2005, inserendo nell’art. 25 il comma 5 bis e recependo quanto già in precedenza affermato in via generale dall’art. 4 co. 3, 1. 205/2000 (norma poi abrogata dalla legge n. 15/2005), eliminando l’obbligo della difesa tecnica, ha stabilito che in questi giudizi si può agire personalmente, senza l’assistenza del difensore; anche l’amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente, purché in possesso della qualifica di dirigente e possegga l’autorizzazione del rappresentante legale dell’ente. In caso di accoglimento totale o parziale del ricorso, il giudice amministrativo ordina l’esibizione dei documenti richiesti (art. 25 comma 6).Per l’appello, proponibile entro trenta giorni dalla notifica della decisione del TAR, al Consiglio di Stato si osservano le stesse regole (art. 25 co. 5, ultima parte).
Si ritiene che il giudizio speciale, connotato da rito camerale di urgenza, sia incompatibile con la richiesta di misure cautelari (sospensione del procedimento di accesso, del rifiuto o dell’accoglimento ).Per quanto concerne la forma della decisione, la previsione di una “decisione” adottata in camera di consiglio potrebbe legittimare anche la forma più agile dell’ordinanza, ma è certo comunque che si tratta di un procedimento speciale – al quale è estranea la natura propriamente cautelare – culminante in una pronunzia che statuisce, con effetti di giudicato sostanziale, in ordine al diritto di accesso.
Nei giudizi concernenti il diritto di accesso una posizione particolare ricoprono i c.d. controinteressati, che vengono in rilievo quando la richiesta di documenti riguarda soggetti terzi. In tal caso la PA deve effettuare un’operazione di delicato bilanciamento tra due contrapposti interessi giuridici privati: il diritto all’informazione del richiedente e il diritto alla riservatezza del terzo (es. trattamenti sanitari, attività professionali, finanziarie, industriali, commerciali). Pertanto, laddove gli atti amministrativi relativi a tali materie vengano richiesti da soggetti terzi, gli originari destinatari dei predetti atti i quali sarebbero legittimati ad impugnare il provvedimento di accoglimento della richiesta di accesso – assumono là posizione processuale di controinteressati nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 25 dal soggetto richiedente contro il diniego di accesso. Con riguardo, però, all’ accesso ad atti di procedure concorsuali, è stato confermato il principio generale secondo il quale nella materia non sono rinvenibili soggetti controinteressati, dovendosi escludere l’ esigenza di tutela della riservatezza.

 

Il diritto di accesso in pendenza di ricorso amministrativo

Può avvenire che l’interesse a conoscere determinati atti della PA sorga nel contesto di un giudizio amministrativo innanzi al GA ,ove si domanda l’annullamento di un certo atto lesivo della posizione sostanziale di base vantata dal privato. Si è posto pertanto il problema se, a seguito del rifiuto di accesso della PA, il privato possa ricorrere al GA ai sensi dell’art. 25 co. 5 e all’esito continuare il ricorso principale.
Il problema è stato successivamente affrontato e risolto dapprima con l’art. 1 della legge 205/2000 (che ha modificato l’art. 1 della legge 1034/1971) e da ultimo dalla legge n. 15/2005 (che ha inserito un nuovo periodo all’interno del comma 5 dell’art. 25) che ha stabilito che in pendenza di un ricorso, l’impugnativa di cui all’art. 25 co. 5 può essere proposta mediante istanza al Presidente del tribunale e depositata presso la segreteria della sezione cui il ricorso è assegnato, previa notifica alla PA ed ai controinteressati; la decisione viene presa in camera di consiglio attraverso un’ordinanza istruttoria.
Di conseguenza:

  • il legislatore ha ammesso il diritto di accesso in pendenza di un ricorso;
  • la norma prevede un sistema semplificato e facoltativo nel senso che, a fronte del diniego della PA che rifiuta il documento, il privato può:
    • o iniziare il procedimento ordinario di cui all’art. 25 co. 5 della legge 241.
    • o dare luogo al giudizio semplificato con istanza al presidente del tribunale: in tal caso il giudice, per decidere sulla richiesta di accesso, prescinderà, secondo la tesi prevalente, dalla sussistenza dei presupposti di cui alla legge 241 e deciderà semplicemente valutando se la documentazione richiesta è pertinente al giudizio principale (il giudice si limita cioè a verificare se il documento serve per consentire l’esercizio del diritto di difesa nel processo principale).

 

 

Tutela civilistica

Consiste nella possibilità di ottenere dal giudice civile il risarcimento del danno subito a seguito dell’illegittimo diniego del diritto di accesso. In ordine alla natura giuridica della responsabilità della P.A., nonostante una corrente minoritaria la abbia qualificata come contrattuale, partendo dall’assunto che la richiesta di accesso, instaurando una sorta di contatto sociale tra il privato e la P.A., obbligherebbe quest’ultima ad apprestare i mezzi idonei a soddisfare la richiesta (alla stregua di una prestazione di tipo contrattuale), la tesi prevalente è nel senso che trattasi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., nel senso che, pur se venisse qualificato come interesse legittimo, l’accesso costituirebbe un bene della vita la cui lesione integra il danno ingiusto di cui alla norma richiamata.Il problema che si è posto concerne la prova del pregiudizio subito dal privato a seguito dell’illegittimo diniego di accesso opposto dalla P.A. Secondo la dottrina prevalente la soluzione dipenderebbe dalla situazione sostanziale cui l’accesso è preordinato:

  • se l’accesso mira all’esercizio di un diritto soggettivo preesistente, il pregiudizio consiste nelle difficoltà incontrate nell’esercizio di quel diritto a causa del diniego dei documenti;
  • se, invece, il privato domanda l’accesso allo scopo di ottenere tutela di un interesse pretensivo (es. mira ad ottenere un’autorizzazione o concessione), occorre ulteriormente distinguere a seconda del tasso di discrezionalità riservato alla P.A.:
  • se si tratta di meri accertamenti, al privato sarà sufficiente dimostrare che esistevano i presupposti di fatto per ottenere quell’effetto favorevole che il mancato accesso ha vanificato;
  • se si tratta di attività ad alto tasso di discrezionalità, occorrerà effettuare un c.d. giudizio prognostico al fine di verificare se il bene della vita, cui la domanda di accesso era preordinata, spettava o meno al privato richiedente.

Sotto il profilo della giurisdizione sulla domanda risarcitoria, entrambe le tesi sono state sostenute: quella secondo cui il privato potrebbe adire direttamente il G.O. al fine di ottenere il risarcimento del danno (in tal caso il giudice civile potrebbe conoscere in via incidentale dell’illegittimità del diniego dell’accesso); quella del c.d. doppio binario, secondo cui il privato dovrebbe adire prima il giudice amministrativo per ottenere l’annullamento del diniego illegittimo e poi adire il G.O. onde ottenere il risarcimento del danno.

 

Tutela in sede penale

Com’è noto l’art. 328 co. 2 c.p. prevede il reato di omissione di atti di ufficio, punendo il pubblico ufficiale che entro 30 giorni dalla richiesta non compie l’atto e non risponde delle ragioni del ritardo.
Il reato si configura anche a fronte di una richiesta di accesso avanzata dal privato:

  • domandato l’accesso ad un documento da parte del privato, infatti, il pubblico ufficiale ha il dovere di rispondere entro trenta giorni o rilasciando l’atto richiesto ovvero negandolo motivatamente;
  • nell’ipotesi di mancata risposta espressa nel termine previsto, ai sensi del comma 4 dell’art. 25 della legge n. 241/90, la richiesta “si intende respinta”;
  • unitamente al meccanismo del silenzio rigetto, scatterà a carico del funzionario inadempiente anche la sanzione penale di cui all’art. 328 co. 2 c.p. Per parte della giurisprudenza il reato non sarebbe mai configurabile in materia di accesso: scattando infatti il meccanismo del silenzio rigetto, un provvedimento negativo sarebbe stato pur sempre emesso dalla P.A., onde scatterebbe la causa di giustificazione codificata dall’art. 51 c.p., costituendo un diritto della P.A. il potere di sostituire un provvedimento tacito a quello espresso.
    E’ stato tuttavia giustamente replicato che il richiamo alla scriminante di cui all’art. 51 c.p. appare fuori luogo, giacchè il meccanismo del silenzio rigetto costituisce soltanto una ‘fictio iuris’ e non manifestazione di un diritto attribuito dalla P.A. (che anzi ha pur sempre il dovere di concludere il procedimento mediante provvedimento espresso ex art. 2 co. 2 l. n. 241/90). La giurisprudenza prevalente, inoltre, non ha ritenuto di condividere nemmeno l’impostazione dottrinale secondo cui la consumazione del reato presupporrebbe che, a seguito della formazione del silenzio rigetto per effetto del decorso dei trenta giorni dall’istanza, l’interessato invii un ulteriore atto di diffida.
    La tesi, che sarebbe plausibile ove il termine per la conclusione del procedimento sia superiore a quello penale di trenta giorni, non appare esatta nel caso in cui il termine procedimentale e quello penale coincidano: in tal caso un atto sollecitatorio, volto a stigmatizzare un silenzio già intrinsecamente illecito, sarebbe sicuramente inutile.

 

 

Natura giuridica del diritto di accesso

La tesi dominante è orientata nel senso che la pretesa all’accesso, conformemente alla qualificazione normativa, abbia la consistenza di un diritto soggettivo perfetto, affidato, pertanto, alla giurisdizione esclusiva del G.A., chiamato a dirimere una controversia avente ad oggetto diritti in conflitto e non l’esercizio di un potere dell’amministrazione.
La qualificazione dell’accesso come diritto soggettivo comporta le seguenti conseguenza:a) il decorso del termine per proporre il ricorso contro il diniego dell’accesso non impedisce all’interessato di far valere il diritto di accesso nell’ordinario termine di prescrizione;b) nel corso del giudizio dinanzi al GA deve ammettersi la possibilità della PA di addurre nuove ragioni che giustificano il diniego dell’accesso;c) la mancata notificazione del ricorso ad almeno uno dei controinteressati non rende inammissibile in ricorso stesso, ma obbliga il giudice ad integrare il contraddittorio per assicurare la partecipazione dei litisconsorti a norma dell’art. 102 c.p.c. Senonchè l’Ad. Plenaria del Consiglio di Stato (decisione n. 16/99) ha sostenuto la tesi dell’interesse legittimo, sulla base delle seguenti argomentazioni:

  • l’uso del termine ‘diritto’ per qualificare l’accesso non è significativo, poichè sia nella Costituzione sia nelle leggi ordinarie si parla spesso di “diritti” per designare genericamente situazioni di vantaggio (es. diritto al lavoro, diritto di partecipare al procedimento, ecc.);
  • alla PA è affidato il compito di risolvere i concreti conflitti di interesse, mediante l’esercizio del potere di limitare o differire l’accesso che quindi assume la consistenza di interesse legittimo proprio perché sottoposto al potere della PA; contro le sue determinazioni è accordato il rimedio giurisdizionale entro un termine di decadenza, secondo il modulo tipico del giudizio di impugnazione di atti di esercizio del potere.

Le conseguenze processuali sono naturalmente di segno opposto rispetto a quelle scaturenti dalla configurazione della controversia come vertente sopra un diritto soggettivo: il termine di decadenza per ricorrere è perentorio, divenendo inoppugnabile dopo la sua scadenza il provvedimento negativo (anche implicito) dell’ amministrazione; il problema dei motivi aggiunti va risolto negativamente; la mancata notificazione del ricorso ad almeno uno dei controinteressati ne determina l’’inammissibilità.Tale ultima tesi non è andata esente da critiche almeno sotto due profili:

  • in primo luogo qualche perplessità riguarda il tentativo di desumere la consistenza della posizione soggettiva del privato dal carattere impugnatorio del giudizio sulla base di un’equazione (modello impugnatorio=interesse legittimo) che subisce numerose deroghe e temperamenti;
  • in secondo luogo nella prospettiva dell’interesse legittimo, peraltro, si avrebbe un giudizio impugnatorio del tutto atipico, in quanto caratterizzato dal potere del giudice di assicurare direttamente la soddisfazione dell’interesse materiale del ricorrente (mediante 1’ordine di esibizione di determinati documenti, in totale o parziale accoglimento del ricorso).

La giurisprudenza successiva si è in parte discostata da tale pronunzia: cfr. ad es. C.d.S. n. 4092/2000 ove si afferma che l’accesso ai documenti si configura come un diritto soggettivo perfetto la cui cognizione è devoluta alla giur. esclusiva del G.A. secondo le regole di accertamento proprie dei diritti soggettivi.

 

Le autorità di tutela e presidio del diritto di accesso

La Commissione per l’accesso

L’art. 27 della 241 (norma novellata dalla legge n. 15/2005) ha istituito la “Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi”, cui sono state attribuite le funzioni di:

  • vigilare sulla piena attuazione del principio di piena conoscibilità degli atti amministrativi;
  • redigere una relazione annuale sulla trasparenza nell’attività della PA;
  • proporre al Governo modifiche delle leggi e dei regolamenti onde realizzare la più piena tutela del diritto di accesso.
    Per quanto concerne la natura giuridica, il compito della Commissione non è tanto di perseguire interessi pubblici amministrativi, quanto di tutelare imparzialmente l’interesse dei cittadini da una posizione di indipendenza dal Governo e quindi dal relativo indirizzo politico, nell’ esercizio di una funzione per più versi assimilabile, dal punto di vista sostanziale, a quella giurisdizionale. La dottrina più recente ritiene quindi che trattasi di un’Autorità amministrativa indipendente.

 

 

Il Difensore civico

La figura è di origine scandinava (ombudsman) e non è previsto dalla Costituzione; sconosciuto al nostro ordinamento fino all’istituzione delle regioni, avendo poi queste provveduto alla sua istituzione e concreta disciplina, basandosi o su specifiche disposizioni statutarie oppure richiamando l’art. 117 della Costituzione. Per i comuni e le province, invece, l’art. 8 della 1. 142/90 (sulle autonomie locali), ha consentito che gli statuti provinciali e comunali potessero prevederlo per svolgere il «ruolo di garante dell’imparzialità e del buon andamento» dell’amministrazione, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze ed i ritardi dell’ amministrazione nei confronti dei cittadini.
Ora l’istituto è specificamente previsto dall’art. 11 t.u.e.l., con l’indicazione dei compiti e demandando agli statuti di disciplinare modalità di nomina e attribuzioni.L’istituto è stato potenziato con l’art. 16 della l. 127/1997, che ha affidato ai difensori civici delle regioni e province autonome, a tutela dei cittadini residenti nei comuni delle stesse regioni e province e fino all’istituzione del difensore civico nazionale, il compito di esercitare le funzioni di richiesta, proposta, sollecitazione e informazione anche nei confronti delle amministrazioni periferiche dello Stato. È
fatta eccezione per le amministrazioni competenti in materia di difesa, di sicurezza pubblica e di giustizia. L’intervento del difensore civico può essere di ufficio o ad istanza di parte; può avvalersi della collaborazione dell’amministrazione interessata al suo intervento; deve essergli garantito un agevole accesso alla documentazione connessa all’ oggetto del suo intervento. Il nuovo comma 4 dell’art. 25 della legge 241/90 (come modificato dalla legge n. 15/2005), proseguendo sulla scia dell’art. 15 della legge 340/2000, ha previsto uno specifico compito del difensore civico nella tematica nell’accesso ai documenti. In particolare l’interessato, a fronte del diniego di accesso della PA, ha la possibilità, entro il termine di trenta giorni, di chiedere al difensore civico competente il riesame della determinazione della PA; se il difensore civico reputa illegittimo il diniego lo comunica alla PA procedente.
A questo punto la PA ha il dovere di rispondere entro il termine di trenta giorni; entro questo termine la PA:

  • conferma motivatamente il precedente diniego e la partita si chiude qui;
  • oppure non conferma e concede espressamente l’accesso;
  • oppure non risponde ed allora dopo 30 giorni l’accesso si intende consentito (c.d. silenzio assenso legittimante).

Le conseguenze sono le seguenti:

  • il ricorso al difensore è alternativo al ricorso giurisdizionale per il quale l’interessato può comunque in ogni momento optare;
  • il difensore civico è privo di poteri decisori definitivi, ma stimola solo la PA a rivedere il proprio operato;
  • il ricorso al difensore è possibile solo da parte dell’interessato all’accesso e non da parte dei controinteressati.

 

 

Rapporti tra diritto di accesso e tutela della riservatezza

Il tema di accesso si è prospettato il possibile conflitto di interessi tra la tutela accordata dall’ordinamento al relativo diritto e quella riconosciuta al diritto alla riservatezza, allorché la richiesta di accesso riguardi documenti contenenti notizie su soggetti estranei alla P.A. (individui o imprese) e vengano in rilievo notizie intime di terzi che, pur se conosciute dalla P.A., non dovrebbero essere accessibili ai terzi.
Partendo dall’esame della soluzione scelta dall’art. 24 della legge 241/90, la prevalenza del diritto di accesso era ancorata a due condizioni:

  1. l’accesso deve mirare alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti;
  2. il diritto di accesso deve inoltre limitarsi alla sola possibilità di prendere visione degli atti (restando escluso il rilascio di copia).

L’art. 8 del d.p.r. 352/92 ribadiva tale impostazione, aggiungendo che, fuori dai suddetti limiti, doveva prevalere il diritto alla riservatezza.Il sopravvento della legge n. 675/1996, in tema di trattamento dei dati personali, innescò una serie di problemi:

  • l’art. 43 dispose che “restano ferme le norme vigenti in tema di accesso ai documenti”;
  • l’art. 22 sottopose il trattamento (e quindi la divulgazione) dei c.d. dati sensibili a speciali limitazioni, disponendo che il trattamento dei dati sensibili da parte degli enti pubblici è consentito solo nei casi stabiliti dalla legge che deve evidenziare le finalità di pubblico interesse”, le operazioni eseguibili nonché i dati trattabili;
  • infine l’art. 27 in base al quale la comunicazione e diffusione da soggetti pubblici a privati dei dati personali (non sensibili) è consentita nei casi previsti dalla legge o da regolamento.

La soluzione interpretativa proposta dal Consiglio di Stato con la decisione n. 59/99 prese il nome di doppio binario:

  • quanto ai dati comuni (ossia non sensibili), l’accesso deve ritenersi consentito solo per la tutela di interessi rilevanti ed è limitato alla presa visione del documento (cfr. art. 27 che rinvia ai casi previsti dalla legge, ossia all’art. 24 della legge 241/90);
  • quanto ai dati c.d. sensibili, l’art. 22 consente l’accesso solo se lo preveda una specifica disposizione di legge che evidenzi le finalità di pubblico interesse, le operazioni eseguibili ed i dati trattabili.

Il decreto legislativo n. 135/99 è tuttavia intervenuto a modificare l’impostazione della legge n. 675/99 circa il trattamento e l’accesso dei dati sensibili. In base al nuovo art. 22 co. 3 e 3 bis. della legge 675 (come modificati dal d. lgs. n. 135/99) il trattamento dei dati sensibili da parte della P.A. può avvenire nei seguenti casi ed attraverso le seguenti modalità:

  1. in caso di espressa previsione di legge che specifichi i dati trattabili, le operazioni eseguibili e le finalità di pubblico interesse ritenute prevalenti;
  2. in mancanza di legge e nelle more della sua adozione, la PA può domandare al Garante di individuare quali fra le attività debbono considerarsi di rilevante interesse pubblico e come tali consentire il trattamento dei dati sensibili;
  3. quando una legge determini le finalità di rilevante interesse pubblico ma non specifica il tipo di operazioni eseguibili o i dati trattabili, sarà la singola PA interessata al trattamento a compiere l’operazione integrativa, per poi passare a compiere il trattamento dei dati.

Ciò posto va rilevato, con specifico riferimento al diritto di accesso, che l’art. 16 del decreto in commento qualifica l’accesso quale attività di rilevante interesse pubblico, con la conseguenza che viene a cadere il primo limite al trattamento mediante “ostensione” dei dati sensibili essendovi una legge (appunto l’art. 16 cit.) che esprime le finalità di pubblico interesse sottese al diritto di accesso. Tale sistema appare confermato dal d. lgs. n. 196/2003 ( codice della privacy) il cui art. 59 dispone che il diritto di accesso ai documenti contenenti dati personali o sensibili e le operazioni di trattamento eseguibili in conseguenza di una domanda di accesso restano disciplinati dalla legge n. 241/90 e dalle altre disposizioni in materia, riconfermando, inoltre, che le attività in oggetto (accesso e trattamento) si considerano di rilevante interesse pubblico. Ulteriore problema si è posto, infine, per i dati c.d. supersensibili, ossia idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale dell’individuo. L’art. 16 co. 2 del d. lgs. n. 135/99 ha stabilito che in tal caso il trattamento è consentito solo se il diritto contrapposto:

  • dev’essere difeso in un giudizio civile o amministrativo (se, cioè, il trattamento è funzionale alla difesa di un diritto in un giudizio);
  • è di rango almeno pari a quello (alla riservatezza) dell’interessato, in un’ottica di bilanciamento di interessi.

Tale impostazione è stata confermata e precisata dall’art. 60 del codice della privacy (196/2003) che:

  • estende la previsione (oltre che al trattamento) anche al diritto di accesso;
  • precisa che il diritto del controinteressato dev’essere o di pari rango, o consistere in un diritto della personalità ovvero in un altro diritto o libertà fondamentale ed inviolabile.

La legge n. 15/2005 costituisce il punto di arrivo del lungo percorso evolutivo sopra esaminato. L’art. 16, nel sostituire l’art. 24 della legge 241/90, dopo aver statuito che deve essere comunque garantito il diritto di accesso ai documenti la cui conoscenza è necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici, ha espressamente disposto che:

  • nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito “nei limiti in cui sia strettamente indispensabile;
  • nel caso di dati c.d. supersensibili l’accesso è consentito nei limiti previsti dall’art. 6° del nuovo codice della privacy, sopra esaminato.

 

 

Evoluzione successiva alla Legge 15/05

L’entrata in vigore del d.P.R. n. 184 del 12 aprile 2006, che ha abrogato – tranne la temporanea sopravvivenza dell’art. 8 – il vecchio d.P.R. n. 352 del 1992, recante la disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi, nonché la pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 20 aprile 2006, costituiscono due importanti fatti. Essi inducono a qualche riflessione in ordine al nuovo sistema di tutela che si viene a delineare a fronte della decisione, espressa o silenziosa, da parte dell’amministrazione sull’istanza di accesso.
Ai nostri fini il primo fatto è importante, poiché la sua entrata in vigore consente che la Commissione per l’accesso inizi in concreto a funzionare, e in particolare cominci a decidere in ordine ai ricorsi amministrativi presentati dagli interessati che si sono visto negare l’accesso a documenti amministrativi. L’importanza del secondo fatto consiste in ciò, che la decisione affronta il problema della natura giuridica dell’accesso, e in particolare il tema della riproponibilità dell’istanza di accesso dopo il termine decadenziale e il valore da assegnare alla eventuale decisione tardiva dell’amministrazione, sollecitata nuovamente dall’interessato.Ma è bene procedere con ordine.

 

 

Gli esiti dell’istanza di accesso ai documenti amministrativi: accoglimento, diniego, accoglimento limitato, differimento

Il regolamento generale in materia di accesso (d.P.R. n. 184 del 2006) disciplina in maniera sostanzialmente identica al vecchio d.P.R. n.352 del 1992 i possibili esiti del procedimento di accesso (art. 7, 8 e 9).
Rinviando alle norme la disciplina di dettaglio, è utile ricordare che l’indicata disciplina si riferisce alle ipotesi di provvedimento amministrativo espresso, e non all’ipotesi di diniego tacito, la cui disciplina si rinviene nell’art. 25 della legge n. 241 del 1990, così come modificato dalla legge n. 15 del 2005, nonché nell’art. 12 del d.P.R. n. 184 del 2006. La risposta dell’amministrazione può essere, secondo lo schema del nuovo d.P.R. n. 184 del 2006, che è lo stesso dell’abrogato d.P.R. n. 352 del 1992, di accoglimento della richiesta (art. 7) oppure di non accoglimento della richiesta (art. 9). Il non accoglimento, sempre secondo la norma da ultimo indicata, si può concretizzare in un provvedimento espresso di “rifiuto”, ovvero di accoglimento parziale (ossia “limitato” ad alcuni documenti soltanto), ovvero di “differimento”, ove la conoscenza, al momento della richiesta, dei documenti possa impedire o ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa.
Lo stesso art. 9 stabilisce che in tutte le ipotesi di non accoglimento (integrale) della richiesta, e se vi è stato procedimento di accesso formale, il provvedimento va motivato da parte del responsabile del procedimento.
La stessa norma mostra di sapere in anticipo che i casi più frequenti di non accoglimento, almeno nelle prime due ipotesi indicate, saranno quelli in cui il documento di cui è stata chiesta l’ostensione rientri in una delle categorie di atti esclusi dall’art. 24 della legge n. 241 del 1990.

E’ utile ricordare che l’elenco delle ipotesi in presenza delle quali i documenti amministrativi possono essere sottratti all’accesso è aumentato, per effetto del nuovo art. 24, comma 6, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005, laddove viene aggiunta la lettera e), ossia che limiti all’ostensione debbono essere posti “alle attività connesse alla contrattazione collettiva nazionale in corso di svolgimento e agli atti interni connessi all’espletamento del relativo mandato”. Parimenti utile può essere ricordare che il d.P.R. n.184 del 2006 non individua esso stesso i casi di esclusione dall’accesso, così come era accaduto con l’abrogato d.P.R. n. 352, limitandosi l’art. 10 a rimandare tale compito ad un diverso regolamento, da emanarsi ai sensi dell’art. 24, comma 6, della legge, nonché ai regolamenti delle singole amministrazioni, così come dispone l’art. 24, comma 2.
La mancata emanazione del regolamento suddetto ha comportato la necessità di far sopravvivere dall’abrogazione dell’intero d.P.R. n. 352 del 1992 l’art. 8 di quest’ultimo, onde evitare che nelle more la materia dell’esclusione rimanesse sprovvista di disciplina (art. 15). In realtà si sarebbe potuto procedere già con l’ora vigente regolamento alla disciplina dei casi di esclusione, poiché l’art. 23 della legge n. 15 del 2005, comma 2, contempla un regolamento “inteso a integrare o modificare” il regolamento n. 352 del 1992, in cui era ricompresa anche la disciplina in parola (art. 8). Tuttavia ciò non è avvenuto, e quindi si è stati costretti ad immaginare che il comma 6 del nuovo art. 24 della legge n. 15 del 2005 individui in un altro regolamento lo strumento di disciplina; disciplina che comunque, in virtù della sopravvivenza (come già riferito) dell’art. 8 del d.P.R. n. 352 del 1992, può rimanere immutata, nonostante l’elenco delle materie in cui si possono prevedere limiti all’accesso sia aumentato, come già visto. Si sorvola sulle tante critiche che il nuovo art. 24 della legge n. 241 ha suscitato, soprattutto laddove sembra rimettere alla discrezionalità delle amministrazioni individuare con propri regolamenti la segretezza di un documento o la possibilità di divulgarne i contenuti.

Ritornando all’ipotesi del non accoglimento della richiesta, l’art. 9 stabilisce che il provvedimento negativo espresso si può fondare anche sulle “circostanze di fatto per cui la richiesta non può essere accolta così come proposta”. In questo rientra anzitutto l’ipotesi in cui dalla richiesta non risulti l’“interesse diretto concreto e attuale” del richiedente. Ma tante altre possono essere le ipotesi di diniego come l’inesistenza del documento richiesto, o la richiesta di un documento non formato ma che l’amministrazione dovrebbe appositamente confezionare, oppure la mancanza di procura in capo al richiedente che non sia il diretto interessato e così via.
IV. Quanto alla decisione di differimento dell’accesso è sufficiente ricordare che il nuovo art. 24, comma 4, della legge n. 241 del 1990 ha conferito dignità di norma primaria a quanto statuito dall’ancora vigente art. 8, comma 3, del d.P.R. n. 352 del 1992, ossia che “in ogni caso i documenti non possono essere sottratti all’accesso ove sia sufficiente far ricorso al potere di differimento”.Per effetto di tale norma l’amministrazione, prima di disporre l’esclusione definitiva dall’accesso, deve verificare la possibilità del differimento, e al tempo stesso deve disporlo ogni qual volta esso sia in grado di soddisfare comunque l’esigenza del richiedente senza compromettere esigenze di riservatezza, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti.Con l’emanazione del nuovo d.P.R. n. 184 del 2006 è stato eliminato il pericolo, da più parti lamentato, di possibili abusi da parte dell’amministrazione, laddove è stato previsto che il differimento sia temporaneo e che nell’atto sia indicata anche la durata di esso (art. 9, commi 2 e 3, e 10, comma 2, del nuovo regolamento).

 

Il diniego tacito: nozione e natura

è utile premettere che l’art. 25, comma 4, della legge n. 241 del 1990, che, unitamente all’art. 12 del d.P.R. n. 184 del 2006, costituisce la base normativa di questo possibile esito del procedimento di accesso, ossia che l’amministrazione rimanga inerte, stabiliva, con la modifica apportata dalla legge n. 340 del 2000, che, trascorsi inutilmente trenta giorni dall’istanza di accesso, l’istanza si riteneva respinta, riconoscendo all’interessato la possibilità di adire l’autorità giurisdizionale. Ora la legge n. 15 del 2005 ha sostituito l’art. 25, commi 4, 5 e 6, della legge n. 241 del 1990, sulla tutela giurisdizionale, chiarendo ancora meglio che “decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta questa si intende respinta” e inoltre che “in caso di diniego dell’accesso, espresso o tacito, o di differimento (…) il richiedente può presentare ricorso”. Parimenti l’art. 12 del d.P.R. n. 184 del 2006 fa riferimento al “diniego espresso o tacito” e “alla formazione del silenzio-rigetto sulla richiesta di accesso”, laddove disciplina il ricorso alla Commissione per l’accesso da parte dell’interessato o del controinteressato.
Sicché nessun dubbio sul fatto che ci si trovi di fronte ad un caso di silenzio-diniego, cosa che poteva rimanere dubbia dato che sin dall’originaria formulazione dell’art. 25, comma 4, ossia quella precedente la modifica apportata con la legge n. 340 del 2000, laddove stabiliva che “trascorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende rifiutata”, si poteva dare adito all’interpretazione – soprattutto da parte di chi tendeva ad affermare che la natura dell’accesso fosse di diritto e non di interesse – che si trattasse di un semplice silenzio-rifiuto.
E’ utile a questo punto precisare che, nonostante nell’art. 12 del regolamento richiamato compaia anche la locuzione “silenzio-rigetto”, si preferisce qualificare l’ipotesi in esame “silenzio-diniego”, dovendosi riservare – soprattutto a seguito dell’ulteriore sconvolgimento in materia di silenzio ad opera dell’art. 3, comma 6 bis, del d.l. n. 35 del 2005 (convertito nella legge n. 80 del 2005), che, riformulando l’art. 2 della legge n. 241 del 1990, ha stabilito che nei giudizi contro il silenzio-rifiuto il giudice “può conoscere della fondatezza dell’istanza” – la prima espressione al silenzio su ricorso amministrativo, dove vi è comunque un atto originario dell’amministrazione, mentre la seconda all’ipotesi in cui, pur non essendovi un atto originario dell’amministrazione (al pari del silenzio-inadempimento), la legge attribuisce comunque un significato all’inerzia dell’amministrazione, come nel silenzio-assenso o, appunto, nel silenzio-diniego. Orbene, al di la delle pur utili precisazioni terminologiche, è importante rilevare che l’aver attribuito un significato all’inerzia serbata dall’amministrazione, si inserisce in una tendenza oramai inarrestabile del legislatore tesa ad allargare al massimo l’“area della significanza”dei comportamenti dell’amministrazione, soprattutto a seguito della nuova disciplina sul silenzio-assenso di cui all’art. 20 della legge n. 241 del 1990 ad opera della richiamata legge n. 80 del 2005, per effetto della quale lo spazio, in cui si delinea quello che, per comodità d’espressione, chiamiamo silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento (ma che meglio sarebbe chiamarlo silenzio “insignificante”), è in pratica sempre più ridotto.

Ma veniamo al nostro istituto specifico, in cui confluiscono tutti i temi generali che ruotano intorno al silenzio e al sistema delle tutele, giurisdizionale e giudiziale.
In via generale, il fatto che la legge attribuisca il significato di diniego tacito all’inerzia dell’amministrazione e il fatto che espressamente il legislatore stabilisca che, una volta trascorsi trenta giorni perché esso si configuri, il richiedente può presentare ricorso al T.A.R. “ovvero” al difensore civico o alla Commissione per l’accesso, risolva molti dei problemi che si configurano intorno ai “vari silenzi” che la nuova normativa ha generato, soprattutto in riferimento alle forme di tutela possibili.
Anche se bisogna riconoscere che già da molti anni, soprattutto a seguito delle note sentenze nn. 16 e 17 del 1989 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, vi era stato un sostanziale avvicinamento del regime proprio del silenzio-rigetto con il silenzio-rifiuto.
Tutti ricordano come in queste due pronunce il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa, ripudiata la tesi della precedente sentenza dell’Ad. Plen. n. 4 del 1978, che configurava il decorso del termine come provvedimento legalmente tipizzato, stabiliscono che la formazione del silenzio-rigetto non consuma il potere della p.a. di decidere il ricorso gerarchico (per cui le decisioni tardive non sono di per sé illegittime), ma consente al ricorrente di scegliere fra l’immediato ricorso giurisdizionale avverso l’atto originariamente impugnato in sede gerarchica oppure attendere o sollecitare la decisione tardiva. In tale ultima ipotesi, alla scadenza del termine di novanta giorni, il ricorrente può azionare il meccanismo proprio del silenzio-rifiuto contro il quale poi ricorrere in sede giurisdizionale, avvalendosi del rito abbreviato di cui all’art. 2 della legge n. 205 del 2000. Tale strada può essere conveniente seguire quando il ricorso è stato proposto per vizi di merito, dato che in questo caso le censure non sarebbero riproponibili nel ricorso giurisdizionale contro il provvedimento amministrativo originario.
Tale meccanismo non sembra si possa utilizzare a proposito del silenzio-diniego in materia di accesso, qualora il richiedente abbia interesse ad un provvedimento espresso motivato o comunque abbia interesse ad avvalersi dello speciale rito introdotto dall’art. 2 della legge n. 205 del 2000 (art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971), atteso che tale strumento non sembra azionabile se non a proposito del silenzio-rifiuto in senso tecnico. A ciò vi osta l’opinione che esso è ammissibile solo qualora non vi siano rimedi specifici, come nel caso di specie, dove vi può essere la condanna dell’amministrazione ad un facere specifico.
Tuttavia non si vede perché in materia di accesso si debba lasciare privo di tutela il caso di chi si voglia vedere esternate le ragioni del diniego, atteso che il sistema vuole tutelare l’interesse alla motivazione espressa.

Ma veniamo al punto che più interessa, ossia come va considerata la situazione di chi a fronte di una richiesta di accesso si veda frapposto un diniego tacito. Tanto più che il meccanismo reso possibile dalle pronunce di cui sopra è facile prevedere che sarà poco praticato.
Per la dottrina prevalente il silenzio-tacito, al pari degli altri tipi di silenzio e al pari del diniego esplicito, si atteggia a mero fatto di legittimazione processuale, posto che il giudizio o il procedimento giustiziale non è diretto tanto alla verifica della legittimità del provvedimento quanto piuttosto alla valutazione della fondatezza dell’istanza. Naturalmente, come vedremo, l’esercizio delle tutele possibili va esercitato nel termine decadenziale, anche qualora sia da qualificarsi “diritto” la possibilità di accesso ai documenti amministrativi.
Tuttavia, come si vedrà, la possibilità per l’amministrazione di esprimersi legittimamente attraverso una decisione silenziosa, pur non consentendo al ricorrente di impugnare il silenzio in quanto tale, gli permette di portare il giudice alla valutazione della pretesa, a prescindere dalla motivazione fornita, anche in presenza di un diniego espresso. Sicché, tutto sommato, le due forme di determinazione dell’amministrazione finiscono con equivalersi ai fini della tutela.
Peraltro, come già ricordato, la legge n. 80 del 2005, nel riformulare l’art. 2 della legge n. 241, introduce, al comma 5 di tale disposizione, la previsione secondo la quale il giudice amministrativo, nei giudizi contro il silenzio-rifiuto, “può conoscere della fondatezza dell’istanza”, superando così quell’indirizzo giurisprudenziale affermato dal Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 1 del 2002, che circoscriveva l’oggetto del giudizio sul silenzio negli angusti limiti della verifica della scadenza del termine a provvedere e nella dichiarazione dell’obbligo a provvedere. Anche se bisogna precisare che tale decisione è stata resa a proposito del rito speciale di cui all’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971, introdotto dall’art. 2 della legge n. 205 del 2000, che rimane lo strumento a disposizione del privato quando abbia comunque interesse ad una pronuncia espressa dell’amministrazione.
Sicché la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può continuare ad avere una sua valenza specifica, proprio in quanto riferita al solo istituto suddetto. Mentre va da sé che – anche se sul punto si registrano vari orientamenti – quando si vuole ottenere, a seguito dell’inerzia protrattasi oltre il termine procedimentale, un giudizio sulla fondatezza della pretesa, è necessario instaurare il giudizio ordinario di legittimità. Tuttavia occorre precisare che il rito speciale in materia di accesso ha una valenza universale, nel senso che esso va azionato sia per far valere la pretesa all’esibizione dell’atto con la conseguente condanna, sia per la tutela del controinteressato.
L’unico tipo di giudizio che rimarrebbe fuori è quello visto di sopra, teso ad ottenere una pronuncia espressa mediante il rito di cui all’art. 21 bis, della legge n. 1034 del 1971, e sulla cui utilizzabilità tuttavia permangono forti ragioni a favore. Così come fuori sembra rimanere il giudizio risarcitorio, sul quale non ci si può ora soffermare.

 

La sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 2006

La sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 2006 affronta e risolve i due problemi ricordati nel paragrafo iniziale, ossia la riproponibilità dell’istanza di accesso dopo il termine decadenziale per l’impugnativa del diniego, espresso o tacito, e la natura dell’eventuale provvedimento tardivo, che poi costituiscono i due temi più dibattuti in materia. Anche in considerazione del fatto che la soluzione proposta dalla dottrina e dalla giurisprudenza erano diverse a seconda della opzione (spesso aprioristica) sulla natura giuridica dell’accesso.
Il caso affrontato nella decisione è quello, oramai consueto, in cui l’interessato, proposta l’istanza di accesso, lo si vede negato una prima volta e, dopo aver fatto decorrere il termine previsto, propone una nuova istanza, che l’amministrazione respinge di nuovo con un atto che viene invece impugnato. L’Alto Consesso è chiamato a dare soluzione a due questioni: 1) se il diritto di accesso sia destinato ad assumere consistenza di diritto soggettivo a seguito della novella legislativa introdotta dalla richiamate leggi nn. 15 e 80 del 2005, considerato che la stessa Adunanza Plenaria con la decisione 24 giugno 1999 n. 16 aveva qualificato l’accesso come interesse legittimo; 2) se la consistenza di diritto soggettivo non esclude la natura decadenziale del termine per l’impugnazione del diniego (esplicito o tacito) di accesso, con la conseguenza che dalla mancata impugnazione del diniego discende l’inammissibilità dell’impugnazione del diniego successivo, avente carattere meramente confermativo di quello precedentemente opposto.
In tale decisione il Supremo giudice amministrativo, dopo aver ricordato l’oscillazione giurisprudenziale, rimasta tale anche dopo la sentenza n. 16 del 1999 in cui la stessa Adunanza Plenaria qualifica di interesse la situazione soggettiva in esame, stabilisce che non è necessario ai fini del decidere prendere posizione sulla questione, atteso che la situazione soggettiva (diritto o interesse) di colui che richiede un documento è di natura strumentale, ossia “trattasi, a ben vedere, di situazioni soggettive che, più che fornire utilità finali (caratteristica da riconoscere, oramai, non solo ai diritti soggettivi ma anche agli interessi legittimi), risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi)”. Pertanto nel caso di specie si è ritenuto che comunque il termine entro cui impugnare il silenzio serbato sull’accesso da parte della p.a. – silenzio da qualificarsi in termini di diniego – ha carattere decadenziale e l’eventuale riproposizione dell’istanza non solo non riapre il termine, ma conferisce carattere meramente confermativo alla eventuale risposta dell’amministrazione.La soluzione data dall’importante sentenza va condivisa.
Essa va condivisa soprattutto per il fatto che – nonostante l’inclusione del diritto di accesso nei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e politici ai sensi dell’art. 117 della Costituzione (art. 22, comma 2, della legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge n. 15 del 2005); nonostante la riconduzione del giudizio in tema di accesso alla giurisdizione del giudice amministrativo (art. 25, comma 5, della legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge n. 80 del 2005) e nonostante il comma 6 del medesimo art. 25, così come riformulato dalla medesima legge n. 80, stabilisca che il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, può ordinare l’esibizione dei documenti richiesti – , nonostante tutto questo, il Consiglio di Stato non si precipita ad affermare la natura di diritto soggettivo, come larga parte della dottrina ha da sempre frettolosamente ritenuto. Prudentemente la sentenza stabilisce che “non sembra peraltro, che nella specie rivesta utilità ai fini dell’identificazione della disciplina applicabile al giudizio avverso le determinazioni concernenti l’accesso, procedere all’esatta qualificazione della natura della posizione giuridica soggettiva coinvolta”.
Infatti, a parte che la semplice presenza di un procedimento in cui l’amministrazione eserciti un potere discrezionale fa sorgere la situazione di interesse legittimo, che può tranquillamente convivere con l’originario diritto all’informazione – come un’altra importante sentenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938), dove pure si dava una soluzione diametralmente opposta ai due problemi affrontati dalle sentenze in esame, qualifica la situazione base del richiedente –, nel caso in esame ci si trova di fronte ad un particolare tipo di “diritto”, che ha più i connotati dell’interesse legittimo, almeno così come veniva concepito negli anni passati.

Come già osservato altrove, la tendenza del nostro ordinamento, soprattutto a proposito della tutela civile ed amministrativa dei diritti fondamentali della personalità (e comunque dei diritti “civili e sociali”), è quella si seguire non la via tradizionale, dell’individuazione ed attribuzione in capo ad un soggetto di diritti cui poi segue la tutela in caso di loro violazione, quanto piuttosto quella di individuare i procedimenti attraverso i quali si realizza in concreto la tutela. Essa si realizza mediante una tecnica di bilanciamento di interessi, le cui linee normative sono costituite dalla posizione di doveri di comportamento (ad es. in capo al titolare pubblico del trattamento di dati personali) e la previsione di diritti-rimedi, la cui azionabilità è condizionata alla violazione della legge, ossia “all’inosservanza dei doveri primari di comportamento e non alla (mera) incidenza nel dominio ‘riservato’ al titolare del diritto (all’autonomia informativa)” (Di Majo).
Sicché la sentenza, laddove ravvisa nei poteri di natura procedimentale l’essenza del “diritto” di accesso, che sono “strumentali” alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante, ha finito per collocare l’istituto in esame proprio nella categoria dei cd. diritti-rimedi, dove è appunto centrale l’azionabilità del rimedio, che non presuppone nessun rapporto procedimentale pregresso, ma che si può attivare nei confronti del depositario dell’atto ogni qual volta sorga l’interesse al documento e senza che rilevi la situazione soggettiva di base (se non quella propria dell’interesse al documento) in funzione della quale il documento può essere utilizzato. Tali connotati somigliano di più a quelli propri dell’interesse legittimo (da sempre caratterizzato da poteri e facoltà procedimentali finalizzati alla conservazione o al conseguimento di un bene della vita) che a quelli del diritto soggettivo, che, almeno nei diritti assoluti, ha come oggetto direttamente il bene della vita. Anche se, come avverte la stessa sentenza in esame, l’interesse legittimo ha assunto via via connotati sempre più sostanziali, soprattutto ora che ha ad oggetto il provvedimento favorevole (visto esso stesso come un bene della vita), avvicinandosi così sempre di più al diritto soggettivo.

Va da sé che, così ricostruita, la situazione soggettiva dell’interessato alla visione del documento ben tollera l’apposizione di un termine decadenziale al suo esercizio, cui consegue l’inammissibilità degli strumenti “rimediali” previsti dall’ordinamento, anche in presenza di una nuova pronuncia dell’amministrazione, qualora esso non venga rispettato.
Occorre ora vedere come questo si concili con la qualifica di “silenzio-diniego”, data anche dalla sentenza in esame, al caso in cui l’amministrazione rimanga inerte per il periodo previsto dalla legge, con l’avvertenza che nel caso oggetto del giudizio vi era stata una seconda pronuncia espressa da parte dell’amministrazione.
Infatti, ad una prima lettura, sembra che si sia fatto un passo indietro rispetto a quanto l’Adunanza Plenaria aveva affermato con le sentenze nn. 16 e 17 del 1989, che, come già riferito, avevano ripudiato quanto statuito dall’Adunanza Plenaria n. 4 del 1978, laddove in quest’ultima si affermava che qualora l’autorità gerarchica emanasse oltre i novanta giorni una decisione esplicita di rigetto, questa fosse meramente confermativa di quella tacita e, quindi, se il ricorrente non avesse esperito il rimedio giurisdizionale entro i sessanta giorni decorrenti dall’ultimo giorno di scadenza dello “spatium deliberandi”, il termine non gli si riapriva e il ricorso diventava inammissibile. In quella lontana sentenza veniva affrontato anche il caso del provvedimento sopravvenuto di accoglimento, che veniva considerato come revoca di quella tacita di rigetto, con conseguenze diverse a seconda che vi fossero o meno dei controinteressati.
Nel silenzio su ricorso gerarchico normalmente vi è già un atto della p.a. e quindi il rimedio giustiziale si atteggia a procedimento di secondo grado. Invece nel silenzio che si forma su istanza normalmente non vi è nessuna determinazione pregressa dell’amministrazione, che, pertanto, può scegliere di concludere l’unico procedimento con una pronuncia espressa o con una pronuncia tacita. Sicché quest’ultima è solamente un modo di manifestare la propria volontà negativa. La differenza rispetto, invece, al cd. silenzio-rifiuto, come già detto, è che tale silenziosa forma espressiva non è resa significativa dalla legge e quindi si presume che l’amministrazione abbia illegittimamente arrestato il procedimento, senza rispettarne il termine di conclusione.
La sentenza utilizza due istituti precisi: la decadenza e l’atto confermativo. Orbene, il primo ha un’applicazione trasversale nel senso che anche l’esercizio dei diritti soggettivi è soggetto a decadenza e non solo a prescrizione; il secondo è proprio dell’attività amministrativa, anche se il diritto civile conosce la conferma e la ripetizione del negozio giuridico, ma essi sono completamente estranei alla fattispecie. Quindi, non a caso, il Supremo Consesso amministrativo ha potuto non prendere posizione sulla natura giuridica del diritto di accesso, tanto più che la sua tutela giurisdizionale ora rientra nella giurisdizione esclusiva, per cui diventa non decisiva la sua qualificazione ai fini dell’individuazione della giurisdizione ed inoltre la sua tutela può spingersi fino alla condanna dell’amministrazione all’esibizione dei documenti. Sicché la tutela è massima; tanto che qualche commentatore ha parlato di tutela di merito.
Tuttavia, proprio per la sua eccezionalità rispetto ai canoni consueti del giudizio amministrativo – anche di quello di giurisdizione esclusiva, dove non è facile rinvenire condanne ed un facere specifico dell’amministrazione – può tale circostanza non essere decisiva nel qualificare “di diritto” la situazione giuridica del richiedente, ben potendo il legislatore accordare quel tipo di tutela ad una situazione di interesse, soprattutto a proposito di un rito speciale quale quello di cui all’art. 25, legge n. 241 del 1990. Quindi è preferibile, quando si studiano le situazioni soggettive, soffermarsi sul tipo di tutela previsto e non sulle opzioni aprioristiche e nominalistiche.

Visto che per tale via non si arriva ad un risultato definitivo, è utile spostare il fuoco dell’indagine sui comportamenti possibili dell’amministrazione. Nel caso de quo il nuovo diniego espresso è stato giustamente qualificato come atto meramente confermativo. Tuttavia ciò non significa che ogni determinazione surrettizia dell’amministrazione sarà da qualificarsi tale, e questo vale sia nell’ipotesi in cui vi sia una prima pronuncia espressa e sia che vi sia una pronuncia negativa tacita, a seguito dello spirare del termine di trenta giorni dall’istanza. Infatti, in entrambi i casi, l’amministrazione, su sollecitazione o meno del privato – dove la nuova istanza ha un mero valore sollecitatorio, non idoneo a generare l’obbligo a provvedere, come in tutti i procedimenti di secondo grado – , può aprire un procedimento di riesame, che si può concludere con la riforma, la conferma o l’annullamento dell’atto, espresso o tacito, di primo grado. Sicché a fronte di questa evenienza la tutela giurisdizionale e giustiziale è sempre possibile ed è fuori luogo fare riferimento alla riapertura del termine impugnatorio.
Naturalmente se, come nella sentenza impugnata, non è configurabile un procedimento di riesame in senso tecnico, l’atto, quale che sia, è meramente confermativo e quindi il ricorso è inammissibile.
La dottrina e la giurisprudenza si sono soffermate molto sul valore della “pronuncia tardiva” dell’amministrazione.
Per coloro che qualificavano l’accesso un diritto era sempre possibile la riproposizione dell’istanza nel termine prescrizionale del diritto, e lo spatium deliberandi dell’amministrazione era da qualificarsi come una condizione dell’azione e la pronuncia tardiva era sempre impugnabile nelle varie sedi previste. In altri termini la tutela era sempre possibile purché si riproponesse la richiesta in sede sostanziale, riconnettendo alla mancata impugnazione delle determinazioni negative dell’amministrazione un effetto meramente processuale, consistente nell’impossibilità di ricorrere al giudice senza prima rinnovare la richiesta di accesso all’amministrazione e attendere la sua risposta.
Orbene, tale ricostruzione non sembra più possibile sia perché il sistema normativo qualifica il silenzio come diniego (che ha il regime proprio già visto) e sia in ossequio alla sentenza dell’Ad. Plen. n. 7 del 2006, che ha voluto dirimere proprio il punto controverso in giurisprudenza, dando un’interpretazione coerente al sistema della legge, laddove assegna al termine il valore proprio di una decadenza in senso tecnico (ricordando che anche i diritti sono soggetti a decadenza), atteso che se non avesse tale carattere esso non avrebbe nessuna valenza precettiva e l’azione processuale sarebbe ingiustificatamente proponibile ad arbitrio dell’interessato senza alcun limite temporale. Né si può ritenere decisiva la presenza comunque di un termine prescrizionale, poiché in presenza di un termine decadenziale, esso non rileva ai fini della tutela specifica da azionarsi in un tempo decadenzialmente predefinito.

Non si possono affrontare i temi squisitamente processuali che si prospettano nell’ipotesi in cui, in costanza di giudizio o di procedimento giudiziale, vi sia una pronuncia successiva di qualunque segno da parte dell’amministrazione, anche se il buon governo del sistema processuale fornisce facilmente la soluzione. Né si può ora indugiare sul rapporto tra il rito speciale dell’accesso e il rito ordinario.
Tuttavia una breve considerazione va fatta a proposito della tardiva pronuncia di accoglimento dell’amministrazione. L’effetto per il richiedente è diverso a seconda che abbia o meno proposto una qualunque forma di tutela e a seconda che vi siano o meno controinteressati. Tanto più che questi ultimi, sia nella nuova formulazione degli articoli appositi della legge n. 241 del 1990 e sia nel regolamento n. 184 del 2006, ricevono una considerazione tale, da far ritenere che la stessa nozione processuale di carattere generale sia cambiata.
In breve, mentre se non vi è giudizio o procedimento giustiziale aperti e non vi è controinteressato l’atto positivo è pienamente satisfativo e nessuno ha interesse a farlo considerare meramente confermativo, nel caso opposto viene a cessare la materia del contendere se non vi sono controinteressati, mentre se vi sono, questi debbono impugnare la nuova decisione, al fine di sostenere che essa è stata emanata non a seguito dell’apertura di un procedimento di riesame in senso tecnico e quindi è meramente confermativa di un atto la cui emanazione ha consumato il potere originario.
Naturalmente il controinteressato ben può sostenere, anche in presenza di un pacifico provvedimento di riesame, che non ricorrevano i presupposti di fatto e di diritto per la sua apertura da parte dell’amministrazione.

 

Il ricorso al difensore civico e alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. La tutela del controinteressato. La natura della decisione espressa e tacita del difensore civico e della Commissione. Il rapporto tra il ricorso giustiziale e il ricorso giurisdizionale

Già prima della riformulazione ad opera della legge n. 15 del 2005 dell’art. 25, comma 4, della legge n. 241 del 1990, l’art. 15 della legge n. 340 del 2000 aveva introdotto una forma di tutela ulteriore, laddove prevedeva la possibilità di ricorrere in via amministrativa, negli stessi termini fissati per il ricorso giurisdizionale, al difensore civico, anche al fine di scongiurare il pericolo di un eccessivo ricorso in sede giurisdizionale. Ora l’indicata legge, come già riferito incidentalmente, ha previsto un nuovo ricorso amministrativo innanzi alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi.
L’emanazione del regolamento n. 184 del 2006 ha reso possibile, come si avvertiva nel paragrafo iniziale, non solo il concreto funzionamento dell’istituto, ma ha anche risolto talune delle questioni che la legge aveva lasciato insolute.

Descrittivamente il meccanismo previsto si articola nei modi che seguono.
Il più volte ricordato regolamento n. 184 del 2006, oltre ad aver con la sua entrata in vigore consentito il concreto funzionamento della Commissione, ha disciplinato, all’art. 12, il ricorso giustiziale proponibile innanzi ad essa. Dal combinato disposto di detta norma con quanto statuisce il nuovo art. 25 della legge n. 241, e in particolare il comma 4, viene fuori un complicato sistema di tutela. Infatti, a ulteriore precisazione di quanto or ora riferito, l’interessato può proporre contro il diniego di accesso, espresso o tacito, ricorso, oltre a quello giurisdizionale, alla Commissione per l’accesso contro atti di amministrazioni centrali o periferiche, ove manchi il difensore civico, e innanzi a quest’ultimo per gli atti delle amministrazioni periferiche, ove sia stato invece istituito. Ad una prima lettura sembrerebbe che l’accoglimento del ricorso non comporti l’annullamento dell’atto, ma solo un potere sollecitatorio di riesame, che l’amministrazione deve esercitare entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione da parte del difensore civico o della Commissione. Qualora essa non si pronunci l’accesso è consentito. Tuttavia non si prevedono poteri coercitivi specifici.

Il quadro è ulteriormente complicato dal fatto che, avendo la legge giustamente fondato il sistema della diversificazione delle tutele in via amministrativa sulla distinzione tra dato personale e documento amministrativo, sorge il problema del possibile conflitto tra la Commissione per l’accesso e il Garante per la protezione dei dati personali, qualora l’accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi. Parimenti vi può essere contrasto tra le due autorità quando il Garante per la protezione dei dati personali debba decidere sul ricorso presentato ai sensi dell’art. 145 e seg. del d.l.vo n. 196 del 2003 oppure per effettuare accertamenti e controlli ai sensi degli artt. 154, 157 e 158 del medesimo decreto legislativo, qualora venga in rilievo l’accesso ai documenti amministrativi. In tali casi il sistema si ispira al principio di leale collaborazione, laddove viene previsto che bisogna rispettivamente richiedere il parere da parte dell’autorità presso cui pende il ricorso.
Anche se tale subprocedimento incidentale può ritardare la decisione finale, ha tuttavia il merito di consentire che l’autorità del trattamento del dato personale o, a seconda del caso, quella dell’accesso ai documenti si esprimano, non rinunciando così alla cura dell’interesse pubblico primario di cui sono attributarie.

La principale questione che l’indicato regolamento risolve è quella relativa alla tutela del controinteressato, il quale viene del tutto equiparato al ricorrente principale, essendogli non solo garantita una effettiva partecipazione al provvedimento susseguente alla richiesta (art. 3), ma anche la possibilità di azionare i procedimenti giustiziali ogni qual volta vi sia una decisione di accoglimento del ricorso giustiziale (art. 12, comma 1).
Rimane dubbio se possa azionare lo speciale rito di cui all’art. 25, comma 4, dato che in esso si fa riferimento al solo “richiedente”. Tuttavia l’art. 12 del regolamento consente anche al controinteressato la possibilità di ricorrere alla Commissione “avverso le determinazioni che consentono l’accesso”. Sicché sarebbe strano che ciò sia consentito in sede giustiziale e, invece, non lo sia in sede giurisdizionale.

Tuttavia i problemi principali, e che permangono nonostante l’emanazione del regolamento, sono quelli legati sia alla decisione, silenziosa o espressa, dei due organismi, Commissione e difensore civico, e sia al rapporto del procedimento giustiziale, di alternatività o meno, con lo speciale rito previsto in sede giurisdizionale.
La decisione silenziosa viene contemplata nell’art. 25, comma 4, legge n. 241 del 1990, laddove si stabilisce che “Il difensore civico o la Commissione per l’accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza. Scaduto infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto”.
Va da sé che per tale tipo di decisione valgono le sistemazioni più avanzate avutesi in giurisprudenza (già viste nei paragrafi precedenti) a proposito del silenzio-rigetto, trattandosi proprio di una classica ipotesi di questo tipo, dove vi è già una pronuncia dell’amministrazione. Nel caso del silenzio-diniego, si è visto già, che esso si configura come una manifestazione silenziosa di una volontà negativa, perfettamente equiparata alla decisione espressa, e tuttavia, in virtù della nuova sistemazione del silenzio-rigetto operata dal diritto vivente, la posizione del ricorrente è quella propria del silenzio-rifiuto (ora riformato), in cui cioè egli può azionare tutti i rimedi giustiziali e giurisdizionali, ivi compreso quello di sollecitare con il meccanismo del silenzio inadempimento la pronuncia espressa dell’amministrazione. Inoltre la scadenza del termine non priva la Commissione e il difensore civico del potere di decidere il ricorso e, quindi, le decisioni tardive non sono di per sé illegittime. La scadenza del termine – in base nuovo indirizzo inaugurato dal Consiglio di Stato, Ad. Plen. nn.16 e 17 del 1989, come già visto – comporta per il ricorrente la presentazione del ricorso giurisdizionale di rito speciale contro l’atto di primo grado, nonché l’attesa della decisione del ricorso, essendo le autorità amministrative di cui sopra gravate dall’obbligo di decidere il ricorso.
In tal caso, il termine di trenta giorni per la decisione ha la stessa rilevanza della scadenza di un qualunque termine per l’emanazione di un provvedimento non giustiziale. Sicché l’interessato, secondo la nuova formulazione dell’art. 2, così come modificato dall’art. 3, comma 6 bis, della legge n. 80 del 2005 (come già visto) può proporre direttamente ricorso senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e, in ogni caso, entro l’anno dalla scadenza dei termini. Inoltre, è fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
Non sembra proponibile il ricorso gerarchico, dato che esso è incompatibile con la previsione di una tutela specifica, quale appunto quella innanzi alla Commissione e al difensore civico, e di un rito speciale in sede giurisdizionale.

Ma veniamo alla decisione espressa.La base normativa si rinviene nello stesso art. 17, comma 4, legge n. 241 del 1990 nonché nell’art. 12, commi 6, 7 8 e 9 (il comma 10 stabilisce che la disciplina si applica anche al difensore civico, ove compatibile).Orbene, da una prima lettura delle norme indicate si ricava che il tipo di decisione ivi contemplato non ha il consueto contenuto delle decisioni proprie dei procedimenti contenziosi.Infatti, secondo lo schema classico, la decisone può essere di rito oppure di merito. Nel primo caso l’art. 12, comma 7, stabilisce che esse possano essere, nei casi ivi indicati, di irricevibilità o di inammissibilità. Nel secondo caso esse possono essere di accoglimento o di rigetto. In quest’ultimo caso hanno un effetto confermativo rispetto al diniego espresso o tacito o al differimento, se ad impugnare è stato il richiedente; lo stesso effetto hanno rispetto all’originario provvedimento di accoglimento, ove ad impugnare sia stato il controinteressato. Viceversa, in caso di accoglimento, la decisione non ha l’effetto di annullamento o di riforma dell’originario atto, bensì le autorità decidenti “informano il richiedente e lo comunicano all’autorità disponente”, entro trenta giorni dalla decisione, la quale “se…non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della Commissione, l’accesso è consentito”.Ad una prima lettura sembra trattarsi più che di una decisione in senso tecnico, di una sorta di “invito” ad aprire un procedimento di riesame che, se non si conclude con una “conferma” motivata del diniego originario (espresso o tacito), ha l’effetto, non di annullamento, ma quello più specifico di consentire l’accesso; cosa che si avvicina di molto all’ordine “di esibizione dei documenti richiesti” propria del rito speciale previsto in sede di ricorso giurisdizionale.
Sicché la norma va interpretata, a ben vedere, proprio perché si tratta comunque di una decisione amministrativa in senso tecnico, non in funzione del possibile effetto ulteriore, ossia della eventuale conferma espressa dell’amministrazione, bensì in funzione dei suoi effetti immediati. Essi sono quelli propri del procedimento contenzioso, che si sostanzia nella soluzione della lite in senso tecnico, attraverso l’esame della fondatezza della pretesa del ricorrente in contraddittorio con l’amministrazione e l’eventuale controinteressato. L’effetto immediato del tipo di procedimento in esame non è quindi l’annullamento dell’atto, ma l’accoglimento della specifica richiesta del ricorrente, ossia l’esibizione degli atti o il differimento della richiesta. Solo così si spiega il significato dell’espressione “l’accesso è consentito”. Esso presuppone un vero e proprio esame di merito, che si conclude con una decisione che elimina ogni margine di discrezionalità all’amministrazione, in cui il suo potere di ottemperanza è fissato dal dispositivo della decisione, e che, alla fin fine, è meno largo di quello susseguente alla decisione di annullamento.In altri termini, la decisione di accoglimento ha l’effetto immediato di consentire l’accesso e l’effetto, ulteriore ed eventuale, di consentire l’apertura del procedimento di riesame.
Ma v’è di più. La norma è suscettibile di essere letta anche nel senso di voler costringere l’amministrazione a dare una motivazione all’originario diniego tacito e quindi non si aprirebbe nessun procedimento di secondo grado. Ma tale lettura non sembra corretta, atteso che l’oggetto del procedimento che l’amministrazione può in ipotesi aprire non è la determinazione originaria bensì la decisione della Commissione e del difensore civico, che, se non condivisa, potrà portare alla conferma dell’originario atto.Sicché, alla fin fine, la lettura secondo cui la decisione si sostanzia in un atto di impulso ad eventualmente aprire il procedimento di riesame – suggerita anche dalla circostanza che la dizione della legge ha fatto prima riferimento alla conferma e poi all’accesso consentito – non appare condivisibile. Anzi è una decisione più incisiva di quelle proprie dei ricorsi gerarchici e di quelle che si formano innanzi alle autorità amministrative indipendenti. D’altronde per tutte le decisioni amministrative di accoglimento si è posto il problema se esse potessero essere oggetto di procedimenti di riesame da parte delle amministrazioni che le avessero subite; e ciò è stato escluso non tanto per un’impossibilità giuridica, non trattandosi di giudicato in senso tecnico, quanto piuttosto perché non potevano avere ad oggetto un atto (la decisione appunto) di un’autorità sovraordinata.
Va da sé che il provvedimento confermativo diventa a sua volta impugnabile innanzi al giudice amministrativo e, per chi lo ammette, anche in sede di ricorso straordinario. Non sembra possibile una nuova impugnazione innanzi alla Commissione o al difensore civico, sia per il principio del ne bis in idem e sia perché l’oggetto del procedimento contenzioso è la richiesta di accesso e non altro.
Può sorgere problema nel caso in cui l’amministrazione reiteri il diniego senza fornire motivazione. L’effetto non può essere che quello che “l’accesso è consentito”, essendo l’effetto naturale ed immediato della decisione amministrativa di accoglimento; effetto che, come già detto, può essere escluso solamente da un procedimento di riesame che si deve concludere con un procedimento confermativo che la legge vuole sia “motivato”. Le eccezioni al sistema generale debbono essere tassative e rigorose.
Naturalmente ben diverso è il problema di come rendere effettiva ed eseguibile la decisione di accoglimento, che peraltro è un problema di carattere generale, atteso che le autorità amministrative decidenti non possono azionare procedimenti esecutivi se non quelli, limitati, previsti per ogni atto amministrativo. Sicché è gioco forza che tale atto – anche al fine di avvalersi del giudizio di ottemperanza – sia impugnato in sede giurisdizionale, con la particolarità che esso avrà ad oggetto l’inesecuzione o l’elusione della decisione amministrativa e non l’accessibilità dei documenti.
E’ il caso di ricordare che l’art. 12, comma 8, del d.P.R. n. 184 del 2006 stabilisce opportunamente, anche se dal sistema lo si poteva comunque dedurre, che le decisioni di rito non escludono la facoltà per il ricorrente di riproporre la richiesta di accesso e quella di proporre ricorso avverso le nuove determinazioni o il nuovo comportamento del soggetto che detiene il documento.Non sembra che in tali nuove determinazioni possa rientrare quella susseguente la decisione della Commissione, dato che la norma stabilisce un collegamento logico sintattico con la riproposizione della richiesta di accesso, che ivi manca.Né si può dire che la disposizione non sia in linea con la decisione del Consiglio di Stato (Ad. Plen. n. 7 del 2006), esaminata in precedenza, atteso che essa ha escluso l’ammissibilità del ricorso di chi aveva presentato di nuovo l’istanza, in quanto essa era meramente reiterativa della precedente e l’atto di diniego era meramente confermativo del precedente. Questo non esclude che se il diniego dell’amministrazione si fondi su ragioni non di merito, l’istanza possa essere ripresentata e possa validamente impugnarsi il diniego fondato su ragioni di merito. Né si esclude l’ammissibilità del ricorso giurisdizionale su un atto di conferma del diniego che sia il risultato di un procedimento di riesame in senso tecnico, in cui la richiesta di accesso abbia avuto un effetto meramente sollecitatorio, atteso che le istanze in tali procedimenti non creano l’obbligo a procedere.

Un altro problema che il nuovo regolamento non risolve, e forse non rientrava nei suoi compiti, è quello del rapporto tra il ricorso giustiziale e quello giurisdizionale, ossia se vi sia un rapporto di alternatività in senso tecnico. L’alternatività, che si risolve comunque in una limitazione degli strumenti di tutela, deve essere espressamente prevista, onde evitare contrasti con l’art. 24 della Costituzione. Orbene, non sembra che la norma di cui all’art. 25, commi 4 e 5, – laddove stabiliscono che contro le determinazioni amministrative “e nei casi previsti dal comma 4 è dato ricorso” e laddove il termine per impugnare lo si fa decorrere “dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell’esito della sua istanza al difensore civico o alla Commissione” – consente di ritenere che si tratti di un rapporto di alternatività.
E’ nella facoltà dell’interessato utilizzare tutti gli strumenti di tutela. Quindi può presentare ricorso giustiziale e giurisdizionale contemporaneamente o comunque in pendenza del primo (non viceversa, data la prevalenza della tutela giurisdizionale); così come può convertire il ricorso giustiziale in ricorso giurisdizionale. Sicché la normativa indicata si risolve nel dare la facoltà all’interessato di attendere la decisione amministrativa, in linea con quanto il giudice amministrativo ha stabilito in tema di silenzio.

 

 

Accessi particolari

Abbiamo già osservato che l’accesso contemplato dal Capo V della Legge ha portata generale; come tale, si atteggia sicuramente a primo ed imprescindibile polo di attrazione (del criterio) della trasparenza amministrativa, ma non esclude discipline particolari (anche) per specifici settori. Una prima eccezione è prevista dalla stessa Legge, ovvero l’accesso endoprocedimentale, regolato dall’art.10 e direttamente collegato alla partecipazione al procedimento amministrativo.
Qui, la possibilità di “prendere visione” dei documenti amministrativi discende dalla (sola) qualità di parte o di intervenuto nell’ambito del procedimento amministrativo, con la – possibile – rilevanza di interessi di mero fatto . Rispetto alla disciplina generale, caratterizzazioni profondamente diverse permeano l’accesso alle informazioni in materia ambientale. La materia, che già aveva ricevuto specifica regolamentazione per effetto dell’art. 14 della L. 349/1986, è ora disciplinata dal D.lgs. 195/2005, Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale; il decreto de quo, peraltro, ha ampiamente confermato i principi ed in massima parte riprodotto i precetti contenuti nel (l’abrogato) D. lgs. 39/1997, Attuazione della direttiva 90/313/CEE, concernente la libertà di accesso alle informazioni in materia ambientale.
Anche ad un esame superficiale, risulta evidente l’ampliamento soggettivo ed oggettivo del diritto di accesso. Sotto il primo profilo, l’art. 3, comma 1, riconosce la titolarità dell’accesso alle informazioni relative all’ambiente “a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”; svincolando l’accesso da condizionamenti legittimanti, il legislatore ha, di fatto, introdotto una vera e propria azione popolare, sotto forma di diritto soggettivo pubblico all’informazione, di controllo generalizzato – salve le circoscritte eccezioni dettate dall’art. 5 – dell’azione amministrativa, giustificata dalla particolare rilevanza del bene in gioco .
Quanto all’aspetto oggettivo, l’accesso in materia ambientale riguarda non (solo) l’atto amministrativo, bensì l’informazione ambientale, ovvero qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora o elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente l’ambiente .
Una disciplina particolare è contenuta nella L. 57/2001 e successive modificazioni ed integrazioni (si veda, in particolare, l’art. 354 del D. Lgs. 209/2005), in materia di accesso agli atti delle imprese operanti nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli a motore e natanti. L’accesso è consentito agli assicurati ed ai danneggiati, a conclusione del procedimento di valutazione, constatazione e liquidazione dei danni; in caso di diniego è competente l’ISVAP. Un accesso diversificato è (rectius:dovrebbe) essere previsto dall’art.10, commi 1° (“tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale sono pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco o del presidente della provincia che ne vieti l’esibizione, conformemente a quanto previsto dal regolamento, in quanto la loro diffusione possa pregiudicare il diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese”) e 2° (“il regolamento…assicura il diritto dei cittadini di accedere, in generale, alle informazioni di cui è in possesso l’amministrazione”) del D.Lgs. 267/2000, meramente riproduttivo, sul punto, dell’art. 7 della L. 142/1990.
In effetti, mentre il diritto di accesso disciplinato dalla Legge presuppone un interesse, personale e concreto, per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, quello delineato dal Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali – almeno considerando la lettera della norma – prescinde(rebbe) dalle condizioni predette, in virtù del principio di massima conoscibilità degli atti – e delle informazioni – detenuti dall’Amministrazione da parte degli amministrati, per ancorarsi al solo limite della “riservatezza delle persone, dei gruppi e delle imprese”; l’assunto, confortato da una – peraltro risalente – giurisprudenza del massimo organo di giustizia amministrativa, in materia di concessioni edilizie , è difeso da non pochi giudici di primo grado e dalla CA .
In direzione opposta muove la recente giurisprudenza del massimo organo di giustizia amministrativa; secondo il giudice (amministrativo) di appello, “non è plausibile” l’individuazione di istituti diversi, perché “il rapporto tra le due discipline, recate rispettivamente dall’art.10 d.lgs. n. 267/2000 sull’ordinamento delle autonomie locali e del capo quinto della l. 7.8.1990, n. 241 sul procedimento amministrativo in materia di accesso ai documenti amministrativi, entrambe ispirate al comune intento di garantire la trasparenza dell’azione amministrativa, va posto in termini di coordinazione”, con la conseguenza, da un lato, “che le disposizioni del citato capo quinto penetrano all’interno degli ordinamenti degli enti locali in tutte le ipotesi in cui nella disciplina di settore non si rinvengano appositi precetti che regolino la materia con carattere di specialità”, dall’altro, che “l’art. 10 T.U. n. 267/2000 ha introdotto una disposizione per gli enti locali che si pone semplicemente in termini integrativi rispetto a quella, di contenuto generale, di cui all’art. 22 L. 2411990” . Peraltro, la querelle non sembra risolta, viste le resistenze incontrate dalla recente ricostruzione del Consiglio di Stato [Tar Puglia, Lecce, 12 aprile 2005, n. 2067; CA, Plenum del 14 marzo 2007 ; Plenum del 14 marzo 2007 ; Plenum del 19 aprile 2007 ; Plenum del 19 aprile 2007 ).

 

 

Pronunce giudiziali : diritto di accesso nelle more dei procedimenti ispettivi

Si ribadisce che il diritto di accesso è volto ad assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e a favorirne lo svolgimento imparziale (come recita l’art. 22, l. n. 241/1990), e rimane fermo che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente si rivolgono, e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva; la quale, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’ attività amministrativa.
Ai sensi dell’art. 25, 2 ° comma della l. 241/90, la richiesta di accesso , effettuata nel corso di un accertamento ispettivi, deve essere sufficientemente motivata, nonchè precisa e circostanziata. In riferimento al suindicato oggetto ed alla tempistica in cui la richiesta di cui in oggetto perviene all’ ufficio competente, si precisa che ai sensi dell’art. 12, comma 11, del D.M del 20.04.06 prot. 25/segr/0003540, recante le norme di comportamento ad uso degli organi di vigilanza, nessuna copia delle dichiarazioni rese deve essere rilasciata al lavoratore e/o al soggetto ispezionato in sede di ispezione e sino alla conclusione degli accertamenti stessi e l’eventuale richiesta di accesso va inoltrata alla Amministrazione con i requisiti di legge, che secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza ( cfr Consiglio di Stato , sez. VI, sentenza 10.02.2006 n° 555) e codificati dalla l. n. 15/2005 sono cosi elencati:

  1. la domanda di accesso deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica;
  2. la domanda di accesso deve riferirsi a specifici documenti e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta( cfr C. Stato, sez. VI, 20-05-2004, n. 3271; C. Stato, sez. VI, 10-04-2003, n. 1925; C. Stato, sez. V, 01-06-1998, n. 718);
  3. la domanda di accesso deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore ( cfr C. Stato, sez. VI, 30-09-1998, n. 1346);
  4. la domanda di accesso non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti l’accesso viene esercitato( cfr C. Stato, sez. IV, 29-04-2002, n. 2283; C. Stato, sez. VI, 17-03-2000, n. 1414;
  5. la domanda di accesso non può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici ( cfr C. Stato, sez. IV, 29-04-2002, n. 2283; T.a.r. Lazio, sez. II, 22-07-1998, n. 1201).

Con tre pronunce emesse nel corso del 2006 (T.A.R. Veneto, 18 gennaio 2006, n.301; 27 aprile 2006, n.1130; 19 giugno 2006, n.1801 ) il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha avuto occasione di decidere in ordine al contrasto sorto tra il datore di lavoro che richieda di prendere conoscenza delle dichiarazioni rilasciate dai propri dipendenti nel corso di un procedimento ispettivo e l’interesse rinvenibile in capo a questi ultimi a che il contenuto delle medesime resti riservato. In ragione delle differenti quaestiones facti venute alla propria attenzione, il giudice si è alternativamente pronunciato a favore del datore di lavoro o dell’amministrazione che ha negato la conoscibilità delle dichiarazioni.
Non vi è alcun dubbio — anche in relazione al carattere impugnatorio del giudizio amministrativo — che legittimato passivo nel giudizio relativo al diniego sull’istanza di accesso sia la p.a. che su essa si pronuncia: ciò anche in forza dell’art.25, comma secondo, della l.241/90, per il quale la richiesta di accesso “deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente”.
Tuttavia, per quanto sia la determinazione amministrativa ad incidere concretamente sulla sfera giuridica del ricorrente (si pensi, ad esempio, all’irrogazione di una o più sanzioni nei confronti dell’azienda ispezionata, quale atto conclusivo della visita ispettiva), non è in dubbio che l’interesse sostanziale contrapposto all’accesso (cioè quello alla pretesa riservatezza delle dichiarazioni prestate) sia di pertinenza di terzi — i quali, difatti, in sede procedimentale assumono la veste di controinteressati — e non della p.a.. Non a caso, per quest’ultima, si è parlato di un ruolo “giustiziale”, cioè di conciliazione tra le opposte esigenze o di individuazione di quella prevalente.Più che il diversificato esito dei giudizi, tuttavia, appare di particolare interesse il fatto che il T.A.R. Veneto, nella risoluzione delle controversie giunte al proprio vaglio, si sia posto prevalentemente — non esclusivamente, come si vedrà — nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale che rinviene nelle contrapposte posizioni un conflitto tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi fatto valere dall’istante (datore di lavoro) ed il diritto alla riservatezza che si manifesta in capo ai terzi (lavoratori).
Se tale orientamento ha goduto di pieno seguito per circa un decennio, la sopravvenienza di una serie di pronunce basata su un diversa elaborazione del tema ha di recente condotto ad un differente inquadramento della questione. Le predette pronunce del T.A.R. Veneto forniscono allora l’occasione di soffermarsi su quelle problematiche che, non trovando una soluzione sufficientemente consolidata nelle decisioni del giudice amministrativo, offrono la possibilità di una rilettura.Se il prevalente inquadramento operato dalla giurisprudenza in tema di conoscibilità degli atti formatisi nell’ambito del procedimento ispettivo attiene ai confliggenti diritti all’accesso ai documenti amministrativi ed alla riservatezza — e dunque, da un punto di vista applicativo, alla delicata operazione di “bilanciamento” che logicamente ne scaturisce —, risulta opportuna una sintetica analisi delle diverse fonti concernenti l’evoluzione legislativa e regolamentare relativa a tali diritti (3).
Ad introdurre nel nostro ordinamento l’istituto dell’accesso agli atti amministrativi è, come noto, la legge 7/8/1990 n.241.Data la definizione di “diritto di accesso” (art.22) ed individuato il suo ambito soggettivo di applicazione (art.23), il legislatore ha posto particolare attenzione ai presupposti applicativi di tipo oggettivo. Sin dal testo originario, infatti, l’art.24 della legge elenca in primo luogo una serie di ipotesi in cui il diritto in discorso risulta normativamente escluso, stante la presenza di interessi da considerarsi ad esso sovraordinati (si pensi, ad esempio, ai vari casi di “segreto” o di divieto di divulgazione previsti dall’ordinamento) . Secondariamente, poi, il legislatore lascia all’autorità governativa la possibilità di prevedere, mediante regolamento di delegificazione, ulteriori ipotesi di “sottrazione” all’accesso, all’interno di una serie di esigenze previamente individuate: tra queste, l’esclusione del diritto di accesso “quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”.
Sul punto, l’art.8 del regolamento successivamente introdotto, d.P.R. 27 giugno 1992 n.352 , nel limitarsi a precisare ulteriormente i criteri che presiedono alle ipotesi di esclusione del diritto di accesso, non ha fatto altro che riprodurre le esigenze che vi sono sottese, così come indicate al richiamato art.24 della l.241/90; l’Autorità governativa ha cioè ritenuto di non indicare analiticamente le categorie documentali o i singoli documenti da sottrarre all’accesso, quanto piuttosto di demandare tale incarico a ciascuna p.a. in ragione della rispettiva sfera di competenza.La scelta è chiara (per certi versi, scontata): sono le diverse amministrazioni ed enti pubblici, in ragione dell’interesse pubblico che è loro compito perseguire, i soggetti che meglio possono individuare i documenti, o categorie di documenti ), per i quali l’accesso risulta escluso (in quanto diritto costretto a recedere di fronte ad altri maggiormente meritevoli di protezione).
Lo schema di regolamento ministeriale che, ai sensi dell’art. 24 comma 4 l 7 agosto 1990 n. 241, deve indicare le categorie di documenti sottratti al diritto di accesso, non deve individuare il “nomen iuris” di singoli atti bensì deve raggruppare atti omogenei, sotto il profilo delle finalità che essi perseguono, e della connessa necessità di riservatezza” (Cons. Stato, Ad. Gen., 06 ottobre 1994, n.235).
Nella materia lavoristica, allora, il compito di dare attuazione a quanto previsto dalla fonte regolamentare, è ricaduto sul Ministero del lavoro e sugli enti previdenziali, ciascuno in ragione delle proprie competenze. Essi vi hanno assolto rispettivamente con l’emanazione del decreto ministeriale 4 novembre 1994 n.757 , del provvedimento I.N.P.S. n.1951 del 16 febbraio 1994 e dei regolamenti I.N.A.I.L. del 1992, del 1994 e, da ultimo, del 13 gennaio 2000 n.5 (adottato al fine di adeguare la disciplina dell’accesso alla normativa nel frattempo sopravvenuta in tema di riservatezza, di cui si dirà a breve). Nel caso del Ministero, l’esercizio del potere regolamentare è avvenuto oltre il termine posto dall’art.13 del d.P.R. 352/92 per provvedere: tale termine, originariamente fissato al 13 agosto 1992, è stato poi definitivamente prorogato al 30 giugno 1994 (ai sensi del D.L.16 maggio 1994, n.295, convertito, con modificazioni, nella l.15 luglio 1994, n.445).
Ai fini della presente disamina, va subito osservato come ciascuno dei menzionati provvedimenti abbia preso in considerazione, al fine di decretarne la sottrazione al diritto d’accesso, la seguente documentazione riguardante l’attività ispettiva in materia di lavoro:

  • ex art.2 del d.m. 757/94, “i documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi” (art.2, comma primo, lett.c) nonché “i documenti contenenti le richieste di intervento dell’Ispettorato del lavoro” (art.2, comma primo, lett.b), e ciò “in relazione all’esigenza di salvaguardare la vita privata e la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, imprese e associazioni”;
  • ai sensi del n.12 dell’allegato A (punto II) al provv.1951/94 I.N.P.S., richiamato dall’art.17 dello stesso provvedimento (intitolato “della tutela della riservatezza”), “le dichiarazioni rilasciate da lavoratori che costituiscano base per la redazione del verbale ispettivo, al fine di prevenire pressioni, discriminazioni o ritorsioni ai danni dei lavoratori stessi”;
  • ex art.14 della delibera 5/00 I.N.A.I.L., gli “accertamenti ispettivi”, al fine di tutelare “la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, di gruppi, di imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolari, sanitari, politici, sindacali, religiosi, professionali, finanziari, industriali e commerciali di cui essi siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano stati forniti all’Amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”.

Se è vero che i provvedimenti amministrativi sopra menzionati denotano una certa difformità di scelte nell’individuazione (e finanche nelle modalità descrittive) dei “tipi documentali” da sottrarre all’accesso, va comunque posto l’accento sulla generale riconduzione dei divieti sopra indicati ad esigenze di tutela della vita privata e della riservatezza (in piena aderenza alla previsione dell’art.24 l.241/90 e con espressioni che, nel caso della delibera dell’I.N.A.I.L., riproducono pedissequamente il comma quarto, lett.d), della stessa norma).Ciò anche a sottolineare come, a fronte di una normazione del diritto d’accesso che nella prima metà degli anni ‘90 può dirsi compiuta (sebbene ancora “sotto osservazione” in merito alle sue prime applicazioni), venga comunque presentito il crescente rilievo del bene “riservatezza” che, al contrario, “trova ancora fondamento e tutela esclusivamente nell’art.2 della Costituzione in tema di diritti della personalità” .
Non a caso — nonostante la valorizzazione dell’esigenza di trasparenza dell’azione amministrativa e l’assenza di una specifica normativa in tema di privacy — all’indomani dell’entrata in vigore della l.241/90 si registrò una prima opzione giurisprudenziale e dottrinaria secondo cui era da considerarsi prevalente la riservatezza, in quanto diritto di rango costituzionale superiore a quelli rinvenibili in riferimento alla disciplina sull’accesso, ovvero il diritto di difesa (art.24 Cost.), il buon andamento dell’azione amministrativa (art.97 Cost.), la tutela avverso gli atti della p.a. (art.113 Cost.). Un’opzione destinata a tramontare subito dopo, con l’affermarsi di due diverse scuole di pensiero:

  • la prima ha argomentato nel senso che l’operazione di bilanciamento tra confliggenti interessi fosse già stata presa in considerazione dal legislatore (nella stessa legge 241) e risolta in favore dell’accesso;
  • la seconda (per così dire, mediana) ha ritenuto che la riservatezza si ponesse in realtà in conflitto non con il diritto d’accesso, bensì con gli interessi che di volta in volta quest’ultimo andava a tutelare, degradandolo pertanto a mero diritto strumentale.

E’ solo con la legge 31/12/1996 n. 675, infatti, che il diritto alla riservatezza è espressamente introdotto nell’ordinamento, quale diritto inviolabile personale alla tutela dell’intimità della sfera privata. All’indomani dell’entrata in vigore di una legge che in ogni caso non contempla una specifica definizione di “riservatezza” ( al fine di definire il diritto alla “riservatezza”, si deve ancor oggi ricorrere all’elaborazione giurisprudenziale o dottrinale:in particolare, la Suprema Corte — che a tale istituto fa riferimento sin dagli anni ’70 (cfr. Cass., 27 maggio 1975, n.2199) al fine di proteggere le più svariate forme di aggressione alla sfera personale e familiare dell’individuo — così lo definisce: “Il diritto alla riservatezza – che, indipendentemente dalla sussistenza nell’ordinamento di altre e più specifiche previsioni, trova il proprio fondamento normativo nell’art. 2 Cost. e la cui lesione, pertanto, ove generatrice di danni, dà luogo a responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. — consiste nella tutela di situazioni e vicende strettamente personali e familiari, ancorché verificatesi fuori del domicilio domestico, da ingerenze che, sia pur compiute con mezzi leciti e senza arrecare danno all’onore, al decoro o alla reputazione, non siano tuttavia giustificate da un interesse pubblico preminente” (Cass. civ., sez. III, 9 giugno 1998, n.5658) — ma si caratterizza per la predisposizione di una tutela “forte” della stessa nei confronti delle cd. “banche dati”, attraverso la protezione dei dati personali inerenti l’individuo e la persona giuridica —, si avverte chiaramente come l’impianto legislativo punti l’attenzione in maniera preponderante sul rapporto tra riservatezza e trasparenza (valori, si può dire, entrambi prepotentemente “emergenti”): in particolare, quanto alle concrete modalità di tutela della riservatezza, l’art.27, comma terzo, stabilisce che “la comunicazione e la diffusione di dati personali da parte dei soggetti pubblici a privati o ad enti pubblici economici sono ammesse solo se previste da norme di legge o di regolamento”; mentre l’art.43, comma secondo, entra nel merito del menzionato rapporto, disponendo che “Restano ferme (…) le vigenti norme in materia di accesso ai documenti amministrativi ed agli archivi di Stato”, così confermando che l’operatività del diritto d’accesso, anche quando vengano in rilievo esigenze riconducibili alla sfera privata della persona, va osservata sempre in riferimento alle regole sul procedimento amministrativo.
Ciò non toglie (come si è accennato poco sopra per l’I.N.A.I.L.) che le pp.aa. in facoltà di emanare il proprio regolamento in materia di accesso, intervengano al fine di armonizzarne il contenuto con la normativa sopravvenuta in tema di tutela della riservatezza.
Negli anni successivi all’entrata in vigore della legge 675/96, sé è vero che la riflessione sul diritto di accesso agli atti amministrativi conosce un consistente sviluppo (soprattutto in ordine alle modalità di esercizio ed al rapporto con gli interessi sui quali va ad incidere), è da dire che ciò accade quasi esclusivamente in virtù di elaborazione giurisprudenziale. Sulla perdurante conflittualità tra accesso e riservatezza ritorna in particolare l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le pronunce n.5 del 1997 e n.59 del 1999, per quanto riguarda i principi enunciati in tema di tutela dei propri interessi giuridici al ricorrere di opposte esigenze di riservatezza. Nel contempo, invece, il dibattito sulle forme di intrusione nella vita privata della persona si amplia notevolmente, in relazione ad una accresciuta capacità — delle pubbliche amministrazioni, così come di tutti i soggetti pubblici e privati che si trovano a trattare dati personali — di elaborazione qualitativa e quantitativa di informazioni, direttamente derivante dalla disponibilità di una strumentazione informatica e telematica sempre più complessa e sofisticata.
L’esigenza di fornirsi di mezzi adatti a fronteggiare tali pericolose ingerenze, nonché quella di reductio ad unum della disciplina sulla privacy — “sparsa” ormai in diversi provvedimenti, anche di stampo settoriale — porta infine all’emanazione del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (“Codice in materia di protezione dei dati personali” Noto come “Codice sulla privacy).Tale complesso normativo costituisce il logico completamento di quanto già elaborato con la precedente legge 675/96, evidenziando una concezione giuridica del bene “riservatezza” ormai matura, potenzialmente atta a dispiegare una larghissima protezione per l’individuo : “grazie al decreto legislativo n.196 del 2003 e, quindi, con la codificazione del diritto all’autodeterminazione informativa, ciascuno di noi può proteggere i propri dati personali, avendo ciascuno il diritto di proporsi agli altri negli esatti termini in cui vuole che ciò accada, decidendo in anticipo quali informazioni personali è disposto a dare agli altri soggetti” . In definitiva, “la tutela della riservatezza realizzata in tal modo diventa (…) uno strumento che, da una parte, garantisce all’individuo la libera costruzione della propria sfera privata e, dall’altra, consente allo stesso di esercitare un controllo sociale diffuso e continuo sugli organismi pubblici e privati che detengono le informazioni, per assicurare la trasparenza della loro attività ed impedire la creazione di poteri incontrollati” .
Nella sostanza, le norme specificamente dettate dal D.Lgs.196/03 (Codice Privacy) sul rapporto tra tutela dei dati personali e diritto d’accesso, gli artt.59 e 60 , non si discostano da quanto già affermato agli artt.43 della l.675/96 e 16 del d.lgs. n.135 del 1999 (quest’ultimo riguardante l’individuazione dei dati cosiddetti “supersensibili”). Piuttosto, il risultato conseguito dal decreto consiste nel definitivo consolidamento di un processo evolutivo sinora parallelo: la maturazione per tappe normative del concetto di riservatezza da una parte, la “progressione” giurisprudenziale in tema di accesso alla documentazione amministrativa dall’altra, trovano finalmente un primo tentativo di sintesi delle opposte esigenze in un quadro unitario.In questo senso, il codice della privacy costituisce il preludio agli ultimi sviluppi normativi sul tema in discorso: con la legge 11 febbraio 2005 n. 15, che interviene sull’originario impianto dell’art.24 l.241/90, il legislatore lascia inalterate le previsioni sostanziali in materia di esclusione del diritto d’accesso ma risolve espressamente talune importanti ipotesi di conflitto dello stesso con il bene “riservatezza”, affermando che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” e che “nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
Senza volersi soffermare oltre sulle molteplici novità introdotte con l.15/05, ne va però rimarcata la rilevanza, tale da indurre il legislatore a prevedere una conseguente rielaborazione della normazione secondaria e settoriale in materia di accesso . Il secondo comma dell’art.23 della l.15/2005 così dispone: “Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo è autorizzato ad adottare, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, un regolamento inteso a integrare o modificare il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 27 giugno 1992, n. 352, al fine di adeguarne le disposizioni alle modifiche introdotte dalla presente legge”.
Inoltre, ai sensi del comma quarto dello stesso articolo, “ciascuna pubblica amministrazione, ove necessario, nel rispetto dell’autonomia ad essa riconosciuta, adegua i propri regolamenti alle modifiche apportate al capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241, dalla presente legge nonché al regolamento di cui al comma 2 del presente articolo”.
In esecuzione di tale obbligo, il Governo è andato ben oltre l’intento di “integrazione” o “modifica” del d.P.R. 352/92 disposto dal novellato art.23 l.241/90, procedendo alla sua abrogazione con l’entrata in vigore del nuovo “Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi”, il d.P.R. 12 aprile 2006 n.184.L’unica disposizione del precedente decreto Presidenziale a conservare vigenza è l’art.8, relativo ai casi di esclusione del diritto di accesso (e sul quale ci si è soffermati in precedenza). Tuttavia, l’abrogazione dello stesso è fissata dal d.P.R. 184/06 al momento della prossima entrata in vigore del regolamento che, ai sensi del novellato comma sesto dell’art.24 l.241/90, comporterà la riscrittura delle categorie di atti sottratti all’accesso da parte del Governo.

 

 

Riservatezza e diritto di accesso agli atti del procedimento ispettivo

Gli atti ispettivi, redatti dagli organi di vigilanza, se, da un lato, costituiscono importanti elementi istruttori per gli stessi organi, dall’altro, potrebbero consentire alle ditte ispezionate una difesa giudiziale più incisiva ed efficace.Il punto di partenza, per un corretto inquadramento dell’argomento, è costituito dalla normativa di riferimento e rappresentata dalla legge 241/1990, così come modificata dalla successiva legge 15/2005.Preliminarmente occorre chiarire come l’accesso ai documenti amministrativi altro non è se non il diritto riconosciuto ai soggetti interessati di prendere visione o estrarre copia del contenuto di atti detenuti da una pubblica amministrazione.Tale diritto ha ottenuto una vera propria consacrazione negli artt. 22 e ss. della normativa citata.Tuttavia il riconoscimento dello stesso è sottoposto alla sussistenza di precisi presupposti quali:

  • l’esistenza in capo al titolare di un interesse concreto ed attuale alla conoscenza del documento per il quale si richiede l’accesso;
  • che il predetto documento sia detenuto da una pubblica amministrazione ed attenga ad un’attività di interesse pubblico;
  • che rispetto a tale documento non sussistano divieti espressamente previsti dall’art. 24 della legge 241/1990.
    Oltre al dato normativo deve aversi riguardo, anche, alla copiosa normativa ministeriale emanata sul punto.L’art. 1 del regolamento del Ministero del lavoro prevede e prescrive l’esclusione dall’accesso dei documenti “contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi”. Inoltre il successivo art. 3 aggiunge e precisa che i documenti relativi a notizie acquisite nel corso dell’attività ispettiva sono sottratti all’accesso finché perduri il rapporto di lavoro.
    E la medesima ratio è alla base delle prescrizioni contenute nel Codice di comportamento degli ispettori del lavoro laddove, espressamente, sancisce il categorico divieto per il personale ispettivo di rilasciare copia della dichiarazione al lavoratore dichiarante ed al soggetto ispezionato in sede di ispezione e sino alla conclusione degli accertamenti.La finalità perseguita dalle disposizioni citate è essenzialmente quella di riconoscere e garantire i lavoratore dichiarante da possibili attività discriminatorie e persecutorie da parte del datore di lavoro ispezionato.
    Rivolgendo la nostra attenzione al quadro giurisprudenziale non può non evidenziarsi l’esistenza sul punto di un atteggiamento alquanto deciso volto a sostenere come nel conflitto tra diritto di accesso e privacy la prevalenza deve essere indiscutibilmente riconosciuta alla segregazione delle dichiarazioni in quanto la tutela della riservatezza dei lavoratori viene vista come strumento idoneo ad evitare la fisiologica reticenza dei dipendenti a fornire utili informazioni agli organi di vigilanza. Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 736/2009, ha avuto modo di precisare che l’obiettivo primario deve essere quello di garantire tutela al soggetto debole rappresentato dal lavoratore dichiarante. Tale scelta, come precisa la pronuncia in esame, non comprometterebbe assolutamente le esigenze difensive del datore di lavoro garantite dalla documentazione che ogni lavoratore è tenuto a possedere, nonché dalla possibilità di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria. La sentenza del Tar Lazio n. 5671/2010 ha respinto il ricorso ex art. 25 della Legge n. 241/1990 Non si discosta dal più recente indirizzo giurisprudenziale la sentenza del Tar Lazio n. 5671 /2010 con la quale è stato respinto il ricorso ex art. 25 della Legge n. 241/1990 promosso da una avverso il provvedimento di diniego di accesso agli atti ispettivi, adottato da una DPL. L’Ufficio aveva trasmesso alla società il verbale di ispezione e diffida nel quale la stessa veniva diffidata per alcune asserite violazioni e richieste di pagamento in solido con la predetta ditta . Questa chiedeva l’accesso a tutti gli atti del procedimento amministrativo conclusosi con il menzionato verbale, evidenziando che la richiesta trovava ragione nel fatto che la stessa non era stata posta nelle condizioni di interloquire sin dall’inizio dell’accertamento ispettivo e nulla poteva sapere delle risultanze del verbale . La Dpl provvedeva a rigettare la predetta istanza e la società – ritenendo illegittimo il diniego di accesso – chiedeva al Tar l’annullamento del citato diniego.
    Si è detto come, riguardo all’esercizio del diritto di accesso, il ricorso al giudice amministrativo contro gli atti ispettivi in materia di lavoro sia in prevalenza originato dalla volontà del datore (evidentemente frustrata in sede procedimentale) di venire a conoscenza del contenuto di una o più richieste d’intervento indirizzate alle Direzioni provinciali del lavoro e agli enti previdenziali e/o delle dichiarazioni rilasciate dai propri dipendenti in occasione dell’accesso in azienda da parte degli organi ispettivi.Nel decidere sulla legittimità degli atti amministrativi di diniego dell’accesso, come si è visto, la giurisprudenza (tra cui quella sopra richiamata del T.A.R. Veneto) ha fatto preminente riferimento al conflitto tra trasparenza e riservatezza, in quanto quest’ultima risulta peraltro espressamente richiamata negli atti emanati dalle singole amministrazioni e menzionati al precedente paragrafo.L’immediato (e apparentemente scontato) rinvio ai sopra indicati principi confliggenti ha comportato che l’operazione di bilanciamento tra gli opposti interessi assorbisse ogni esame (antecedente da un punto di vista logico) sulla natura del diritto riconosciuto in capo al lavoratore . In altre parole, non ci si è sufficientemente interrogati sui reali confini del diritto di riservatezza quale bene da tutelare in opposizione alla richiesta di accesso agli atti proveniente dal datore di lavoro. Eppure, è di immediata intuizione come la risposta a tale questione condizioni in radice la soluzione del conflitto che insorge tra il privato datore di lavoro e la pubblica amministrazione in ordine alla possibilità di visionare ed estrarre copia degli atti relativi al procedimento ispettivo (ciò, beninteso, prescindendo dalla presenza di dati classificati come “sensibili” negli atti cui si chiede di accedere, e sulla quale si tornerà nel corso del presente scritto).Sul tema, a seguito di sviluppi giurisprudenziali recenti, è dato ormai rinvenire due orientamenti del tutto opposti.Un primo orientamento, che segue l’emanazione del d.P.R. 352/92 e conta numerose pronunce del Consiglio di Stato, non pone in dubbio il fatto che si possa individuare un vero e proprio diritto alla riservatezza in capo al lavoratore, tanto che le decisioni dei giudici, presupponendo tale dato (conformemente a quanto puntualizzato dalla detta produzione normativa secondaria), si soffermano piuttosto sulle conseguenze che ne discendono in termini di bilanciamento con il diritto di accesso. In particolare, tale filone giurisprudenziale (Cfr., tra le altre, C.d.S. sez.VI, 17 ottobre 2003, n.6341; C.d.S. sez.VI, 10 aprile 2003, n.1923; C.d.S. sez.VI, 3 maggio 2002, n.2366; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 23 febbraio 2001, n.198; T.A.R. Lazio, sez.III, 30 marzo 1999, n.810; T.A.R. Toscana 17 dicembre 1997, n.822; C.d.S. sez.VI, 4 luglio 1997, n.1066. Prima della sent. n.5/97 resa dal C.d.S. in Ad. Plen., si vedano, tra le altre, C.d.S. sez.IV, 19 novembre 1996, n.1604; T.A.R. Lombardia, Brescia, 4 maggio 1996, n.497, T.A.R. Campania, Napoli, sez.IV, 8 gennaio 1996, n.17; T.A.R. Veneto 28 dicembre 1995, n.1599; T.A.R. Lazio, Latina, 20 settembre 1995, n.666; T.A.R. Veneto, 24 giugno 1995 n.421 e 25 marzo 1995 n.456) si riporta espressamente alla nota sentenza dell’Adunanza plenaria n.5 del 1997, sebbene tale pronuncia non attenga strettamente alla materia del lavoro. Il caso pratico riguardava, infatti, un responsabile sanitario di una U.S.L. marchigiana, il quale aveva richiesto di accedere a tutte le lettere, note o segnalazioni pervenute alla Regione in merito al suo operato (e menzionate in due note successivamente inviate alla struttura sanitaria dalla stessa Regione): il diniego di accesso opposto al soggetto veniva motivato dall’esigenza di non deteriorare il rapporto medico—pazienti in seguito alla rivelazione dei nomi di coloro che, tra gli stessi pazienti (o loro familiari), avevano inoltrato alla Regione rimostranze relative ai comportamenti dell’istante.L’Adunanza Plenaria, aderendo in tutto alla ricostruzione del giudice di primo grado e della Sezione rimettente del C.d.S., imposta il discorso in termini di conflitto tra diritto di accesso e diritto alla riservatezza e — richiamando tra l’altro alcune precedenti sentenze del Consiglio di Stato in materia di lavoro — dà ragione al soggetto istante, inaugurando meritoriamente quell’incontrastata impostazione che riconosce la prevalenza del diritto di accesso sulla riservatezza ogniqualvolta sia in discussione la cura e tutela dei propri interessi giuridici (impostazione su cui si avrà modo di tornare nel corso del presente scritto).Nelle successive occasioni nelle quali si trova ad affrontare il suddetto contrasto in materia di lavoro, e dovendo pertanto esprimersi in merito a quanto previsto dall’art.2 del d.m. 757/94, il Consiglio di Stato, forte dell’impostazione avviata dall’Adunanza Plenaria, può spingersi ad affermare che “tale previsione regolamentare risulta in contrasto con la norma primaria di cui all’art.24 l. n.241/90 e, in particolare, con la previsione secondo cui il diritto di difesa prevale sulla riservatezza” (C.d.S. 10 aprile 2003 n.1923).E’ per questa via, e sulla base della considerazione che si verta in tema di diritti soggettivi, che il Consiglio di Stato disapplica sistematicamente la norma regolamentare da ritenersi in contrasto con la legge 241/90 nell’ambito del conflitto che insorge tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi ed il diritto alla riservatezza. Ed è a questo filone che si rifà anche T.A.R. Veneto, 18 gennaio 2006, n.301 (la prima delle tre pronunce emanate dal tribunale amministrativo nello scorso anno) quando afferma che “la preminenza del diritto di difesa sul diritto alla riservatezza, pertanto, impone di disapplicare le norme regolamentari confliggenti con il citato art.24, ma non anche di annullare le norme stesse perché ciò non appare strettamente necessario ai fini del soddisfacimento dell’interesse sottostante all’azione ex art.25”.
    In definitiva, questo primo orientamento giurisprudenziale, non ponendo in dubbio che il conflitto tra datore di lavoro e lavoratore sulla conoscibilità delle dichiarazioni e/o delle generalità di quest’ultimo rientri nell’alveo del bilanciamento tra trasparenza e riservatezza, riporta la risoluzione della questione (oltre che alla consueta disamina sulla “concretezza” e “personalità” dell’interesse fatto valere) al fatto che la richiesta di accesso agli atti sia finalizzata alla tutela di una posizione giuridicamente rilevante, stante l’assunto per cui “il diritto alla riservatezza è destinato a recedere tutte le volte in cui la conoscenza degli atti sia necessaria per l’esercizio del diritto di difesa”.
    Le pronunce emesse da diversi tribunali amministrativi di primo grado nell’ultimo quinquennio portano tuttavia all’attenzione un secondo orientamento, del tutto opposto a quello sinora analizzato .Una prima, timida apertura (T.A.R. Emilia Romagna 5 aprile 2001, n.299 riguarda un caso relativo ad una consistente omissione contributiva, contestata dall’I.N.P.S. al datore di lavoro in conseguenza delle dichiarazioni assunte da due lavoratrici: a fronte del diniego opposto all’istanza di accesso a tali dichiarazioni, il collegio giudicante si limita apoditticamente a ravvisare l’inesistenza di esigenze di salvaguardia della riservatezza, ordinando pertanto l’esibizione dei documenti richiesti. Nello stesso senso si pongono altre pronunce di poco successive, le quali, pur discostandosi dal primo dei due orientamenti, non sembrano coglierne coerentemente le conseguenze( il riferimento è in particolare all’orientamento sviluppatosi nelle menzionate sentenze del T.A.R. Basilicata, il quale, seppure molto critico verso il regolamento emanato dall’I.N.P.S. in attuazione dell’art.8 d.P.R. 352/92, così motiva in ordine al conflitto tra opposti interessi: “se il Regolamento tutela in via diretta l’interesse pubblico all’accertamento delle omissioni contributive e all’applicazione delle relative sanzioni, allora lo stesso diritto alla riservatezza finisce per atteggiarsi a puro interesse legittimo protetto indirettamente, cioè solo nell’ambito del contestuale soddisfacimento dell’interesse pubblico”).

E’ solo con la sentenza T.A.R. Veneto n.2760 del 14 maggio 2003, perciò, che la questione di cui si discute viene analizzata nei suoi aspetti fondamentali, conducendo ad una espressa censura dei giudici nei confronti del provvedimento I.N.P.S. n.1951/94, allegato A (punto II, n.12), relativo ai rapporti tra il diritto di accesso e la riservatezza: secondo i giudici, infatti, “evidente appare, nelle riportate disposizioni regolamentari intese a individuare i documenti sottratti all’accesso, una deviazione dalla finalità originaria dichiarata — mirante a proteggere un preteso diritto alla riservatezza dei lavoratori nei riguardi del diritto di accesso del datore di lavoro — verso l’esigenza di protezione del lavoratore medesimo da ritorsioni, repressioni, ecc., il che, palesemente, è cosa diversa dall’esigenza di riservatezza. Ciò mostra l’esistenza di una evidente disarmonia e incongruenza interna del regolamento, che già per questo merita di essere censurato”.
Il carattere di novità della decisione è ancor più manifesto se la si esamina nel suo complesso: pur facendo espresso riferimento alla giurisprudenza che riconosce la prevalenza del diritto alla cura dei propri interessi in capo al datore di lavoro — e che porterebbe comunque ad una pronuncia favorevole a quest’ultimo —, il collegio non si sottrae ad una valutazione sulla natura della situazione soggettiva individuabile in capo al lavoratore, confermando così l’antecedenza logica della risoluzione di tale quesito rispetto ad ogni eventuale rilievo sul conflitto tra diritto alla riservatezza e di accesso agli atti, e stabilendo inequivocabilmente, in punto di fatto, l’assenza di ogni profilo riguardante la riservatezza per quanto concerne le dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso del procedimento ispettivo.Tale ultimo assunto appare tutt’altro che discutibile ove si ponga mente alla (in parte già menzionata) connotazione che il bene “riservatezza” ha sin dall’inizio assunto nel nostro ordinamento: inserito nella categoria “aperta” dei diritti della personalità, il diritto alla riservatezza ha ad oggetto “la sfera di intimità della persona, che va salvaguardata dalla curiosità altrui, dall’indiscrezione con la quale altri indaghino e raccolgano notizie sulla vita privata, mettendone in pubblico aspetti che si vorrebbero coperti dal riserbo”.
All’interno del fisiologico progredire dell’istituto — che dall’iniziale diritto “ad essere lasciato solo” evolve sino a sancire in capo ad ognuno (come già visto) la possibilità di controllare i dati che lo riguardano; e che la stessa giurisprudenza riconosce e tutela anche “al di fuori del domicilio domestico” (Cass. civ., sez. III, 09 giugno 1998, n.5658) dopo un iniziale riferimento alle sole “situazioni e vicende personali e familiari che si svolgono nell’ambito del proprio domicilio” (Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 1994, n.1652) —, va rimarcato come il bene “riservatezza” resti sempre circoscritto alla sfera più intima dell’individuo, come tale tutelabile in sé, cioè per la conoscenza che delle notizie ad essa pertinenti altri abbiano e non per le eventuali (successive) conseguenze che il carpire tali informazioni possa comportare.
Se è così, è evidente quale sia la maggiore contestazione che l’orientamento più recente muove all’altro: “in realtà, la conoscenza delle dichiarazioni rese dai lavoratori agli ispettori (…) non è idonea di per sé a ledere direttamente gli interessi professionali dei lavoratori o la loro ‘privacy’, come normalmente accade con l’ostensione di quei dati che attengono effettivamente alla sfera di riservatezza: piuttosto, la cognizione delle dichiarazioni dei lavoratori, in relazione alla loro condizione di parte debole del rapporto di lavoro, può agevolare comportamenti illeciti degli imprenditori, come ad esempio intimidazioni o licenziamenti…” (T.A.R. Piemonte, 24 giugno 2005, n.2654) .
Inglobare al bene “riservatezza” la serie di effetti che potrebbero discendere in ambito lavorativo dalla conoscenza del procedimento ispettivo (cioè ritorsioni, pressioni, intimidazioni, pregiudizi, azioni discriminatorie, etc., realizzate dal datore di lavoro in danno del lavoratore), rende palese come di alcun aspetto di riservatezza si stia realmente parlando: la lesione di tale bene, infatti, si realizza con l’ingiustificata intrusione nella sfera personale dell’individuo, al di là di ogni successiva conseguenza, di ogni pubblicazione o divulgazione di informazioni o dati illecitamente acquisiti , di ogni ritorsione o pressione che verrà (ed è una mera eventualità) posta in essere ai danni dell’individuo.
Ciò che viene efficacemente chiarito dall’ultima delle tre sentenze che qui si commentano, a fronte delle pretese esigenze di riservatezza richiamate dall’amministrazione resistente in giudizio: “riservatezza (…) mal invocata, in quanto la ratio del divieto ivi contenuto non era tanto di salvaguardare la privacy dei lavoratori, quanto di non esporli a ‘ritorsioni’ da parte del datore di lavoro” (T.A.R. Veneto 19 giugno 2006, n.1801). D’altronde, ad asserire il contrario si rischia di incorrere in evidenti complicazioni logico-giuridiche: è il caso della menzionata pronuncia del C.d.S., 3 maggio 2002, n.2366 (riconducibile al primo dei due orientamenti sopra esposti), che, nell’affermare la sussistenza di esigenze di riservatezza prese in considerazione dall’art.2 d.m. 757/94, si pone “la questione interpretativa se i documenti acquisiti nel corso delle attività ispettive siano sottratti senz’altro all’accesso, ovvero solo quando, in concreto, dalla loro divulgazione possono derivare azioni discriminatorie, indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi.
In definitiva, l’orientamento ora analizzato si contrappone al primo nel ritenere, a fronte di una richiesta di accesso avanzata dal datore di lavoro per la conoscenza degli atti del procedimento ispettivo, l’inopponibilità di motivi di riservatezza e, di conseguenza, l’impossibilità di pervenire ad alcuna operazione di bilanciamento tra opposti diritti. “Quanto al bilanciamento degli interessi in gioco, va sottolineato come la ponderazione non attenga tanto all’effetto tra diritti della difesa e tutela della riservatezza della fonte di informazione — che può avere rilevanza piuttosto in corso d’ispezione anziché all’esito della medesima —, quanto invece tra il primo interesse e quello alla tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori (art.2087 c.c.). I quali, infatti, per il loro atteggiamento potrebbero venire verosimilmente assoggettati ad azioni discriminatorie e indebite pressioni. Fermo restando il conseguente interrogativo, di cui si darà conto più avanti nel presente scritto, se la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori trovi la sua sede naturale in ambito processuale piuttosto che in quello procedimentale.
D’altronde, come si avrà modo di vedere relativamente alle implicazioni che discendono da tale (più recente) filone giurisprudenziale, l’adesione allo stesso non è certo limitato a mere derivazioni teoriche, bensì comporta due rilevanti conseguenze, l’una di ordine sostanziale e l’altra di ordine formale.

 

 

La difesa del lavoratore e latutela degli interessi giuridici del datore di lavoro

La maggiore critica cui è sottoposta la posizione giurisprudenziale che disconosce la sussistenza di esigenze di riservatezza in capo ai lavoratori — nell’ambito del tema in discorso — tocca la stessa “ratio” giustificatrice della disciplina di normazione secondaria, individuata nell’efficace tutela del lavoratore da ogni tipo di “rappresaglia” datoriale conseguente alla conoscenza del contenuto di denunce o dichiarazioni fornite dallo stesso in sede di ispezione.L’adesione al predetto orientamento, si afferma, comporterebbe la completa rinuncia a quella tutela, mentre solo dall’accoglimento della tesi opposta conseguirebbe che le esigenze di riservatezza — fatto in ogni caso salvo il diritto alla difesa da parte del datore di lavoro — possano essere dichiarate prevalenti rispetto ad ogni pretesa, preservando in tal modo il lavoratore da ogni indebito pregiudizio.
Con la sola eccezione riguardante i lavoratori non più in forze presso l’impresa o la società sottoposta a procedimento ispettivo; e con l’ulteriore corollario che, ove la richiesta di accesso agli atti di tale procedimento veda ancora in forze il lavoratore presso il datore di lavoro, il diniego non possa comunque essere opposto oltre la successiva risoluzione del rapporto (ciò che è testualmente stabilito dagli stessi atti di normazione secondaria ministeriale e degli enti previdenziali, salva la previsione espressa di un termine massimo di “inaccessibilità” per taluni atti) .
In giurisprudenza, si veda in particolare la già menzionata C.d.S. sez.VI, 17 ottobre 2003, n.6341: ’Dalla disciplina sopra ricordata dipende pertanto che, con riferimento ai documenti acquisiti nel caso di attività ispettiva (art.2, comma 1, lett. c, del D.M. n.757 del 1994) la sottrazione all’accesso, opponibile quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni a carico dei lavoratori, viene in ogni caso meno con la conclusione del rapporto di lavoro (art.3, comma 1, lett.c); e che alla medesima conclusione deve pervenirsi anche nel caso delle richieste di intervento dell’Ispettorato del lavoro (art.2, comma 1, lett.b) provenienti da un lavoratore o aventi per oggetto il rapporto di lavoro, dal momento che l’art.3, comma 1, lett.b, del regolamento adottato con D.M. n.757 del 1994, dopo aver fissato in via generale un periodo di sottrazione all’accesso di cinque anni, precisa che tale sottrazione dura ‘finché perduri il rapporto di lavoro, quando la richiesta di intervento dell’Ispettorato del lavoro riguardi il rapporto di lavoro o provenga dal lavoratore’.
Ciò al fine di dichiarare l’illegittimità del diniego di accesso opposto al datore di lavoro nonostante l’acclarata cessazione del rapporto con la collaboratrice la cui posizione era venuta all’esame del Collegio nel caso concreto.
E’ evidente come tale riflessione sia da ricondursi alla “ratio” già esposta, consistente nello scongiurare ogni tipo di ritorsione nei confronti del lavoratore per tutto il tempo in cui perduri il rapporto di lavoro. La questione, per la sua evidenza, è stata affrontata da subito anche dall’opposto orientamento: tacendo del fatto che le norme di secondo grado più volte richiamate siano realmente idonee a scongiurare eventuali ritorsioni del datore di lavoro (una cosa è, infatti, la conoscibilità del contenuto di denunce o dichiarazioni dei dipendenti, altra è la conoscenza dell’identità degli stessi : “D’altra parte, anche se fossero ipotizzabili ritorsioni di sorta, è logico pensare che queste potrebbero essere messe in atto indipendentemente dalla conoscenza delle dichiarazioni rilasciate dalle lavoratrici, tenuto conto che l’identità di costoro, menzionate nominativamente negli atti di verbalizzazione notificati, è conosciuta dal rappresentante della società” (T.A.R. Emilia Romagna, 5/4/2001 n.299); ancor più incisivo T.A.R. Veneto 14/5/2003 n.2760: “… avendo già quei determinati lavoratori reso dichiarazioni tali da avere indotto gli organi ispettivi a muovere addebiti al datore di lavoro, ed essendo, perciò, noti i loro nomi e la sostanza bruta delle loro dichiarazioni (non fosse altro dalle risultanze del verbale ispettivo), non si vede che senso abbia dire che occorre tenere riservate le loro dichiarazioni”.
Meno “forte”, a parere di chi scrive, l’osservazione del T.A.R. Emilia Romagna (ripresa anche da sentenze successive) secondo cui l’insistenza del datore nel voler acquisire le dichiarazioni avrebbe un carattere indiziante tale da costituire una “presunzione di discriminazione” ove si accertino comportamenti lesivi posti successivamente in essere nei confronti dei lavoratori.), i giudici hanno osservato come i lavoratori abbiano la possibilità di azionare gli specifici strumenti di garanzia riconosciuti tanto dalla normativa lavoristica quanto dai contratti collettivi di categoria.Si giunge, così, alla conseguenza di ordine sostanziale poco sopra preannunciata in relazione all’adesione al più recente orientamento, in forza della quale la tutela dei dipendenti diviene azionabile in un eventuale processo e non nell’ambito del procedimento ispettivo. Un rapido excursus sulla giurisprudenza dell’ultimo trentennio in tema di atteggiamenti ritorsivi posti in essere dal datore nei confronti dei propri dipendenti mostra l’ampiezza della protezione riconosciuta dal giudice del lavoro: dal licenziamento (Cass. civ., sez. lavoro 10 novembre 2004 n.21378; Cass. civ., sez. lavoro, 25 maggio 2004, n.10047; Cass. civ., sez. lavoro, 06 maggio 1999, n.4543; Pret.Napoli 4 gennaio 1999; Cass. civ., sez. lavoro, 03 maggio 1997, n.3837; Trib. Roma, 19 ottobre 1995; Cass. civ., 04 luglio 1984, n.3916; Cass. civ., 14 febbraio 1983, n.1114) (che rappresenta, per così dire, l’estrema “rappresaglia” ai danni del lavoratore, in quanto comporta il suo allontanamento dalla realtà aziendale) e dall’assegnazione discriminatoria di incarichi e mansioni , la sindacabilità giudiziale sulle iniziative datoriali si è estesa alle valutazioni che riguardano le note di qualifica (Cass., sez. lavoro, 08 agosto 2000 n.10450; Cass., sez. lavoro, 27 febbraio 1995 n.2252; Cass., sez. lavoro, 14 dicembre 1990 n.11891; Cass., sez. lavoro, 23 gennaio 1988 n.560 ), il demansionamento e, più di recente, il “mobbing” .
Se è vero che, conformemente ai principi generali sull’onere della prova, la dimostrazione del carattere ritorsivo di tali iniziative ricade sul lavoratore, ciò non rende preferibile l’opposta conclusione in favore di una “prevenzione” di qualunque azione discriminatoria a danno dello stesso attuata tramite la menzione di pretese esigenze di riservatezza da parte dell’amministrazione:

  • in primo luogo in quanto, come si è detto, appare eccessivo apprestare uno strumento di sistematica frustrazione delle istanze datoriali in funzione di contrasto di fenomeni ritorsivi che (lo si ripete) appaiono come una mera eventualità ( E’ curioso notare come proprio la sentenza n.5/97 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel riconoscere il diritto dell’istante ad ottenere la visione delle lettere, note e segnalazioni delle quali richiede l’accesso, evidenzi l’infondatezza dei timori di parte avversa sulle “possibili ritorsioni”. Parte della dottrina, del resto, ha visto in tale sentenza una riaffermazione del principio di trasparenza in uno dei momenti di più evidente “conflittualità” con il valore della riservatezza, scaturito dall’entrata in vigore della menzionata l.675/96: “per molti soggetti pubblici, in verità, l’avvento della l. n.675 ha rappresentato l’occasione per chiudersi nuovamente in se stessi e per confermare atteggiamenti, del passato, di sostanziale elusione del diritto di accesso, trincerandosi dietro a quella che potrebbe essere definita come una nuova forma di segreto, cioè la tutela della privacy”;
  • in secondo luogo per il fatto che nel processo del lavoro, che ”trova la sua ragion d’essere proprio nella tutela dei diritti del lavoratore subordinato, considerato la parte debole dei contratti individuali di lavoro”, occorre in ogni caso “assicurare la ‘parità delle armi’, garantendo un efficace contraddittorio anche al datore di lavoro, che, in mancanza di documenti come quelli richiesti, si troverebbe in difficoltà nel sostenere le proprie ragioni” (T.A.R. Veneto, 14 maggio 2003, n. 2760)

Tali motivazioni risultano del resto efficacemente condensate, con specifico riguardo ad atti propulsivi del procedimento ispettivo, in C.d.S. sez. V, 22 giugno 1998 n.923: “Nell’ordinamento delineato dalla l. 7 agosto 1990 n.241, ispirato ai principi della trasparenza, del diritto di difesa e della dialettica democratica, ogni soggetto di diritti deve poter conoscere con precisione i contenuti e gli autori di esposti o denunce che, fondatamente o meno, possano costituire le basi per l’avvio di un procedimento ispettivo o sanzionatorio, non potendo la p.a. procedente opporre all’interessato esigenze di riservatezza — foss’anche per coprire o difendere il denunciante da eventuali reazioni da parte del denunciato, le quali, comunque, non sfuggono al controllo dell’autorità giudiziaria —, atteso che, per un verso, la tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore estraneo alla legalità repubblicana e, per altro verso, l’eccessiva tempestività dell’accesso può tutt’al più giustificarne un breve differimento se ciò è opportuno per gli sviluppi dell’istruttoria”.
A fronte delle legittime richieste di accesso provenienti dal datore di lavoro, allora, il ripetuto diniego motivato in riferimento agli indicati atti di normazione secondaria asseconda il sospetto che ciò costituisca per l’amministrazione uno strumento per tutelare (oltre misura) il proprio operato piuttosto che la posizione del lavoratore.Se dunque non coglie nel segno la critica per la quale l’accoglimento del più recente orientamento giurisprudenziale costituirebbe una “sottrazione di tutela” a danno del prestatore di lavoro, nemmeno può ritenersi (come pure è stato detto) che il più volte menzionato intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato abbia comunque trovato soluzione alla problematica in esame, rendendo in qualche modo inutile la posizione assunta dall’orientamento giurisprudenziale più recente.In tal senso, si è affermato che, dopo un periodo iniziale in cui il conflitto tra diritto di accesso e privacy era stato caratterizzato da un’interpretazione estensiva del concetto di riservatezza , l’intervento del Supremo Consesso abbia “rimesso in equilibrio” tale rapporto, riaffermando con forza il principio di trasparenza dell’azione amministrativa e, attraverso di esso, il corretto bilanciamento degli opposti valori nell’ottica della cura e difesa degli interessi giuridici del richiedente (nei limiti in cui l’accesso sia necessario alla difesa dei medesimi) . La successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato ha inoltre chiarito che la formula “cura e difesa degli interessi giuridici” non è indirizzata esclusivamente alla tutela processuale del richiedente l’accesso, ma riguarda anche la tutela procedimentale: ove siano rispettati i limiti posti alle modalità di esercizio dell’accesso agli atti, spetta infatti al privato decidere dell’utilizzazione degli stessi.
In altre parole, è in astratto accoglibile non solo la richiesta di accesso che il datore di lavoro intenda finalizzare alla difesa dei propri interessi in giudizio, ma anche, ad esempio, ad un ricorso amministrativo (compreso il ricorso straordinario al Capo dello Stato, percorribile allorquando siano decorsi i termini per la proponibilità di rimedi ordinari), ad una denuncia penale o ad una richiesta di risarcimento dei danni subiti in forza di atti sanzionatori illegittimi.Tale tesi — seppure evidenzi il grande passo in avanti compiuto dall’Adunanza plenaria in termini di effettive garanzie di trasparenza amministrativa — non sposta i termini della questione come sopra enunciati: la “cura e tutela degli interessi giuridici” è principio che entra in gioco nell’ambito del bilanciamento tra contrapposti interessi (47), cioè del contrasto tra accesso e riservatezza. Laddove, come detto, si disconosca il ricorrere di esigenze relative alla privacy, la questione appare ab initio riferibile al solo diritto d’accesso Ciò che peraltro comporta immediate conseguenze sul piano pratico; basti pensare alle modalità di esercizio del diritto di accesso ex artt.22, comma primo, e 25, comma primo, l.241/90, il quale prevede che il medesimo diritto si esercita mediante “esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi”.
Nella giurisprudenza è prevalso un orientamento “mediano” (non esente da fondate critiche), secondo il quale il datore di lavoro avrebbe accesso in modo totale, ovvero con estrazione di copia dei documenti richiesti, nel caso di dichiarazione di dipendenti non più in forze (in quanto non soggetti a possibili ritorsioni), e nella forma della sola visione per quanto riguarda i dipendenti ancora in forze (tra le altre, T.A.R. Veneto, 27 aprile 2006 n.1130; C.d.S. sez VI, 17 ottobre 2003, n.6341, T.A.R. Veneto, 14 maggio 2003, n.2760). Da rilevare da ultimo l’impostazione offerta da T.A.R. Veneto, 19 giugno 2006, n.1801 (ma non accolta da altre recenti sentenze), in virtù delle recenti modifiche normative: “… la regola della prevalenza dell’accesso sulla ‘riservatezza’ è stata ribadita dalla novella di cui alla L.11.2.2005 n.15 e rafforzata (…) dall’abrogazione della disposizione che ammetteva l’accesso nella forma ‘attenuata’ della sola presa visione, avendo l’art.22, comma 1 lett.a) espressamente stabilito che — ora — il diritto di accesso si esercita mediante ‘visione ed estrazione di copia’ dei documenti”.)

 

 

Conclusioni

Il tema del contrasto tra la riservatezza dei lavoratori ed il diritto del datore di lavoro ad accedere agli atti del procedimento ispettivo è dunque sciolto da un primo orientamento giurisprudenziale in un’ottica di contemperamento nella quale — il più delle volte — è il “diritto di difesa” ad assumere valenza risolutoria.
A parere di una più recente giurisprudenza, invece, ogni riferimento alla privacy è da rifiutare, sia in virtù della definizione intrinseca di riservatezza (non estensibile agli interessi in gioco nel contrasto tra datore di lavoro e lavoratori) che delle garanzie di trasparenza amministrativa e di difesa ampiamente riconosciute nei procedimenti a carattere sanzionatorio.Peraltro, a questo punto del discorso, va fatto un rapido cenno ad altre due situazioni relative al diniego di accesso alla documentazione attinente ai rapporti di lavoro.
La prima riguarda gli atti non accessibili ai sensi dell’art.329 c.p.p. (e contemplati anche dalla legge sul procedimento amministrativo in tema di esclusione dal diritto di accesso, alla lett.a dell’art.24 comma primo) : in sede di accesso ispettivo compiuto dal personale del Ministero del lavoro, l’accertamento di una o più violazioni di norme penali a carico del datore di lavoro — anche se conseguente a dichiarazioni dei lavoratori, o a richieste d’intervento dagli stessi provenienti — comporta che da quel momento il predetto personale agisca nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, e che gli atti conseguenti siano compiuti in tale veste.
Il problema è stato peraltro espressamente affrontato in una delle tre sentenze del T.A.R. Veneto sopra citate, la n.1130 del 27 aprile 2006, in tema di somministrazione illecita di manodopera ex art.18 d.lgs.276/03: ribadendo la generale prevalenza del diritto di difesa del datore di lavoro rispetto alle confliggenti esigenze di riservatezza dei dipendenti (così aderendo al primo dei menzionati orientamenti giurisprudenziali), il tribunale amministrativo ha tuttavia escluso nel caso concreto l’accessibilità agli atti richiesti in quanto “soggetti al segreto istruttorio in sede penale, disciplinato dall’art.329 c.p.p., a tenore del quale ‘gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
La causa di esclusione dell’accesso come sopra evidenziata non rientra nell’argomento di cui alla presente indagine: in tal caso, infatti, si è nell’ambito degli atti coperti da segreto (come reso palese dal rinvio all’art.329 c.p.p.) e non di quelli attinenti al bene della riservatezza.La seconda situazione cui si faceva riferimento più sopra riguarda il diniego alle richieste di accesso ad atti contenenti le informazioni di cui all’art.60 d.lgs.196 del 2003 , ovvero quei dati sensibili relativi alla salute ed alla vita sessuale dell’individuo già presi in considerazione dal legislatore negli artt.43 della l.675/96 e 16 del d.lgs.135/99: la norma del codice sulla privacy valorizza una risoluzione del contrasto riferita necessariamente al caso concreto, dovendo l’interprete valutare il rango degli interessi sottesi al diritto di accesso.
In tema di rapporti di lavoro, il suddetto contrasto viene sovente in rilievo nel caso di richiesta del datore di lavoro di accedere alle cartelle cliniche dei lavoratori detenute dall’Inail, in particolare nell’ambito di controversie che hanno ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni derivanti da infortunio o malattia professionale (sia da parte dello stesso ente previdenziale, in forza del diritto di regresso per le somme corrisposte in relazione all’evento accertato e per il quale il datore di lavoro risulti responsabile, sia da parte del lavoratore, per i danni subiti che non siano indennizzabili dall’Istituto assicuratore).Tuttavia, anche tali situazioni non attengono al tema del presente scritto, giacché, pur avendo ad oggetto un diritto alla riservatezza, quest’ultimo non viene in rilievo nell’ambito dei procedimenti ispettivi.
Tornando dunque all’oggetto dell’indagine così come in precedenza delimitato — e con esclusione di quelle situazioni le quali, come appena visto, non riguardano il contrasto tra esigenze di trasparenza e di riservatezza che venga in essere nell’ambito delle ispezioni in materia di lavoro —, possono ora trarsi le conclusioni sulla conformità della produzione regolamentare ministeriale e degli enti previdenziali ai principi di legge ed alle pronunce giurisprudenziali in materia. Sia l’art.2, comma primo, lett.c) del d.m.757/94 che il n.12 dell’allegato A (punto II) al provv.1951/94 I.N.P.S., come si è ampiamente detto, affermano la sussistenza di esigenze di salvaguardia della vita privata e della riservatezza ove, dalla divulgazione di dichiarazioni e notizie acquisite a seguito di attività ispettive (divulgazione evidentemente conseguente all’accoglimento di istanze d’accesso ai pertinenti atti), possano temersi pregiudizi in danno dei lavoratori. Bisogna da subito rilevare come, al contrario, la delibera n.5/2000 dell’I.N.A.I.L., pur affermando la riservatezza degli accertamenti ispettivi in riferimento agli interessi già individuati dalla l.241/90 e dal d.P.R. 352/92, non faccia menzione alcuna ad eventi successivi che incidano sul rapporto tra il datore di lavoro ed i lavoratori che abbiano rilasciato dichiarazioni: in tal modo, la richiesta di accesso avanzata dal datore presso l’Istituto assicuratore potrà essere motivatamente rigettata in riferimento ai concreti interessi — rigorosamente da indicarsi nell’atto di diniego — che siano ritenuti ostativi ad una piena conoscenza della documentazione alla base dell’esito del procedimento ispettivo.
In forza di tale premessa, si può quindi ritornare alla rilevante conseguenza di ordine formale cui si è fatto riferimento in precedenza: conseguenza che, in ragione del più recente orientamento giurisprudenziale, spiega i suoi effetti sulla produzione normativa di secondo grado originata dalla previsione di cui all’art.8 del d.P.R. 352/92.Se è vero che numerose pronunce dei giudici si sono limitate a disapplicare i provvedimenti ministeriali e degli enti previdenziali nella parte in cui oppongono al diritto d’accesso del datore di lavoro una pretesa esigenza di riservatezza a salvaguardia dei lavoratori (in base all’affermazione per cui l’annullamento “non appare strettamente necessario ai fini del soddisfacimento dell’interesse sottostante all’azione” e nell’eventualità affermata dalla già vista sentenza n.5/97 resa dal C.d.S. in Adunanza Plenaria), ben altre conseguenze, invece, dovrebbero scaturire a livello normativo e regolamentare dalla piena adesione all’orientamento più recente: quanto da esso affermato, difatti, chiarisce come — nel caso del d.m. 757/94 Min. Lav. e della delibera I.N.P.S. n.1951/94 — la “delega” governativa ad emanare norme atte alla tutela della riservatezza sia stata sostanzialmente aggirata, essendo basata sull’esclusiva finalità di “difesa preventiva” da rappresaglie datoriali che (pur riconducibile all’auspicabile salvaguardia della parte debole del rapporto lavorativo) nulla ha a che fare con la stessa riservatezza.Come si è visto, l’art.24 comma sesto della l.241/90 (così come modificato dalla l.15 del 2005) prevede l’emanazione di un nuovo regolamento governativo atto ad individuare le categorie di atti escluse dall’accesso. E’ in tale sede, o (se il Governo riterrà di operare come già fatto con l’art.8 d.P.R. 352/92) all’atto della successiva indicazione data dalle singole pubbliche amministrazioni, che la questione potrà trovare una definitiva risoluzione, evitando, in tal modo, una nuova serie di pronunce “disapplicative” della normativa regolamentare o (peggio) espresse censure di illegittimità da parte di quei tribunali amministrativi che ritengano di uniformarsi al secondo degli orientamenti sopra citati.Quanto alla normativa di secondo grado attualmente in vigore — ed in ordine all’ampiezza della tutela apprestata in favore dei lavoratori —, va infine ricordato che nello stesso art.2 del d.m.757/94, alla lett.g), è prevista la sottrazione all’accesso di quegli atti “riguardanti il lavoratore e contenenti notizie sulla sua situazione familiare, sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale o di altra natura, sempreché dalla loro conoscenza possa derivare effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza”: il corretto riferimento ad una lesione “effettiva” della privacy — espressamente definita, peraltro, in relazione a quelle situazioni “personali” individuate dall’art. 24 l. 241/90 sin dalla sua versione originaria —, potrebbe condurre all’applicabilità di tale norma regolamentare anche nel caso di richieste di accesso agli atti concernenti procedimenti ispettivi, in vece della diversa previsione di cui alla lett.c).
Ove ciò avvenga, l’inaccessibilità a documenti amministrativi, a parti di esso o a dati documentali, scaturirà dal richiamo ad esigenze di riservatezza effettive (cioè non condizionate da valutazioni ad essa estranee), o, al più, dall’irrilevanza della conoscibilità di determinati dati ai fini della cura degli interessi giuridici del datore di lavoro (ciò che potrebbe comportare, ad esempio, l’accesso al contenuto di una dichiarazione fatta dal lavoratore in sede di accesso ispettivo previa “copertura” delle generalità dello stesso, non necessarie al datore di lavoro per dimostrare l’insussistenza degli addebiti a lui mossi).
La nuova portata delle disposizione normativa in questione alla luce della giurisprudenza amministrativa riveste un’importanza centrale nei delicati rapporti tra ditte ispezionate, organi di vigilanza e lavoratori.Gli atti ispettivi, redatti dagli organi di vigilanza, se, da un lato, costituiscono importanti elementi istruttori per gli stessi organi, dall’altro, potrebbero consentire alle ditte ispezionate una difesa giudiziale più incisiva ed efficace.Il punto di partenza, per un corretto inquadramento dell’argomento, è costituito dalla normativa di riferimento e rappresentata dalla legge 241/1990, così come modificata dalla successiva legge 15/2005.
Preliminarmente occorre chiarire come l’accesso ai documenti amministrativi altro non è se non il diritto riconosciuto ai soggetti interessati di prendere visione o estrarre copia del contenuto di atti detenuti da una pubblica amministrazione. Tale diritto ha ottenuto una vera propria consacrazione negli artt. 22 e ss. della normativa citata. Tuttavia il riconoscimento dello stesso è sottoposto alla sussistenza di precisi presupposti quali:
à l’esistenza in capo al titolare di un interesse concreto ed attuale alla conoscenza del documento per il quale si richiede l’accesso;

  1. che il predetto documento sia detenuto da una pubblica amministrazione ed attenga ad un’attività di interesse pubblico;
  2. che rispetto a tale documento non sussistano divieti espressamente previsti dall’art. 24 della legge 241/1990.
    Oltre al dato normativo deve aversi riguardo, anche, alla copiosa normativa ministeriale emanata sul punto. L’art. 1 del regolamento del Ministero del lavoro prevede e prescrive l’esclusione dall’accesso dei documenti “contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi”. Inoltre il successivo art. 3 aggiunge e precisa che i documenti relativi a notizie acquisite nel corso dell’attività ispettiva sono sottratti all’accesso finché perduri il rapporto di lavoro. E la medesima ratio è alla base delle prescrizioni contenute nel Codice di comportamento degli ispettori del lavoro laddove, espressamente, sancisce il categorico divieto per il personale ispettivo di rilasciare copia della dichiarazione al lavoratore dichiarante ed al soggetto ispezionato in sede di ispezione e sino alla conclusione degli accertamenti. La finalità perseguita dalle disposizioni citate è essenzialmente quella di riconoscere e garantire i lavoratore dichiarante da possibili attività discriminatorie e persecutorie da parte del datore di lavoro ispezionato.

Rivolgendo la nostra attenzione al quadro giurisprudenziale non può non evidenziarsi l’esistenza sul punto di un atteggiamento alquanto deciso volto a sostenere come nel conflitto tra diritto di accesso e privacy la prevalenza deve essere indiscutibilmente riconosciuta alla segregazione delle dichiarazioni in quanto la tutela della riservatezza dei lavoratori viene vista come strumento idoneo ad evitare la fisiologica reticenza dei dipendenti a fornire utili informazioni agli organi di vigilanza.
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 736/2009, ha avuto modo di precisare che l’obiettivo primario deve essere quello di garantire tutela al soggetto debole rappresentato dal lavoratore dichiarante.Tale scelta, come precisa la pronuncia in esame, non comprometterebbe assolutamente le esigenze difensive del datore di lavoro garantite dalla documentazione che ogni lavoratore è tenuto a possedere, nonché dalla possibilità di ottenere accertamenti istruttori in sede giudiziaria.
La sentenza del Tar Lazio n. 5671/2010 ha respinto il ricorso ex art. 25 della Legge n. 241/1990 non si discosta dal più recente indirizzo giurisprudenziale la sentenza del Tar Lazio n. 5671 /2010 con la quale è stato respinto il ricorso ex art. 25 della Legge n. 241/1990 promosso da una avverso il provvedimento di diniego di accesso agli atti ispettivi, adottato da una DPL. L’Ufficio aveva trasmesso alla società il verbale di ispezione e diffida nel quale la stessa veniva diffidata per alcune asserite violazioni e richieste di pagamento in solido con la predetta ditta . Questa chiedeva l’accesso a tutti gli atti del procedimento amministrativo conclusosi con il menzionato verbale, evidenziando che la richiesta trovava ragione nel fatto che la stessa non era stata posta nelle condizioni di interloquire sin dall’inizio dell’accertamento ispettivo e nulla poteva sapere delle risultanze del verbale . La Dpl provvedeva a rigettare la predetta istanza e la società – ritenendo illegittimo il diniego di accesso – chiedeva al Tar l’annullamento del citato diniego.

 

 

Il quadro normativo

L’art. 24 della legge 7.8.1990, n. 241 prevede, al sesto comma, le ipotesi in cui il diritto di accesso può essere escluso in via regolamentare e, tra queste, quella di cui al punto d) “quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”.
La ratio della disposizione è quella di coniugare un bilanciamento tra gli interessi del richiedente l’accesso e quello dei soggetti “individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza” di cui all’art. 22, comma 1, lett. c), della stessa legge .
In attuazione delle predette previsioni, è stato adottato il D.M. 4.11.1994, n. 757, contenente il regolamento concernente le categorie di documenti formati o stabilmente detenuti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale sottratti al diritto d’accesso, tra i quali, sono espressamente indicati all’art. 2, comma 1, lett. b) i “documenti contenenti le richieste di intervento dell’Ispettorato del lavoro” ed alla lett. c) i “documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi”.

Alla luce del richiamato quadro normativo, la giurisprudenza (cfr. CdS, VI, 27.1.1999, n. 65; id., 19.11.1996, n. 1604) ha più volte affermato l’esclusione dal diritto di accesso della documentazione acquisita dagli ispettori del lavoro nell’ambito dell’attività di controllo dagli stessi esercitata.E’ pur vero che, “in generale”, le necessità difensive, riconducibili al principi di tutela fissati dall’art. 24 della Costituzione, sono state ritenute prevalenti dallo stesso Legislatore in linea con quell’orientamento espresso dalla giurisprudenza richiamata dalla ricorrente ( tra le tante, CdS, AP. 4.2.1997, n. 5), rispetto a quelle della riservatezza, il quale ha previsto al comma 7 del citato art. 24 della legge n. 241/1990 (come sostituito da ultimo dall’art. 16 della legge 11.2.2005, n. 15), che “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ anche vero, però, che al successivo periodo dello stesso comma si precisa che “Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile”.In altri termini, il Legislatore ha specificato con molta chiarezza come non bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile” la conoscenza di documenti, contenenti “dati sensibili e giudiziari”.In materia di accesso agli atti del procedimento ispettivo, come precisato nella menzionata decisione (CdS, VI, n. 736/2009), non può dirsi sussistente “una generalizzata soccombenza dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa delle società o imprese sottoposte ad ispezione: il primo di tali interessi, infatti, non potrebbe non essere compromesso dalla comprensibile reticenza di lavoratori, cui non si accordasse la tutela di cui si discute, mentre il secondo risulta comunque garantito dall’obbligo di motivazione per eventuali contestazioni”.
Nel caso di specie, sono stati chiesti tutti gli atti del procedimento ispettivo, che notoriamente contengono anche dichiarazioni dei lavoratori, ai quali non potrebbe essere garantito l’anonimato, senza fornire chiare indicazioni circa le ragioni per le quali si chiedeva l’accesso a “tutti” gli atti del procedimento e le” indispensabili” esigenze per le quali la richiesta acquisizione era stata così estesa, essendosi limitata la ricorrente a richiamare generiche esigenze difensive per non avere potuto partecipare al procedimento accertativo, ma senza tenere conto dell’ampia ed articolata motivazione contenuta nel verbale ispettivo del 27.1.2009.
A tale stregua, risultando il predetto diniego immune dalle dedotte censure, in quanto conforme ai richiamati parametri normativi ed in particolare al regolamento di cui al D.M. n. 757/1994 ed adeguatamente motivato, il ricorso è stato conseguentemente respinto in ordine a tutte le domande proposte dalla società ricorrente.