Maternità – Tutele e diritti

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Questa voce è stata curata da Barbara Fezzi e aggiornata da Alexander Bell

 

 

Scheda sintetica

La legge tutela la lavoratrice madre nelle diverse fasi della gravidanza e nei primi anni di vita del bambino.

Innanzitutto viene tutelata la salute della lavoratrice, vietando che la stessa venga adibita a lavori ritenuti pericolosi, dall’inizio della gravidanza e fino al settimo mese di età del figlio, nonché a lavori notturni (dalle 24 alle 6).

La legge prevede poi l’obbligo di astensione dal lavoro per la lavoratrice da due mesi prima la data presunta del parto, sino a tre mesi dopo (è però prevista la possibilità di astenersi in un momento antecedente i due mesi precedenti la data presunta del parto – in determinate condizioni di salute della lavoratrice – oppure il mese precedente la data presunta del parto ed i quattro mesi successivi), con diritto all’80% della retribuzione (c.d. congedo di maternità).
In caso di morte o di grave infermità della madre, nonché in caso di abbandono o di affidamento esclusivo del bambino al padre, è invece il lavoratore padre ad avere la facoltà di assentarsi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice (c.d. congedo di paternità).
Con la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, è stato inoltre introdotto, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, un vero e proprio obbligo di astensione dal lavoro anche in capo al lavoratore padre, della durata di un giorno e da fruirsi entro 5 mesi dalla nascita del figlio. La legge 208/2015 (c.d. Legge di stabilità 2016) ha successivamente esteso l’applicazione di tale congedo obbligatorio anche all’anno 2016, prolungandone la relativa durata a due giorni.

A entrambi i genitori è poi riconosciuto il diritto di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino (c.d. congedi parentali).

La disciplina di tale diritto di astensione è stata profondamente modificata dal legislatore a giugno 2015, nell’ambito delle riforme introdotte con il c.d. Jobs Act.
In particolare, la disciplina pre-riforma prevedeva che i genitori lavoratori, nei primi otto anni di vita del figlio, potessero astenersi dall’attività lavorativa per un totale di 10 mesi, frazionati o continuativi (i mesi sono 11, se il padre si astiene almeno per 3 mesi).
Ciascun genitore poteva usufruire del congedo parentale per un massimo di 6 mesi (elevabili a 7, per il padre lavoratore che avesse esercitato il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi).

Per i primi 3 anni di vita del bambino, e per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6 mesi, nei periodi in cui godevano di questo congedo, le lavoratrici e i lavoratori avevano inoltre diritto a una indennità pari al 30% della retribuzione .

Con il decreto legislativo n. 80/2015, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act, entrato in vigore il 25 giugno 2015, il legislatore ha ridisegnato la suddetta normativa in materia di congedi parentali, introducendo una serie di modifiche dichiaratamente volte a estendere il diritto di astensione dal lavoro dei lavoratori genitori. In particolare, la riforma del 2015 ha stabilito:

  • l’estensione ai primi 12 anni di vita del bambino (anziché ai primi 8 anni) del periodo nel quale i genitori possono astenersi dal lavoro (rimane invece invariata la durata complessiva del periodo di congedo);
  • l’estensione ai primi 6 anni di vita del bambino (anziché ai primi 3 anni) del periodo nel quale i genitori, allorché si astengono dal lavoro fruendo del congedo parentale, hanno diritto all’indennità pari al 30% della retribuzione;
  • la possibilità per i genitori di scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria del congedo parentale (il congedo a ore era stato introdotto già con la legge di stabilità 2013, che ne aveva tuttavia subordinato l’applicabilità a previ accordi in sede di contrattazione collettiva);
  • la riduzione a 5 giorni (rispetto agli originari 15 giorni) del termine entro il quale il lavoratore deve preavvisare il datore di lavoro della volontà di fruire del congedo (in caso di congedo parentale su base oraria, il termine è ulteriormente ridotto a 2 giorni).
    Tutte queste modifiche, inizialmente previste in via sperimentale per il solo anno 2015, sono state successivamente rese definitive e strutturali dal d.lgs. 148/2015, entrato in vigore il 24 settembre 2015.

Un’ulteriore novità in materia di congedi parentali è stata introdotta dal decreto legislativo n. 81/2015 (in materia di disciplina organica dei contratti di lavoro), anch’esso attuativo del Jobs Act (legge delega n. 183/2014). Nello specifico, il decreto attribuisce ai lavoratori e alle lavoratrici la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time) , con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50%.

Risale invece alla riforma del mercato del lavoro del 2012 l’introduzione, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, della possibilità di concedere alla madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità e in alternativa alla fruizione del congedo parentale, la corresponsione di voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting ovvero per far fronte ai costi dei servizi pubblici o dei servizi privati accreditati per l’infanzia. La legge 208/2015 ha prorogato al 2016 l’applicazione di tale misura.

Nel corso della vita del figlio, i genitori lavoratori hanno poi diritto a riposi retribuiti e congedi non retribuiti per le malattie del figlio.

La legge, infine, garantisce la conservazione del posto di lavoro per la lavoratrice madre, o il lavoratore padre che abbia usufruito di congedi, attraverso il divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del figlio, l’obbligo di convalidare le dimissioni presentate in questo stesso periodo avanti la Direzione Provinciale del Lavoro, nonché il diritto a conservare il proprio posto di lavoro e a rientrare nella stessa unità produttiva cui era adibita precedentemente, con le stesse mansioni.
In caso di licenziamento intimato nel periodo di maternità, la legge prevede che il licenziamento debba considerarsi nullo e stabilisce:

  • l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
  • la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
  • il cd. diritto di opzione a favore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

 

 

Fonti normative

  • Decreto legislativo 151/2001 “Testo Unico disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”
  • Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
  • Decreto legislativo 23/2015, recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Decreto legislativo n. 80/2015, recante misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Decreto legislativo n. 81/2015, recante disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Decreto legislativo 148/2015, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)
  • Contratto Collettivo di Lavoro applicato

 

 

Cosa fare – Tempi

  • Per fruire del congedo di maternità: entro due mesi dalla data presunta del parto, la lavoratrice deve presentare al datore di lavoro e all’INPS la domanda di indennità di maternità (l’invio della domanda all’INPS deve avvenire esclusivamente per via telematica) nonché il certificato medico indicante la data presunta del parto;
  • Per fruire del periodo di astensione successiva al parto, la lavoratrice, entro 30 giorni dal parto, deve presentare al datore di lavoro e all’INPS il certificato di nascita del figlio o la dichiarazione sostitutiva;
  • Per fruire del periodo di astensione facoltativa, la lavoratrice madre deve darne comunicazione al datore di lavoro con un preavviso di almeno 5 giorni (il termine di preavviso è di 2 giorni in caso di congedo parentale su base oraria) e presentare la relativa domanda all’INPS, consegnandone copia al datore di lavoro;
  • Per fruire dei riposi giornalieri, la lavoratrice madre deve presentare la relativa domanda al datore di lavoro;
  • Per fruire dei congedi in caso di malattia del figlio, il medico del Servizio Sanitario Nazionale che ha in cura il figlio deve trasmettere per via telematica all’INPS la relativa certificazione medica; l’INPS, a sua volta, provvede a inoltrare detta certificazione al datore di lavoro;
  • In caso di licenziamento: rivolgersi immediatamente (e comunque entro 60 giorni) al sindacato o ad uno studio legale per l’impugnazione dello stesso.

 

 

A chi rivolgersi

  • Centro Donna del Sindacato
  • Istituto di Patronato (per la presentazione delle domande)
  • Ufficio vertenze sindacale
  • Studio legale esperto in diritto del lavoro

 

 

Documenti necessari

  • Copia del contratto
  • Corrispondenza con il datore di lavoro (lettera di licenziamento, dimissioni, richiesta permessi etc.)
  • Certificazione gravidanza
  • Ultima busta paga
  • Conteggi
  • Moduli predisposti dall’ente previdenziale (per es. Inps)
  • Contratto Collettivo di Lavoro applicato

 

 

Tutela della salute della lavoratrice

Durante la gravidanza (e fino ai sette mesi di età del figlio) la lavoratrice non può essere adibita al trasporto, al sollevamento di pesi nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri.
Nel periodo di divieto, la lavoratrice deve essere adibita ad altre mansioni, con mantenimento di retribuzione e qualifica. Quanto al compimento di mansioni superiori od equivalenti, si applica l’art. 13, Legge 300/1970.
Se la lavoratrice non può essere spostata ad altre mansioni, può essere disposta l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di gravidanza e fino al compimento dei sette mesi di età del figlio.
E’ vietato adibire le donne che allattano ad attività che comportino rischio di contaminazione.
La lavoratrice gestante ha diritto a permessi retribuiti per effettuare esami prenatali, accertamenti clinici o visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l’orario di lavoro (dietro presentazione della relativa documentazione giustificativa).
Queste tutele sono applicabili anche alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o affidamento, fino al loro compimento di sette mesi di età.

 

Congedo di maternità (cosiddetta “astensione obbligatoria”)

È vietato adibire al lavoro le lavoratrici nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi al parto.
Il divieto è anticipato a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli.

Può inoltre essere disposta l’interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza anche in un momento precedente nei seguenti casi:

  • nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;
  • quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
  • quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, non pregiudizievoli.

Ove il parto avvenga oltre la data presunta, l’astensione obbligatoria opera anche per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto, nonché durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta.
Il recente d.lgs. 80/2015 ha poi stabilito che, in caso di parto prematuro, i giorni non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche quando la somma dei periodi (prima e dopo il parto) supera il limite di 5 mesi. Tale disposizione, originariamente prevista in via sperimentale per il solo anno 2015, è stata infine resa definitiva dal d.lgs. 148/2015.

Con lo stesso decreto 80/2015 è stato altresì previsto che, in caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo post partum, riprendendo l’attività lavorativa e differendo la fruizione del congedo dalla data di dimissione del bambino.
Tale diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa.
Anche tale misura è stata resa strutturale dal d.lgs. 148/2015, e si applica anche in caso di adozioni e affidamenti.

In presenza di certificazione medica che attesti che la prosecuzione dell’attività lavorativa anche nel corso dell’8° mese di gravidanza non comporti pericoli per la salute della gestante e del nascituro, le lavoratrici possono posticipare la decorrenza del periodo di astensione obbligatoria, scegliendo di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto.
Prima dell’inizio del periodo relativo al congedo di maternità, le lavoratrici devono consegnare al datore di lavoro e all’istituto erogatore dell’indennità di maternità il certificato medico indicante la data presunta del parto.
Successivamente, la lavoratrice è tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato di nascita del figlio, ovvero la dichiarazione sostitutiva.

Per tutto il periodo del congedo per maternità, le lavoratrici hanno diritto ad una indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione.
Molti contratti collettivi pongono a carico del datore di lavoro il pagamento del restante 20%, così da assicurare alla lavoratrice l’intera retribuzione.

L’indennità di maternità è dovuta anche in caso di:

  • licenziamento per giusta causa della lavoratrice (questa ipotesi è stata introdotta dal d.lgs. 80/2015; tale decreto, peraltro, non ha fatto altro che rendere esplicito quanto già era stato disposto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 405 del 2001, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, del d.lgs. 151/2001, nella parte in cui escludeva la corresponsione dell’indennità di maternità in caso di licenziamento per giusta causa della lavoratrice)
  • cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta;
  • ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta;
  • risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

Le lavoratrici gestanti che si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero disoccupate, sono ammesse al godimento dell’indennità giornaliera di maternità purché tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni, per il calcolo dei quali non si tiene conto di:

  • assenze per malattia o infortunio sul lavoro;
  • congedi per precedente maternità;
  • periodi di mancata prestazione lavativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.

Qualora invece il periodo di congedo di maternità abbia inizio dopo che siano trascorsi sessanta giorni dalla risoluzione del rapporto di lavoro (o dalla sospensione):

  • se la lavoratrice si trova – all’inizio del congedo – disoccupata e con diritto al godimento dell’indennità di disoccupazione, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità, anziché all’indennità ordinaria di disoccupazione;
  • se la lavoratrice non è titolare di diritto al godimento di indennità di disoccupazione, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità purché al momento dell’inizio del congedo di maternità non siano trascorsi più di centottanta giorni dalla data di risoluzione del rapporto e, nel biennio che precede il suddetto periodo, risultino a suo favore, nell’assicurazione obbligatoria per le indennità di maternità, ventisei contributi settimanali;
  • se la lavoratrice si trova – all’inizio del congedo – sospesa e in godimento del trattamento di integrazione salariale a carico della Cassa integrazione Guadagni, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità, anziché al trattamento integrativo.


I periodi di congedo di maternità sono computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità e alle ferie.
Le ferie che spettano alla lavoratrice non devono essere godute contemporaneamente ai periodi di congedo per maternità.

La lavoratrice che abbia adottato un minore ha diritto all’astensione dal lavoro nei cinque mesi successivi all’ingresso del minore nella famiglia.
Nel caso di affidamento di minore, il congedo può essere fruito entro cinque mesi dall’affidamento, per un periodo di tre mesi.

La normativa relativa al congedo di maternità si applica alle lavoratrici dipendenti (comprese le lavoratrici a domicilio, le lavoratrici domestiche e quelle con contratto a tempo parziale) ed alle titolari di collaborazioni a progetto (per le quali, in caso di gravidanza, è prevista la proroga della durata del rapporto di lavoro per 180 giorni).

Godono di una indennità di maternità (erogata dall’Inps) anche le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole.
L’indennità è erogata per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi ed è pari all’80 per cento della retribuzione minima giornaliera prevista rispettivamente per gli impiegati e per gli operai agricoli a tempo indeterminato.

Alle libere professioniste, iscritte a una cassa di previdenza e assistenza, è corrisposta un’indennità di maternità (in misura pari all’80 per cento di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda) per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi.
L’indennità è corrisposta, indipendentemente dall’effettiva astensione dall’attività, dalla competente cassa di previdenza e assistenza, a seguito di apposita domanda presentata dall’interessata a partire dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di centottanta giorni dal parto.

Va infine segnalato che la riforma del 2012 ha introdotto, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, un periodo di astensione obbligatoria anche a favore del padre lavoratore dipendente, il quale, entro 5 mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno, con un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100 per cento della sua retribuzione.
La medesima riforma ha inoltre previsto, sempre in via sperimentale, che, nello stesso periodo, il padre lavoratore ha la facoltà di assentarsi dal lavoro per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. L’utilizzo delle ulteriori giornate di congedo facoltativo da parte del padre comporta la riduzione del congedo di maternità della madre per il medesimo numero di giorni, con conseguente anticipazione del termine finale dell’astensione post-partum.
Per il periodo di due giorni goduto in sostituzione della madre è riconosciuta un’indennità giornaliera a carico dell’INPS pari al 100 per cento della retribuzione.

La legge n. 208/2015 (c.d. Legge di stabilità 2016), da ultimo, ha prorogato per l’anno 2016 l’applicazione della disciplina di entrambi i congedi (obbligatorio e facoltativo) a favore del padre, aumentando a due giorni la durata del congedo obbligatorio.

 

Congedi parentali (cosiddetta “astensione facoltativa”)

Per congedo parentale si intende il diritto in capo a entrambi i genitori di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino.

Il diritto all’astensione facoltativa dal lavoro è riconosciuto, ai sensi dell’art. 32 del d.Lgs. 151/2001, ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti (esclusi quelli a domicilio o gli addetti ai servizi domestici) titolari di uno o più rapporti di lavoro in atto, nonché alle lavoratrici madri autonome, seppur per periodi inferiori.
Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto.

Le modalità e i tempi di fruizione dei congedi parentali sono stati ampiamente modificati da due recenti decreti legislativi (il n. 80 e il n. 81 del 2015), entrambi emanati per dare attuazione al c.d. Jobs Act.

Le nuove disposizioni, originariamente previste in via sperimentale per il solo anno 2015, sono state successivamente rese definitive e strutturali dal decreto legislativo n. 148/2015, entrato in vigore a settembre 2015.

A seguito delle novità introdotte dai decreti attuativi del Jobs Act, la legge ora prevede che i genitori lavoratori, nei primi 12 anni di vita del figlio (8 anni, nella disciplina pre-riforma), possono astenersi dall’attività lavorativa per un totale di 10 mesi, frazionati o continuativi; i mesi sono 11, se il padre si astiene almeno per 3 mesi.
Ciascun genitore può usufruire del congedo parentale per un massimo di 6 mesi, elevabili a 7, per il padre lavoratore che esercita il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi.
Nel caso di parto plurimo, il diritto al congedo parentale sussiste per ciascun bambino.

Il diritto all’astensione facoltativa è riconosciuto anche ai genitori adottivi e affidatari, che possono usufruire dei congedi parentali entro dodici anni dall’ingresso del minore in famiglia (art. 36 del d.lgs. 151/2001, così come modificato dal d.lgs. 80/2015).
Le lavoratrici autonome hanno invece diritto di fruire del congedo parentale per un massimo di tre mesi entro l’anno di vita del bambino.

La lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata (legge n. 104/1992 art. 4, comma 1) hanno diritto, entro il compimento del dodicesimo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo, comprensivo dei periodi di congedo parentale ordinario, non superiore a tre anni, o, in alternativa, nei primi tre anni di vita del minore, a un permesso giornaliero di due ore retribuite, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore (art. 33 del d.lgs. 151/2001, così come modificato dal d.lgs. 80/2015).
Per quanto riguarda la fruizione dei congedi parentali, il decreto 80/2015 ha introdotto la possibilità per i genitori di scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria (il congedo a ore era stato introdotto già con la legge di stabilità 2013, che ne aveva tuttavia subordinato l’applicabilità a previ accordi in sede di contrattazione collettiva).
La legge precisa che la fruizione su base oraria è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale.

Ai fini dell’esercizio del diritto al congedo parentale, i lavoratori devono:

  • preavvisare, salvo casi di oggettiva impossibilità, il datore di lavoro secondo le modalità previste dai rispettivi contratti collettivi e, comunque, con un periodo di preavviso non inferiore a 5 giorni (2, nel caso di congedo a ore);
  • presentare per via telematica la relativa domanda all’Inps precisando il periodo di assenza, e consegnarne copia al datore di lavoro.

Il genitore richiedente deve allegare alla domanda presentata all’Inps:

  • certificato di nascita (o dichiarazione sostitutiva) da cui risulti la paternità o la maternità (i genitori adottivi o affidatari sono tenuti a presentare il certificato di stato di famiglia che includa il nome del bambino e il provvedimento di affidamento o adozione);
  • dichiarazione non autenticata di responsabilità dell’altro genitore da cui risulti il periodo di congedo eventualmente fruito per lo stesso figlio (nella dichiarazione occorre indicare il proprio datore di lavoro o la condizione di non avente diritto al congedo);
  • analoga dichiarazione non autenticata di responsabilità del genitore richiedente relativa ai periodi di astensione eventualmente già fruiti per lo stesso figlio;
  • impegno di entrambi i genitori a comunicare le variazioni successive.

La malattia della lavoratrice madre o del lavoratore padre durante il periodo di congedo parentale interrompe il periodo stesso con conseguente slittamento della scadenza e fa maturare il trattamento economico relativo alle assenze per malattia. In tal caso, occorrerà inviare all’azienda il relativo certificato medico e comunicare esplicitamente la volontà di sospendere il congedo per la durata del periodo di malattia ed eventualmente spostarne l’utilizzo.

Il periodo di astensione facoltativa è computato nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alla tredicesima mensilità e alla gratifica natalizia.

Con la riforma del 2012, è stata inoltre introdotta, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, la possibilità per la madre lavoratrice di richiedere, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale, un contributo per il pagamento dei servizi di baby sitting che può essere erogato attraverso il sistema dei buoni lavoro.
La legge 208/2015 ha confermato tale misura anche per il 2016.

Ai lavoratori genitori è infine riconosciuta la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time) , con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50% (novità introdotta dal d.lgs. 81/2015).

 

Riposi e congedi

Riposi retribuiti della madre e del padre (cosiddetto “riposo per allattamento”)

Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore.
I periodi di riposo hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna a uscire dall’azienda.
I periodi di riposo sono di mezz’ora ciascuno se la lavoratrice fruisce dell’asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.

Gli stessi riposi spettano al padre lavoratore nei seguenti casi:

  • quando il figlio è affidato al solo padre;
  • in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
  • quando la madre non è lavoratrice dipendente;
  • in caso di morte o grave infermità della madre.

In passato, il padre non poteva fruire dei riposi retribuiti quando la moglie era casalinga in quanto si riteneva che il concetto di “madre lavoratrice non dipendente” facesse riferimento all’ipotesi di madre che svolgeva un’attività di lavoro autonomo (artigiana, commerciante, coltivatrice diretta, libera professionista etc.) e non alla madre in stato di disoccupazione.
Attualmente, l’orientamento maggiormente diffuso nella giurisprudenza amministrativa ritiene che il padre possa fruire dei riposi retribuiti anche nel caso in cui la madre sia casalinga (e quindi, più in generale, disoccupata), in quanto considera che tale caso sia ricompreso nella fattispecie della “madre non lavoratrice dipendente” (v. Consiglio di Stato n. 4293/2008; Cass. n. 20324/2005 e lettera Circolare INPS n. 118/09 sulla fattispecie di madre casalinga).
Alla luce di quanto detto, si ritiene che al padre lavoratore spetti il diritto ai riposi anche nel caso in cui la madre sia collocata in mobilità, trattandosi di una fattispecie assimilabile a quella della madre disoccupata o casalinga.

Il padre non ha diritto ai riposi giornalieri nel caso in cui:

  • la madre lavoratrice dipendente si trovi in astensione obbligatoria o facoltativa;
  • la madre non si avvalga dei riposi in quanto assente dal lavoro per sospensione (es. aspettativa o permessi non retribuiti) (v. Circolare ministeriale n. 8/2003);
  • la madre lavoratrice autonoma percepisca l’indennità per il congedo di maternità (v. Circolare ministeriale n. 8/2003).

 

 

Congedi non retribuiti per malattia del figlio

I congedi non retribuiti per malattia del figlio spettano:

  • fino al compimento dei tre anni del bambino: entrambi i genitori, alternativamente, hanno diritto di astenersi dal lavoro per periodi corrispondenti alle malattie del figlio;
  • per figli di età compresa tra i tre e gli otto anni: ciascun genitore, alternativamente, ha diritto di astenersi dal lavoro per cinque giorni lavorativi all’anno.

Per fruire dei congedi, il genitore deve presentare il certificato di malattia rilasciato da un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale nonché una dichiarazione attestante che l’altro genitore non sia in congedo negli stessi giorni per il medesimo motivo.
I periodi di congedo per la malattia del figlio sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità.
Il congedo per malattia del bambino spetta anche in caso di adozione e affidamento (con aumento del limite di età da tre a sei anni).

 

Lavoro notturno

È vietato adibire le lavoratrici al lavoro notturno, dalle ore 24 alle ore 6, dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
Non sono obbligati a prestare lavoro notturno:

  • la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa;
  • la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni;
  • la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della Legge 104/1992 e successive modificazioni.

 

 

Tutela del posto di lavoro

Divieto di licenziamento

Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento un anno di età del bambino, ai sensi dell’art. 54 D.Lgs. 151/2001.
Il divieto è connesso con lo stato oggettivo di gravidanza, senza che si tenga conto della conoscenza da parte del datore della stato della lavoratrice, essendo sufficiente l’esibizione di idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano.

Il licenziamento effettuato in connessione con lo stato di oggettiva gravidanza e puerperio è da considerarsi nullo, con la conseguenza che la lavoratrice avrà diritto al ripristino del rapporto di lavoro.
E’ altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino.

Il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso, e si estende sino al compimento di un anno di età del bambino.
Il divieto di licenziamento di cui all’art. 54 D.Lgs. 151/2001 si applica altresì in caso di adozione e di affidamento, sino a un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità.

Durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salva che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta, né può essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salvo che sia avvenuto per cessazione dell’attività dell’azienda.

Il divieto di licenziamento non si applica nel caso:

  • di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
  • di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine
  • di esito negativo della prova, facendo salvo il divieto di discriminazione di cui all’art. 4 Legge n. 125/1991.

Al di fuori di queste ipotesi, il licenziamento intimato nel periodo coperto da divieto è nullo e la lavoratrice ha diritto alle tutele previste dalla legge, e in particolare:

  • alle tutele indicate dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012, se è stata assunta prima del 7 marzo 2015;
  • alle tutele indicate dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del cd. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti), se l’assunzione è avvenuta a decorrere dal 7 marzo 2015.

Tali norme, peraltro, hanno contenuto sostanzialmente identico; entrambe, infatti, stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, che prevede:

  • l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
    la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
  • il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
  • il cd. diritto di opzione a favore lavoratore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

 

 

Dimissioni

La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza, così come la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro (art. 55, co. 4, d.lgs. 151/2001).
In caso di mancato accertamento della volontarietà della richiesta di dimissioni tramite convalida si determina la nullità delle dimissioni anche a prescindere dalla conoscenza dello stato di maternità da parte del datore di lavoro.
Il primo comma dell’art. 55 del d.lgs. 151/2001 prevede inoltre che, in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.
L’art. 12 del d.lgs. 80/2015 ha infine stabilito che la lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso. La medesima disciplina si applica anche al padre lavoratore che ha fruito del congedo di paternità e nel caso di adozione e di affidamento, entro un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.

 

Diritto al rientro

Al termine dei periodi di congedo, la lavoratrice (o il lavoratore, in caso di fruizione di congedo per paternità) ha diritto di conservare il posto di lavoro, di rientrare nella stessa unità produttiva in cui era occupata all’inizio del periodo di gravidanza (e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino) nonché di essere adibita alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di maternità

In genere

  1. La Dir. n. 2006/54/CE, dedicata all’attuazione dei principi di pari opportunità e di parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, non osta a un contratto collettivo nazionale che riservi alle lavoratrici, che si prendono cura in prima persona del proprio figlio, il diritto a un congedo da godersi successivamente a quello ordinario di maternità, a condizione che tale astensione supplementare sia volta a tutelare le medesime con riguardo tanto alle conseguenze della gravidanza quanto alla loro condizione di maternità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare in concreto prendendo in considerazione: le condizioni di concessione, la modalità e la durata, nonché il livello di protezione giuridica connessa (massima non ufficiale). (Corte di Giustizia UE, 18/11/2020, causa n. C-463/19, Pres. Bonichot Rel. Safjan, in Lav. nella giur. 2021, con nota di R. Zucaro, L’indirizzo europeo sul congedo di maternità supplementare, 369)
  2. L’inserimento in graduatoria attribuisce un diritto soggettivo all’assunzione, con la conseguenza che la lavoratrice ha diritto al risarcimento del danno per non essere stata avviata al lavoro a causa dello stato di gravidanza. (Trib. Foggia 9/11/2018 n. 6168, Est. De Salvia, in Riv. It. Dir. Lav. 2019, con nota di E. Raimondi, “È discriminazione la mancata assunzione obbligatoria di una lavoratrice in gravidanza”, 213)
  3. Ove la contrattazione collettiva ricolleghi la progressione in carriera all’anzianità di servizio, il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità è equiparato al periodo di effettivo servizio, salvo che la stessa contrattazione collettiva subordini la promozione ad altri particolari requisiti, come la valutazione circa la quantità e la qualità del servizio prestato, non correlati alla sola virtuale prestazione lavorativa. (Cass. 20/6/2014 n. 14110, Pres. Stile Est. Napoletano, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Claudia Carchio, 59)
  4. Ai sensi dell’art. 56 D.Lgs. 26/3/01 n. 151, la lavoratrice madre, al termine del periodo di congedo per maternità, ha diritto di rientrare nella stessa unità produttiva ove era occupata all’inizio del periodo di gravidanza. La chiusura e il trasferimento in altra città dell’unità cui la lavoratrice è adibita non ne giustifica la sospensione della retribuzione in applicazione analogica dell’art. 54, 4° comma, D.Lgs. 26/3/01 n. 151, quando risulti che l’attività è continuata in altra città. (Corte app. Milano 6/8/2012, Est. Castellini, in D&L 2012, con nota di Alessandro Corrado, “La chiusura e lo spostamento per ragioni organizzative di un’unità produttiva in altra città non legittimano il trasferimento nella nuova sede della lavoratrice madre al rientro della gravidanza”, 735)
  5. Le procedure selettive di accesso ai pubblici uffici devono uniformarsi al principio costituzionale della parità di trattamento. La condizione di maternità impone alle pubbliche amministrazioni di adottare ogni misura necessaria per garantire la tutela della donna e della maternità e assicurarle la partecipazione al concorso in condizioni di parità effettiva con gli altri candidati. (TAR Calabria, Sez. II, 10/6/2010, Pres. Fiorentino Est. Lopilato, in Riv. it. dir. lav. 2011, con nota di Maura Ranieri, “Tutela della maternità e concorso pubblico: un caso evidente di discriminazione”, 138)
  6. L’art. 53, 1° e 2° comma, D.Lgs. 26/03/01 n. 151, contenente il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, che stabilisce che non è obbligata a prestare il lavoro notturno la lavoratrice madre di un figlio in età inferiore a tre anni si applica anche al personale di volo dell’aviazione civile, considerato che il D.Lgs. 8/4/03 n. 66, concernente l’organizzazione dell’orario di lavoro, non ha abrogato le disposizioni in materia di orario di lavoro contenute nella previgente normativa di legge a tutela della maternità e della paternità e che il D.Lgs. 19/8/05 n. 185, di attuazione della Direttiva 2000/79/Ce relativa all’Accordo europeo sull’organizzazione dell’orario di lavoro del personale di volo dell’aviazione civile non ha inteso derogare alle disposizioni sull’orario di lavoro a tutela della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. 26/03/01 n. 151. (Trib. Busto Arsizio 16/9/2009, ord., Est. La Russa, in D&L 2009, 994)
  7. L’art. 53, 1° e 2° comma, D.Lgs. 26/3/01 n. 151, contenente il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, che stabilisce che non è obbligata a prestare lavoro notturno la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni è applicabile, a prescindere dal settore di appartenenza, alla generalità dei lavoratori e quindi anche al personale di volo dell’aviazione civile, senza che al riguardo possa assumere rilevanza alcuna né la normativa contenuta nel D.Lgs. 8/4/03 n. 66m, che ha modificato la previgente disciplina soltanto in materia di orario di lavoro e non anche di tutela della maternità e paternità, né la disciplina speciale del D.Lgs. 19/8/05 n. 185, sull’organizzazione dell’orario di lavoro del personale di volo dell’aviazione civile che nulla ha disposto in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità. (Trib. Busto Arsizio 18/5/2009, ord., Est. Molinari, in D&L 2009, con nota di Renato Scorcelli, “Tutela della maternità e della paternità ed esonero dal lavoro notturno per il personale di volo dell’aviazione civile”, 994)
  8. L’art. 14 del D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026 (regolamento di esecuzione della L. n. 1204 del 1971 sulla tutela delle lavoratrici madri), pur prescrivendo determinate formalità quanto alla redazione e alla produzione del certificato di gravidanza, non collega alcuna sanzione all’inosservanza di tali requisiti formali, sicché la lavoratrice (illegittimamente licenziata) può presentare tale certificato anche in allegato al ricorso con il quale impugna il licenziamento. (Cass. 3/3/2008 n. 5749, Pres. Sciarelli Est. Stile, in Lav. nella giur. 2008, 730)
  9. In tema di lavoro part time post maternità, i contraenti collettivi, pur prendendo in considerazione anche le esigenze produttive e organizzative potenzialmente confliggenti con quelle del dipendente, hanno però tracciato precisi e insuperabili confini al pieno esercizio della discrezionalità e del potere organizzativo del datore di lavoro, circoscrivendolo, in via generale, ai casi di infungibilità delle mansioni e, in presenza di mansioni fungibili, a soglie numeriche esclusivamente riferite alla quantità delle domande proposte in relazione all’entità (comunque superiore a 20) della forza lavoro occupata presso l’unità produttiva cui è addetto il dipendente interessato a ottenere, al fine di poter prestare assistenza a un figlio di età inferiore ai tre anni, una riduzione dell’orario di lavoro. (Trib. Milano 24/12/2007, Pres. Mascarello, in Lav. nella giur. 2008, 532)
  10. Il motivo oggettivo di licenziamento determinato dalla soppressione di un settore lavorativo, di un reparto o di un posto è rimesso alla valutazione del datore in quanto espressione della libertà di iniziativa economica riconosciutagli dalla Costituzione: il giudice non può sindacare le scelte sotto il profilo della congruità e della opportunità. (Cass. 17/12/2007 n. 26563, in dir. e prat. Lav. 2008, 2243)
  11. L’espressione anzianità di servizio di cui agli artt. 6 e 7 L. 30/12/71 n. 1204 (ora artt. 22 e 32 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 TU in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità) è indicativa di una nozione unitaria e conseguentemente vieta al datore di lavoro di interpretare una clausola collettiva, che sclue dal computo dell’anzianità di servizio utile per progressioni automatiche di carriera le assenze volontarie (nella specie l’art6. 18 Ccnl Casse di risparmio), come rifertita anche alle assenze dal lavoro per fruizione dell’ex astensione facoltativa; questa equiparazione infatti viola l’art 15 SL, in quanto costituisce patto volto a discriminare nell’assegnazione delle qualifiche o a recare altrimenti pregiudizio a un lavoratore in ragione del suo sesso e costituisce discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 4, comma 2°, L. 10/4/91 n. 125 (ora art. 25, 2° comma, D.Lgs. 11/4/06 n. 198, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna). (Trib. Prato 21/11/2007, Est. Rizzo, in D&L 2008, con nota di Fabrizio Amato e Irene Romoli, “Assenza per maternità e anzianità di servizio: profili individuali e collettivi della discriminazione di genere; una concreta ipotesi di definizione di un piano di rimozione delle discriminazioni”. 574)
  12. Ai sensi dell’art. 57 bis Ccnl per i dipendenti da aziende del terziario, la lavoratrice madre ha diritto, in presenza dei presupposti e delle condizioni ivi previsti, a ottenere la trasformazione temporanea del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale sino al compimento del terzo anno di età del figlio. (Trib. Genova 11/5/2007, ord., Est. Basilico, in D&L 2007, con nota di Alvise Moro, “Brevi note in materia di part-time e tutela della maternità”, 806)
  13. Nel caso di illegittimo diniego del datore di lavoro alla richiesta della lavoratrice madre di trasformazione temporanea del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale ai sensi dell’art. 57 bis del Ccnl per i dipendenti da aziende del terziario, l’impossibilità di assistere il figlio minore integra il pericolo d’un pregiudizio grave, imminente e irreparabile ex art. 700 c.p.c. (Trib. Genova 11/5/2007, ord., Est. Basilico, in D&L 2007, con nota di Alvise Moro, “Brevi note in materia di part-time e tutela della maternità”, 806)
  14. Il giorno del parto è sicuramente compreso nella tutela previdenziale apprestata dall’art. 4, della legge 1204 del 1971 (oggi art. 16 del d.lgs. 151 del 2001), non essendo nemmeno ipotizzabile che il legislatore, nell’attuare la norma di cui all’art. 37 della Costituzione, abbia inteso lasciar fuori proprio tale giorno, ma non deve essere computato ai fini del decorso del periodo di cui alla lettera c), vale a dire i tre mesi dopo il parto. (Cass. 8/11/2005, Pres. Mileo Est. Mazzarella, in Orient. Giur. Lav. 2005, 977)
  15. È costituzionalmente illegittimo, per la disparità di trattamento rispetto alle lavoratrici non coniugate, ma con figli a carico, l’art. 219, comma quarto, del decreto del Presidente della Repubblica, 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui non prevede che le dipendenti delle Ferrovie dello Stato, non coniugate ma con prole a carico, possano usufruire di un periodo massimo di cinque anni ai fini del compimento dell’anzianità necessaria a maturare il diritto a pensione, così limitando detto beneficio, diversamente da quanto disposto per le altre dipendenti civili dello Stato dall’art. 42 del medesimo D.P.R. n. 1092 del 1973 e per le dipendenti degli enti locali dall’art. 18 della legge 26 luglio 1965, n. 965, alle sole lavoratrici che abbiano contratto matrimonio. (Cost. 7/7/2005 n. 281 Pres. Capotosti Red. Marini, in Dir. e prat. lav. 2005, 2104)
  16. È costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’art. 3 Cost l’art. 45, 1° comma, D. Lgs. 151/01 nella parte in cui, in ipotesi di adozione ed affidamento, prevede che i riposi di cui agli artt. 39, 40 e 41 D. Lgs. 151/01 si applichino “entro il primo anno di vita del bambino” anziché “entro il primo anno dall’ingresso del minore in famiglia”. (Corte Cost. 1/4/2003 n. 104, Pres. Chieppa Rel. Amirante, in D&L 2003, 269)
  17. Non è fondata, in riferimento agli artt. 3 e 31 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, l. n. 546/87 che, nel disciplinare l’indennità di maternità per le coltivatrici dirette, non prevedeva espressamente una disciplina del parto prematuro, in quanto, per necessità di interpretazione adeguatrice all’evoluzione del sistema, ormai si applica in generale l’art. 68, d.lgs. n. 151/01 (Testo unico della maternità e paternità), per cui, in caso di parto prematuro, l’indennità è comunque corrisposta per complessivi cinque mesi, indipendentemente dalla durata della gestazione (Corte Cost. 16/5/02, n. 197, pres. Ruperto, est. Contri, in Lavoro giur. 2002, pag. 634)
  18. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, l. 30/12/71, n. 1204, in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva che la lavoratrice madre non potesse essere trasferita per un periodo non inferiore a quello del divieto di licenziamento, non essendo utilizzabile l’analogia juris, in quanto si tratta di situazioni che giustificano un diverso grado di tutela. Né può ritenersi in contrasto con gli artt. 31 e 37 Cost. , poiché il trasferimento e altri atti come la modifica di mansioni, il comando etc., sono assistiti dalla tutela antidiscriminatoria e contro gli illeciti (Corte Appello Milano 20/12/00, pres. Mannacio, est. De Angelis, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1011)
  19. E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 1, 2° comma, L. 30/12/71, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nella parte in cui non prevede l’applicabilità alle lavoratrici a domicilio dell’art. 5 della medesima legge (Corte Cost. 26/7/00, n. 360, pres. Mirabelli, rel. Contri, in Lavoro giur. 2000, pag.1027, con nota di Mannaccio, Tutela della maternità e lavoratrici a domicilio e in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2058; in D&L 2000, 895; in Orient. giur. lav.2000, pag.720)
  20. Sono incostituzionali gli artt. 1 e 3 l. 29/12/87, n. 546, nella parte in cui non prevedono la corresponsione dell’indennità di maternità a favore delle imprenditrici agricole a titolo principale (Corte cost. 26/7/00, n. 361, pres. Mirabelli, est. Contri, in Foro it. 2000, pag. 3413, con nota di Bellantuono, La Corte costituzionale e l’indennità di maternità delle imprenditrici agricole a titolo principale)

 

 

Astensione dal lavoro

  1. L’art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 151/01, nel prevedere – in attuazione della legge-delega 8 marzo 2000, n. 53 – che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata a una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo a essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca a una migliore organizzazione della famiglia (fattispecie in cui un lavoratore aveva utilizzato il congedo parentale per aiutare la moglie nel gestire una pizzeria di sua proprietà). (Cass. 16/6/2008 n. 16207, Pres. De Luca Est. Balletti, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Laura Calafà, “Congedo parentale e cura del minore. Limiti funzionali al diritto potestativo del padre”, 277)
  2. L’estensione ad altre categorie di madri lavoratrici (rispetto alle lavoratrici dipendenti) del diritto di assentarsi dal lavoro per assistere i figli implica di per sé il riconoscimento di un analogo diritto al padre (Consiglio di Stato sez. IV 13/9/2001, n. 4785, in Lavoro giur. 2001, pag. 1053, con nota di Nunin, Congedi parentali e tutela dei diritti del padre lavoratore: novità normative ed orientamenti della giurisprudenza)
  3. Il titolare del diritto ai congedi parentali può scegliere quando fruirne, nell’ambito dei primi otto anni di vita del bambino, salvo l’obbligo di preavvisare il datore di lavoro (Trib. Venezia 7/9/2001, ordinanza, pres. D’Amico, est. Caparelli, in Lavoro giur. 2001, pag. 1052, con nota di Nunin, Congedi parentali e tutela dei diritti del padre lavoratore: novità normative ed orientamenti della giurisprudenza)
  4. Ove il parto avvenga con largo anticipo rispetto alla data presuntivamente fissata all’inizio della gravidanza, il momento di decorrenza del termine dei tre mesi di astensione obbligatoria di cui all’art. 4, 1° comma, lett. c) della legge 30/12/71, n. 1204 va individuato nel giorno successivo a quello originariamente previsto, a prescindere dal giorno in cui la nascita si sia effettivamente verificata e da quello in cui il neonato abbia effettivamente fatto ingresso in famiglia (Trib. Ravenna 13/10/99, est. Vignati, in Dir. Lav. 2000, pag. 269, con nota di Palomba ,Astensione obbligatoria in caso di parto prematuro)
  5. La legge non subordina la possibilità di fruizione dei diritto ai congedi parentali alle necessità dell’impresa (Trib. Venezia 7/9/2001, ordinanza, pres. D’Amico, est. Caparelli, in Lavoro giur. 2001, pag. 1052, con nota di Nunin, Congedi parentali e tutela dei diritti del padre lavoratore: novità normative ed orientamenti della giurisprudenza)
  6. Mentre l’istituto dell’astensione obbligatoria ex art. 4, l. n. 1204/71 è collegato alla normale evoluzione della gestazione e alla necessità di tutela della lavoratrice prima e dopo il parto (non rilevando dunque per il datore di lavoro lo stato di salute e il comportamento della stessa in tale periodo), l’istituto dell’anticipazione del periodo di interdizione dal lavoro ex art. 5, lett. a), L. 1204/71 trova invece la sua ragion d’essere in una patologia della gravidanza che insorga nel periodo precedente all’astensione obbligatoria. Per quest’ultimo istituto assumono quindi rilievo non soltanto lo stato di salute della lavoratrice (presupposto per poterlo applicare e per determinarne la durata), ma anche il comportamento tenuto dalla medesima durante l’astensione anticipata, ove sia idoneo ad aggravare o a prolungare le complicanze della gestazione (nella specie, la S.C. ha confermato la legittimità del licenziamento intimato a una lavoratrice che, nel periodo di astensione anticipata, aveva svolto attività lavorativa in un negozio di cui era titolare) (Cass. 4/3/00, n. 2466, pres. Santojanni, est. Di Lella, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 65, con nota di Mocella, Sulla rilevanza dei comportamenti del lavoratore nel periodo di sospensione del rapporto di lavoro)
  7. In caso di parto prematuro, il periodo di astensione pre-parto non goduto si somma a quello da godere dopo il parto: l’intero periodo di astensione obbligatoria di cui all’art. 4, 1° comma, lett. a) della legge 30/12/71, n. 1204, si somma a quello di cui alla lett. c) della medesima disposizione (Trib. Campobasso 1/2/00, est. De Cesare, in Dir. Lav. 2000, pag. 269, con nota di Palomba, Astensione obbligatoria in caso di parto prematuro)
  8. E’ illegittimo l’art. 4, 1° comma, lett. c) della L. 30/12/71 n. 1204 in riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31e 37 Cost. nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di parto prematuro, una decorrenza dei termini del periodo di astensione obbligatoria diversa da quella del parto effettivo e idonea ad assicurare un’adeguata tutela della madre e del bambino (Corte Cost. 30/6/99 n. 270, pres. Vassalli, rel. Santosuosso, in D&L 1999, 787, n. Paganuzzi e in Dir. Lav. 2000, pag. 269, con nota di Palomba , Astensione obbligatoria in caso di parto prematuro)
  9. Il diritto del padre lavoratore di assentarsi dal lavoro per astensione facoltativa ex art. 7, L.9/12/77 n. 903 può essere esercitato solo in via sussidiaria, in alternativa alla madre, in tutti quei casi nei quali quest’ultima si trovi nell’accertata impossibilità, derivante da malattia o da altre legittime cause impeditive, di assistere il bambino; ciò perché alla madre, in tale incombenza, compete un ruolo “primario”, mentre quello del padre è “derivato” o sussidiario. (Nel caso di specie il Pretore ha negato che al padre spettasse il diritto all’astensione facoltativa ex art. 7, L.9/12/77 n. 903 contemporaneamente alla fruizione da parte della madre di un periodo di ferie) (Pret. Parma 19/5/98, est. Ferraù, in D&L 1998, 999, nota Pavone)
  10. Sono costituzionalmente illegittimi, in relazione agli artt. 3 e 37 Cost, gli artt. 7 c. 1 e 16 c. 1 L. 223/91, nella parte in cui non prevedono che i periodi di astensione dal lavoro della lavoratrice per gravidanza e puerperio siano computabili al fine del raggiungimento del limite minimo di sei mesi di lavoro effettivamente prestato per poter beneficiare dell’indennità di mobilità (Corte cost. 6/9/95 n. 423, pres. Baldassarre, rel. Granata, in D&L 1996, 66)

 

 

Indennità di maternità

  1. È costituzionalmente illegittimo l’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella versione antecedente alle novità introdotte dall’art. 20 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, prevede che l’indennità di maternità spetti alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età. (Corte Cost. 7/10/2015 n. 205, Pres. Criscuolo, Est. Sciarra, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Roberta Nunin, “La Consulta, il Jobs Act e le tutele previste per i genitori liberi professionisti”, 204)
  2. L’indennità di maternità dovuta alle libere professioniste esercenti la professione legale, per lo stato di gravidanza nel periodo antecedente al 29 ottobre 2003, data di entrata in vigore della legge 15 ottobre 2003, n. 289, che ha modificato – senza efficacia retroattiva – l’art. 70 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, soggiace al più favorevole regime reddituale previsto dall’originaria formulazione di tale norma. (Cass. 3/12/2013 n. 27068, Pres. Roselli Rel. Mancino, in Lav. nella giur. 2014, 288)
  3. L’art. 71, D.Lgs. n. 151/2001, non consente alla Cassa forense di erogare il trattamento di maternità allorché la lavoratrice abbia goduto, per lo stesso titolo di un trattamento a carico di altro ente previdenziale. (Cass. 17/6/2013 n. 15072, Pres. Napoletano Rel. Bronzini, in Lav. nella giur. 2013, 957)
  4. I principi che regolano la materia di indennità di maternità, come modificata dagli interventi della Corte Costituzionale, possono essere sintetizzati in quello della alternatività tra i due genitori e della loro fungibilità e ciò è espressamente previsto per le coppie composte da entrambi i genitori dipendenti, ma non vi sono ragioni per discostarsene in caso di coppie in cui un genitore è libero professionista, trattandosi di situazioni omogenee nelle quali l’interesse primario da tutelare è e rimane quello della prole e quello di facilitare il suo inserimento nella nuova famiglia. (Cass. 15/1/2013 n. 809, Pres. Lamorgese Rel. D’Antonio, in Lav. nella giur. 2013, 310)
  5. Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 70 del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, in riferimento agli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la possibilità per il padre di percepire, in alternativa alla madre biologica, l’indennità di maternità, giacché il fine perseguito dal legislatore mediante l’istituto dell’astensione obbligatoria, cui è connessa l’indennità di maternità, è quello di tutelare la salute della donna nel periodo immediatamente precedente e successivo al parto. (Corte Cost. 28/7/2010 n. 285, Pres. Amirante Est. Saulle, in Riv. it. dir. lav. 2011, con nota di Nicoletta De Angelis, “La Corte Costituzionale esclude il diritto all’indennità di maternità per il padre libero professionista”, 12)
  6. Il criterio di commisurazione dell’indennità di maternità spettante alle libere professioniste ai sensi dell’art. 1, 2° comma, L. 379/90, che riferisce l’indennità al reddito percepito e denunciato dall’interessata nel secondo anno precedente a quello della domanda, senza ulteriori qualificazioni circa la natura e la forma in cui viene in concreto esercitata l’attività professionale, deve trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui l’attività sia svolta da parte di una farmacista in regime di collaborazione a impresa familiare nella farmacia di proprietà di un familiare. (Cass. 4/5/2010 n. 10709, Pres. Sciarelli Est. Mammone, in D&L 2010, con nota di Nadia Marina Gabigliani, “Indennità di maternità per le libere professioniste”, 869)
  7. Una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 24, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 151/2001, consente di includere il congedo non retribuito per assistere un familiare affetto da grave infermit, tra le eccezioni (espressamente previste) del congedo parentale, del congedo per malattia del figlio ovvero del congedo per accudire minori in affidamento che sono escluse dal periodi di sessanta giorni dall’inizio della sospensione o dall’assenza, entro cui permane il diritto all’indennità giornaliera di maternità per la lavoratrice che si trovi sospesa, assente dal lavoro senza retribuzione o disoccupata all’inizio del periodo di congedo di maternità. (Trib. Bologna 18/11/2008 n. 585, Giud. Molinaro, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Anna Montanari, 615)
  8. Ai fini dell’indennità di maternità spettante alle libere professioniste, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge n. 379 del 1990, recepito, senza modifiche, dall’art. 70, comma 2, del D.Lgs. n. 151 del 2001, va preso in esame soltanto il reddito professionale “percepito e denunciato a fini fiscali” nel secondo anno precedente a quello della domanda, corrispondente all’utile derivato dall’esercizio dell’attività professionale, e non i soli compensi percepiti, dovendosi ritenere una diversa interpretazione, oltre che in contrasto con il chiaro tenore letterale della norma, illogica, atteso che, ove le spese fossero superiori ai compensi, non vi sarebbe reddito da assoggettare a imposta. Né è configurabile, al riguardo, la violazione dei valori costituzionali sottesi agli artt. 3, 24 e 31 Cost., dovendosi escludere, da un lato, che la misura dell’indennità sia irrisoria, venendo la stessa commisurata all’entità del reddito (nel periodo considerato) senza che siano comunque trascurate le esigenze primarie di tutela – non potendo il relativo importo essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura pari all’ottanta per cento del salario minimo giornaliero stabilito, per la qualifica di impiegato, dall’art. 1 del d.l. n. 402 del 1981, tabella A, e successivi decreti ministeriali di integrazione – mentre, dall’altro, la normativa (come rilevato dalla Corte Cost. n. 3 del 1998) consente alla professionista, a differenza della lavoratrice subordinata, di scegliere liberamente modalità di lavoro compatibili con il prevalente interesse del figlio, attesa l’attribuzione del diritto all’indennità anche in assenza di astensione dal lavoro (fattispecie in materia di riconoscimento dell’indennità di maternità a una notaia). (Cass. 9/9/2008 n. 23090, Pres. Ianniruberto Est. Celentano, in Lav. nella giur. 2009, 303)
  9. L’indennità di maternità prevista per i liberi professionisti dall’art. 70 Capo XII del d.lgs. n. 151/2001, così come modificato dall’art. 1 l. n. 289/2003, deve essere riconosciuta, in paritaria alternativa rispetto alla madre, anche a favore dei padri liberi professionisti. (Trib. Firenze 29/5/2008 Giud. Muntoni, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Francesca Savino, “Congedo di paternità e tutela dei diritti dei padri liberi professionisti”, 363)
  10. In tema di indennità di maternità spettante a un’avvocatessa nel regime di cui all’art. 70 del D.Lgs. n. 151 del 2001 (precedente alle modificazioni introdotte, con disposizioni innovative e non retroattive, dalla L. n. 289 del 2003), occorre fare riferimento all’intero reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali, non trovando applicazione il massimale previsto dalle successive norme quale tetto di reddito professionale pensionabile, il quale rileva solo ai fini del calcolo della pensione a carico della cassa di previdenza categoriale. (Cass. 17/12/2007 n. 26568, Pres. Ciciretti Est. Picone, in Lav. nella giur. 2008, 422)
  11. L’indennità di maternità, prevista dagli artt. 70 e 72, 1° comma, D.Lgs. 26/3/01 n. 151 in favore della libera professionista, deve essere accordata anche in caso di affidamento provvisorio del minore. (Trib. Pistoia 12/3/2007, Est. De Marzo, in D&L 2007, con nota di Lisa Amoriello, “Affidamento provvisorio del minore a libera professionista e indennità di maternità”, 1256)
  12. Ai fini del riconoscimento del diritto di indennità di maternità per astensione facoltativa alle lavoratrici agricole, è sufficiente l’esistenza dei requisiti costitutivi del rapporto assicurativo nell’anno precedente all’evento assicurato, anche se l’astensione dal lavoro, sia obbligatoria che facoltativa, si protragga nell’anno suuccessivo all’evento stesso. (Trib. Grosseto 12/12/2006, Dott. Ottati, in Lav. nella giur. 2007, 631)
  13. L’indennità giornaliera di maternità di cui alla legge n. 546 del 1987, spettante per i due mesi antecedenti alla data “presunta” del parto, nonché per i tre mesi successivi alla data “effettiva” del parto, non può essere erogata a partire da una data anteriore a quella in cui è stata proposta la domanda di iscrizione negli elenchi, ovvero da una data ancora precedente che tenga conto dei termini di legge entro i quali detta domanda è consentita, salva, in questo secondo caso, la prova dell’assenza di ogni attività lavorativa svolta dalla lavoratrice madre prima della domanda di iscrizione. (Cass. 12/10/2005 n. 19792, Pres. Ianniruberto Rel. Foglia, in Dir. e prat. lav. 2006, 804)
  14. Con riferimento al pagamento dell’indennità di maternità, il datore di lavoro costituisce un mero adiectus solutionis causa, restando al contrario l’Inps l’unico debitore effettivo della prestazione assistenziale (…). Non di meno, qualora il datore di lavoro non ottemperi alla delegazione di pagamento disposta per legge, la lavoratrice può agire direttamente nei confronti dell’Inps per soddisfare il diritto alla prestazione assistenziale. Vi è però incompatibilità processuale tra l’azione d’urgenza intrapresa e le modalità di erogazione dell’indennità di maternità, poiché, trattandosi di una prestazione in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, la domanda giudiziale “non è procedibile se non siano esauriti i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o siano decorsi i termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi o siano, comunque, decorsi 180 giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo”. La procedura d’urgenza appare perciò inconciliabile con la tempistica imposta dai termini di cui sopra. (Trib. Salerno 8/5/2006, Pres. Cavaliero Rel. Mancuso, in Lav. Nella giur. 2006, 824)
  15. In riferimento agli articoli 3, 29, secondo comma, 30, primo comma, e 31 della Costituzione sono costituzionalmente illegittimi gli articoli 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo, n. 53), nella parte in cui non consentono al padre libero professionista, affidatario in preadozione di un minore, di beneficiare – in alternativa alla madre – dell’indennità di maternità durante i primi tre mesi successivi all’ingresso del bambino nella famiglia. (Cost. 11-14/10/2005 n. 385, Pres. Capotosti Rel. Contri, in Lav. e prev. oggi 2005, 1994)
  16. Sono incostituzionali in riferimento agli artt. 3, 29, comma 2, 30, comma 1, e 31 Cost., gli artt. 70 e 72 del D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della L. 18 marzo 2000 n. 53), nella parte in cui non prevedono il principio che al padre libero professionista spetti di percepire, in alternativa alla madre, l’indennità di maternità attribuita solo a quest’ultima; infatti l’esclusione rappresenta una lesione del principio di parità di trattamento sia tra le figure genitoriali, sia tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. (Corte Cost. 11/10/2005 n. 385, Pres. Capotasti Rel. Contri, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Angela La carbonara, 870)
  17. Le lavoratrici che hanno accettato, per conservare il posto di lavoro, di sottoscrivere con il datore di lavoro un contratto di solidarietà a zero ore della durata di oltre sessanta giorni non perdono il diritto all’indennità di maternità. (Cass. 16/2/2005 n. 3050, Pres. Ravagnani Est. Lamorgese, in Orient. Giur. Lav. 2005, 190)
  18. L’indennità di maternità parametrata ai sensi dell’art. 1, secondo comma, della legge 11 dicembre 1990, n. 379, al reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dall’interessata, spetta anche al titolare di farmacia, non rilevando la natura e la forma in cui viene in concreto esercitata la attività professionale che, pertanto, può essere svolta sia a mezzo di associazione o d’impresa professionale, sia in forma di collaborazione in regime d’impresa familiare. Né è prospettabile al riguardo il dubbio di illegittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., per un asserito trattamento di favore per le esercenti attività di tipo imprenditoriale, sia pur riservata a professionisti, rispetto a quanto svolgano la stessa attività nella forma del lavoro subordinato, poiché la stessa legge, all’art. 5 ammette che il contributo fissato può essere variato con D.M. al fine di garantire l’equilibrio delle gestioni, e, comunque, il reddito di impresa non è necessariamente superiore a quello ricavato da lavoro dipendente e viene a remunerare un’attività del tutto differente. Peraltro, il successivo intervento della legge 15 ottobre 2003, n. 289 la quale ha modificato l’art. 70, secondo comma della legge n. 379 del 1990 sostituendo alle parole “del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali” le parole del “solo reddito da lavoro autonomo” – dimostra soltanto che diverso era il precedente regime, ma non può valere come criterio di interpretazione della precedente disciplina. (Cass. 20/1/2005 n. 1102, Pres. Mercurio Rel. Spanò, in Dir. e prat. lav. 2005, 1469)
  19. Il diritto della bracciante agricola all’indennità di maternità non postula necessariamente che la minima attività lavorativa (oltre cinquantuno giornate) richiesta per l’iscrizione agli elenchi normativi sia stata svolta nello stesso anno cui si riferisce l’astensione predetta, dovendosi considerare sufficiente – alla luce dei principi sottesi alla legislazione di tutela della maternità – l’esistenza dei requisiti costitutivi del rapporto assicurativo nell’anno precedente all’evento assicurato, anche se l’astensione, sia obbligatoria che facoltativa, si protragga nell’anno successivo all’evento stesso. (Cass. 11/10/2004 n. 20114, Pres. Prestipino Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2005, 482)
  20. È costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 Cost., l’art. 72 D. Lgs. 26/3/01 n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di salute e sostegno della maternità e della paternità), nella parte in cui non prevede che in caso di adozione internazionale l’indennità materna spetti alla lavoratrice libero-professionista nei tre mesi successivi all’ingresso del minore adottato o affidato, anche se il minore abbia superato i sei anni di età. (Corte Cost. 23/12/2003 n. 371, Pres. Zsagrebelsky, Rel. Contri, in D&L 2004, con nota di Monica Rota, “Indennità di maternità ed adozione”, 40)
  21. La libera professionista ha diritto all’indennità di maternità prevista dall’art. 1, 2° comma, L. 11/12/90 n. 379 anche qualora l’attività professionale sia esercitata in forma imprenditoriale. L’indennità di maternità spetta alla libera professionista indipendentemente dall’effettiva astensione dall’attività lavorativa. La misura dell’indennità di maternità spettante alla libera professionista ai sensi dell’art. 1, 2° comma, L. 11/12/90 n. 379 è rapportata al reddito percepito e denunciato ai fini fiscali nel secondo anno precedente a quello della domanda e non nel secondo anno precedente a quello della nascita del figlio. (Trib. Milano 11/6/2002, Est. Sala, in D&L 2002, 1043)
  22. Qualora, in un periodo rilevante ai fini del calcolo dell’indennità di maternità, l’entità della prestazione della lavoratrice subisca una concordata trasformazione, la retribuzione base per il calcolo del suddetto importo corrisponde alla retribuzione più favorevole alla lavoratrice (Nel caso di specie, l’inizio dell’astensione obbligatoria per maternità ex art. 5, l. n. 1204/71 era avvenuto dopo due settimane dalla concordata ripresa del lavoro a tempo pieno dopo un periodo di lavoro part-time) (Cass. 16/2/00, n. 1729, pres. Castiglione, est. Filadoro, est. Cinque, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 62, con nota di Ogriseg, Indennità di maternità e part-time)
  23. Qualora il datore di lavoro e la dipendente concordino la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno e tale trasformazione si trovi ad avere effetto, a seguito dell’intervenuta gravidanza della lavoratrice, all’inizio o nel corso del periodo di aspettativa, l’indennità di maternità deve essere commisurata, dalla data della prevista trasformazione, al rapporto di lavoro a tempo pieno, in analogia con quanto avviene per il lavoro part time verticale; così interpretato l’art. 16, 1° comma, L. 1204/71, che stabilisce i criteri di determinazione dell’indennità di maternità, non contrasta con gli artt. 3, 31 e 37 Cost. e la relativa eccezione di incostituzionalità deve essere dichiarata infondata (Corte Cost. 30/6/99 n. 271, pres. Granata, rel. Santosuosso, in D&L 1999, 787, n. Paganuzzi)
  24. Non è manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 Cost. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, 1° comma, della L. 30/12/71 n. 1204 nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, l’indennità di maternità per l’astensione obbligatoria iniziata dopo la trasformazione, debba essere determinata con riferimento alla retribuzione che sarebbe spettata in relazione al regime a tempo pieno (Cass. 18/3/97 n. 639, pres. Nuovo, est. Mattone, in D&L 1998, 139, n. PAGANUZZI, Indennità di maternità e lavoro part-time)
  25. Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale, l’erogazione dell’indennità di maternità non può essere sospesa nei periodi coincidenti con quelli in cui il rapporto avrebbe dovuto restare sospeso a norma di contratto; infatti se tale indennità viene riconosciuta dalla legge anche qualora l’effetto sospensivo o interruttivo del rapporto si verifichi prima del giorno di inizio dell’astensione obbligatoria – purché questa intervenga entro i due mesi successivi –, a maggior ragione la medesima indennità spetta nel caso in cui l’evento sospensivo o interruttivo sia venuto in essere dopo che il diritto è già maturato (Pret. Milano 10/2/97, est. Atanasio, in D&L 1998, 139, n. PAGANUZZI, Indennità di maternità e lavoro part-time)
  26. Spetta alla lavoratrice madre, apprendista disoccupata, l’indennità di maternità ancorché siano decorsi, al momento dell’inizio dell’astensione obbligatoria, più di sessanta giorni dalla risoluzione del rapporto e quantunque la lavoratrice apprendista sia esclusa dall’assicurazione contro la disoccupazione (Pret. Verona 9/11/95, est. Di Silvestro, in D&L 1997, 327)

 

Congedi parentali

  1. La clausola 2, punto 6, dell’accordo quadro sui congedi parentali, allegato alla direttiva 96/34/CE, osta a una disposizione nazionale a norma della quale i lavoratori che si avvalgono del loro diritto al congedo parentale di due anni perdono, al termine di tale congedo, i diritti alle ferie annuali retribuite maturati nell’anno precedente alla nascita del loro figlio. (Corte di Giustizia 22/4/2010, causa C-486/08, Pres. Tizzano Rel. Levits, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Rita Poggio, “Il rapporto tra difesa dei diritti sociali e tutela della libertà di iniziativa economica alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia”, 1030)
  2. La lavoratrice o il lavoratore che, a seguito di parto gemellare, abbiano goduto per ciascun figlio dell’intero periodo di congedo parentale ai sensi dell’art. 32, D.Lgs. 26/3/01 n. 151, hanno diritto, per l’intero periodo di fruizione, al trattamento economico previsto dall’art. 34, D.Lgs. 151/01. (Trib. Varese 30/3/2010, Est. Fedele, in D&L 2010, con nota di Alessandro Corrado, “Il trattamento economico per congedo parentale previsto dall’art. 34 D.Lgs. 151/01 spetta per ciascun figlio gemello”, 804)
  3. La clausola 2, nn. 6 e 7, dell’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, concluso il 14 dicembre 1995, allegato alla direttiva del Consiglio 3 giugno 1996, 96/34/CE, va interpretata nel senso che essa osta a che – in caso di risoluzione unilaterale da parte del datore di lavoro senza un motivo grave o in violazione del termine legale di preavviso del contratto di lavoro di un lavoratore assunto a tempo indeterminato e in regime di tempo pieno durante un periodo in cui quest’ultimo fruisce di un congedo parentale a tempo parziale – l’indennità dovuta al lavoratore sia calcolata sulla base della retribuzione ridotta che questi percepisce quando si verifica il licenziamento. (Corte Giustizia 22/11/2009 C-116/08, Pres. Cunha Rodrigues Est. U. Lohmus, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Laura Calafà, “Il caso Meerts alla Corte di Giustizia e la ‘sostenibile leggerezza’ dell’accordo quadro sul congedo parentale. Primi appunti sulla dir. 2010/18/UE”, 448)
  4. Al padre lavoratore deve essere riconosciuto un diritto autonomo alla fruizione del congedo di paternità regolato dall’art. 28 del d.lgs. n. 151/2001, a prescindere dal fatto che la madre sia o sia stata una lavoratrice. La durata del congedo è di 5 mesi quando la madre non ha utilizzato il congedo di maternità. (Trib. Firenze 16/11/2009, Est. Muntoni, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2010, con commento di Laura Calafà, “Sull’autonomia del congedo di paternità del lavoratore subordinato”, 323)
  5. Al padre lavoratore deve essere riconosciuto il trattamento economico regolato dall’art. 29, d.lgs. n. 151/2001, indipendentemente dalla richiesta della madre di utilizzare il congedo di maternità e indipendentemente dal regolare pagamento dei contributi nella gestione artigiani/commercianti cui era tenuta la madre. (Trib. Firenze 16/11/2009, Est. Muntoni, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2010, con commento di Laura Calafà, “Sull’autonomia del congedo di paternità del lavoratore subordinato”, 323)
  6. Il d.lgs. 151/2001 recante il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità disciplina sia il congedo parentale che spetta al lavoratore dopo la nascita dei figli sia il trattamento economico spettante durante tale periodo (art. 32 e 34. Il CCNL del 24.7.2003 del Comparto Scuola (art. 12, comma quarto) prevede, con riferimento al trattamento economico, una disciplina più favorevole, che attribuisce al lavoratore il diritto all’intero trattamento retributivo per i primi trenta giorni di astensione dal lavoro. La disposizione in questione, nel fare riferimento all’art. 32, comma 1, dell. a) del d.lgs. 151/2001 deve intendersi come già contemplante l’ipotesi (prevista e disciplinata da detta norma) di parto plurimo, senza però consentire la moltiplicazione del periodo di astensione retribuito per intero: ove la norma contrattuale avesse voluto disporre una moltiplicazione o comunque un aumento della parte del periodo di congedo retribuito per intero in relazione al numero dei figli non avrebbe mancato di specificare tale diritto del lavoratore. (L’art. 12 comma 4 del CCNL Scuola 24.7.2003, di cui è fatta applicazione nel giudizio in questione, è confluito invariato nel CCNL 29.11.2007). (Trib. Modena 8/1/2008, Est. Montorsi, in Lav. nelle P.A. 2008, 409)
  7. Legittimamente l’azienda può rifiutare la richiesta di godimento frazionato del congedo parentale allorchè il godimento di tale diritto venga richiesto in modo tale da recare nocumento alla regolarità dell’attività aziendale, soprattutto ove l’azienda fornisca un servizio di interesse pubblico. Non costituisce pregiudizio grave e irreparabile il non poter godere dei congedi parentali nella giornata di domenica anzichè in un’altra giornata della settimana. (Trib. Trieste 13/7/2007, ord., Giud. Rigon, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Stefano Slataper, 1114)
  8. E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 42, quinto comma, del d.lgs. n. 151/2001 nella parte in cui non prevede, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati dalla norma, anche per il coniuge convivente con “soggetto con handicap di gravità”, il diritto a fruire del congedo ivi indicato. (Corte Cost. 8/5/2007 n. 158, Pres. Bile Rel. Saulle, in Riv. it. dir. lav. 2007, con commento di Enrico Raimondi, “Tutela del disabile e congedi straordinari retribuiti: un’importante decisione della Corte Costituzionale”, 776)
  9. In ipotesi di decesso di parente entro il secondo grado, il permesso retribuito di tre giorni, cui il lavoratore ha diritto ai sensi della L. 8/3/2000 n. 53, interrompe il decorso delle ferie; sussiste pertanto, in tal caso, il diritto a tre giorni di “ferie aggiuntive”. (Trib. Milano 23/4/2003, Est. Peragallo, in D&L 2003, 733)
  10. La nuova normativa sui congedi familiari introdotta con la L. n. 53/2000, in particolare sul diritto del lavoratore al permesso retribuito di tre giorni lavorativi all’anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado, non ha disciplinato l’ipotesi di sovrapposizione di differenti cause sospensive del rapporto quali le ferie ed il congedo per lutto. Pertanto, qualora l’evento che giustifica l’evento per lutto si verifichi durante il periodo di fruizione delle ferie da parte del lavoratore, in relazione al principio della effettività delle ferie ampiamente ribadito anche dalla giurisprudenza della Cassazione ed alla considerazione che la situazione è analoga a quella che si viene a creare in ipotesi di malattia che insorga durante il periodo di ferie, occorre fare applicazione del principio già affermato con riferimento a tale ultima ipotesi dalla Corte Costituzionale, con la conseguenza che il lutto sospende il godimento delle ferie. (Trib. Milano 23/4/2003, Est. Peragallo, in Lav. nella giur. 2003, 1167)

 

 

Riposi giornalieri

  1. L’art. 45, d.lgs. 26/3/01, n. 151, quando con riguardo ai periodi di riposo giornaliero retribuiti (già previsti in passato dalla l. n. 1204/71, c.d. permessi di allattamento) usa l’espressione “primo anno di vita”, fa riferimento ad una concezione non necessariamente biologica di vita, da intendersi, con riferimento ai minori adottati, quale primo anno di vita nella famiglia adottiva (Trib. Milano 6/6/02, pres. e est. Santosuosso, in Lavoro giur. 2002, pag. 771, con nota di Nunin, “Nascere due volte”: permessi giornalieri retribuiti e diritti dei genitori adottivi)
  2. L’art. 45, 1° comma, D. Lgs. 26/3/2001 n. 151 deve interpretarsi nel senso che i riposi giornalieri ivi previsti in favore dei genitori adottivi competono entro il primo anno di vita del bambino all’interno della famiglia adottiva. (Trib. Milano 6/6/2002, Est. Santosuosso, in D&L 2002, 932)
  3. Nel riconoscere fondata la pretesa del genitore adottivo a vedersi riconosciuto il diritto ai riposi giornalieri di cui all’art. 10 della L. n. 1204 del 1971, il giudice dell’urgenza afferma che nei casi dei minori adottati in tenera età, l’espressione durante il primo anno di vita del bambino possa leggersi come durante il primo anno dell’ingresso del bambino nel nucleo familiare. (Trib. Ivrea 26/4/2001, ord., Giud. Piersantelli, in Giur. It. 2004, 1349)
  4. Per quanto concerne i periodi di riposo di cui all’art. 10, l. n. 1204/71 e relativi trattamenti economici in favore del padre lavoratore non sussiste il fumus boni iuris e quindi il ricorso in via d’urgenza va respinto nel caso in cui la madre non svolga alcuna attività lavorativa di qualsiasi genere. Infatti, l’art. 6 ter l. n. 903/77 come introdotto dall’art. 13, l. n. 8/3/00, n. 53 va interpretato nel senso che i periodi di riposo di cui all’art. 10, l. n. 1204/71 sono, fra l’altro, riconosciuti al padre lavoratore, nel caso in cui la madre svolga una attività lavorativa non subordinata , ma autonoma (Trib. Trento 6/3/01, est. Benini, in Lavoro giur. 2001, pag. 766, con nota di Ferraù, Padre lavoratore e periodi di riposo)
  5. In ipotesi di parto plurigemellare competono alla lavoratrice madre i periodi di riposo giornaliero previsti dall’art. 10 L. 30/12/71 n. 1204 con l’incremento di un’ora per ogni figlio nato dallo stesso parto (Trib. Vercelli 23/7/99 (ord.), est. Alzetta, in D&L 1999, 859)
  6. Qualora l’orario di lavoro non sia inferiore, ma sia uguale o maggiore a sei ore, competono alla lavoratrice madre, ai sensi dell’art. 10 L. 20/12/71 n. 1204, due periodi di riposo giornaliero di un’ora ciascuno (Trib. Campobasso 2/2/99, pres. Sabusco, est. Varone, in D&L 1999, 360)
  7. Per fattispecie regolata dall’art. 10, l. n. 1204/71 prima della nuova regolamentazione introdotta dalla l. n. 53/00, in caso di parto gemellare la lavoratrice madre ha diritto al riposo giornaliero nella misura ivi indicata di un’ora per entrambi i figli. (Corte Appello Milano 12/4/01, pres. e est. Ruiz, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 332)
  8. Sussiste la legittimazione passiva anche dell’Inps in ipotesi di ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso dalla lavoratrice madre per ottenere dal datore di lavoro l’autorizzazione alla fruizione dei riposi retribuiti previsti dall’art. 10 L. 30/12/71 n. 1204 (Trib. Vercelli 23/7/99 (ord.), est. Alzetta, in D&L 1999, 859)
  9. In ipotesi di parto plurigemellare competono alla lavoratrice madre i periodi di riposo giornaliero previsti con riferimento a ciascun figlio. (Nella fattispecie, trattandosi di orario di lavoro giornaliero uguale a sei ore, il Tribunale ha ritenuto il diritto della madre, che aveva partorito tre gemelli, di usufruire di sei ore di riposo giornaliero) (Trib. Campobasso 2/2/99, pres. Sabusco, est. Varone, in D&L 1999, 360)
  10. Sussiste il diritto della madre che ha partorito due gemelli, di usufruire di un numero doppio di ore dei riposi giornalieri, una volta terminato il periodo di astensione obbligatoria (Pret. Venezia 15/9/98 (ord.), in D&L 1998, 965, nota Aragiusto, Parto gemellare e moltiplicazione delle ore di riposo giornaliero)

 

 

Licenziamento

  1. L’articolo 10, punto 1, della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE), deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di una lavoratrice gestante a causa di un licenziamento collettivo ai sensi dell’articolo 1, punto 1, lettera a), della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. (Corte di Giustizia 22/2/2018 C-103/16, Pres. Bay Larsen Rel. Safjan, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di C. Pareo, “Il licenziamento collettivo può costituire un’eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice madre?”, 912)
  2. L’articolo 10, punto 2, della direttiva 92/85 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che consenta al datore di lavoro di licenziare una lavoratrice gestante nell’ambito di un licenziamento collettivo senza fornirle motivi diversi da quelli che giustificano tale licenziamento collettivo, a condizione che siano indicati i criteri oggettivi adottati per designare i lavoratori da licenziare. (Corte di Giustizia 22/2/2018 C-103/16, Pres. Bay Larsen Rel. Safjan, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di C. Pareo, “Il licenziamento collettivo può costituire un’eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice madre?”, 912)
  3. L’articolo 10, punto 1, della direttiva 92/85 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che, nell’ambito di un licenziamento collettivo, ai sensi della direttiva 98/59, non preveda né una priorità al mantenimento del posto di lavoro né una priorità di riqualificazione applicabili prima di tale licenziamento, per le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, senza che ciò escluda, tuttavia, la facoltà per gli Stati membri di garantire una protezione più elevata alle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. (Corte di Giustizia 22/2/2018 C-103/16, Pres. Bay Larsen Rel. Safjan, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di C. Pareo, “Il licenziamento collettivo può costituire un’eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice madre?”, 912)
  4. In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 54, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 151 del 2001, dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale. (Cass. 6/6/2018 n. 14515, Pres. Nobile Rel. Neri Della Torre, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di C. Pareo, “Il licenziamento collettivo può costituire un’eccezione al divieto di licenziamento della lavoratrice madre?”, 913)
  5. Il tenore testuale dell’art. 54, co. 3, lett. b, dell’art. 54 del d.lgs. n. 151/2001 indica che solo in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il licenziamento della lavoratrice madre, in quanto trattandosi di norma che pone un’eccezione a un principio di carattere generale (e cioè quello fissato dall’art. 54, co. 1, di divieto del licenziamento della lavoratrice nelle condizioni ivi specificate) essa non può che essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. (Cass. 28/9/2017, n. 22720, Pres. Mammone Est. Calafiore, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di G. De Luca, “La chiusura di un reparto autonomo dell’azienda non legittima il licenziamento della lavoratrice madre adibita ad esso”, 39)
  6. Stante la natura di contratto a tempo indeterminato dell’apprendistato, il licenziamento della lavoratrice madre nel periodo di irrecedibilità non assistito da giusta causa è nullo con applicazione della tutela ex art. 18 Stat. Lav. in assenza di disdetta alla scadenza del periodo formativo. (Cass. 15/3/2016 n. 5051, Pres. Roselli Est. Negri della Torre, in Lav. nella giur. 2016, con commento di Domenico Garofalo, 911)
  7. In tema di rapporto di lavoro, la lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio licenziata illegittimamente ha diritto alle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto indipendentemente dalla trasmissione al datore di lavoro della relativa certificazione medica ove la lavoratrice provi che il datore di lavoro fosse a conoscenza del suo stato all’atto di recesso. A tale conclusione si deve pervenire, a maggior ragione, qualora si versi in un’ipotesi di rapporto di lavoro irregolare nel quale la lavoratrice che si trova nella peculiare condizione di un rapporto mai formalizzato può ritenere di non dover assolvere alcun onere di documentazione a cagione della irregolarità che lo caratterizza. (Cass. 20/7/2012 n. 12693, Pres. Vidiri Est. Mancino, in Riv. It. Dir. lav. 2013, Francesca Iaquinta, “Valore meramente probatorio del certificato di gravidanza e corresponsione della retribuzione alla lavoratrice irregolare illegittimamente licenziata”, 96)
  8. L’infondatezza nel merito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei confronti di lavoratrice madre può avvalorare la natura discriminatoria del licenziamento stesso, qualora il carattere non veritiero della sua motivazione faccia emergere diversi, soggettivi e illeciti, motivi di allontanamento della lavoratrice madre a pochi giorni dalla richiesta della stessa di un congedo parentale. Il licenziamento determinato da motivo discriminatorio fondato sulla maternità determina ai sensi dell’art. 25 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 3 L. 11/5/90 e comporta l’applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 SL. (Trib. Pisa 2/4/2009, Est. Santoni, in D&L 2009, con nota di Chiara Zambrelli, “In tema di licenziamento di lavoratrice madre”, 801)
  9. Il divieto di licenziamento della lavoratrice durante il periodo di tutela ai sensi dell’art. 10 Direttiva 92/85Ce (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e delle salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento) deve essere interpretato nel senso che esso vieta, non soltanto di notificare una decisione di licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio durante il periodo stesso, ma anche di prendere misure preparatorie a una tale decisione prima della scadenza di detto periodo. (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81)
  10. Il licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio è sempre discriminatorio ed è contrario alla Direttiva 76/207/Ce (relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro), qualunque sia il momento in cui la decisione di licenziamento è notificata e, dunque, anche se essa è notificata dopo la scadenza del periodo di tutela; in tale ipotesi la misura sanzionatoria scelta dallo Stato membro dovendo garantire una tutela giurisdizionale efficace e avere per il datore di lavoro un effetto dissuasivo reale, deve essere almeno equivalente a quella prevista per il diritto nazionale in esecuzione degli artt. 10 e 12 della Direttiva 92/85/Ce per il licenziamento per gravidanza posto in essere all’interno del periodo di tutela. (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81)
  11. La cessazione dell’attività quale ipotesi di deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre ex art. 2, 2° comma, lett. b), L. 1024/71 (ora art. 54, c. 3° lett. b, D.Lgs. 151/01), può ricomprendere anche la chiusura del reparto cui era addetta la dipendente, ma solo a condizione che la singola unità produttiva sia formalmente e strutturalmente autonoma e che non sussista nessuna possibilità di riutilizzare la lavoratrice presso un diverso reparto o una diversa struttura aziendale. La prova di siffatta impossibilità di ricollocamento ricade sul datore di lavoro, sicchè in difetto va dichiarata la nullità del licenziamento, con conseguente diritto della lavoratrice a ottenere il pagamento delle retribuzioni non corrisposte. Non rileva in proposito la mancata presentazione del certificato di gravidanza, trattandosi di adempimento che ha finalità esclusivamente probatorie e che come tale può essere sostituito dall’effettiva conoscenza dello stato di gravidanza ottenuta altrimenti dal datore di lavoro. (Cass. 16/2/2007 n. 3620, Pres. De Luca Est. Monaci, in D&L 2007, 497)
  12. Il divieto di licenziamento di cui all’art. 2, L. n. 1204/1971 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, il licenziamento intimato nonostante il divieto comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto, il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione del certificato attestante lo stato di gravidanza (art. 4, D.P.R. n. 1026/1976). Ove la lavoratrice sia stata assunta con contratto di formazione e lavoro, la determinazione del risarcimento in misura corrispondente all’importo delle retribuzioni maturate fino al termine del rapporto di formazione e lavoro tiene conto dell’effetto sospensivo del termine contrattuale per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, con conseguente proroga del termine medesimo per un periodo pari a quello della sospensione, essendo l’esecuzione del rapporto sospensioni per fatti non riconducibili alla volontà delle parti. (Cass. 1/2/2006 n. 2244, Pres. Senese Rel. Miani Canevari, in Lav. Nella giur. 2006, 701)
  13. Pone in essere un comportamento discriminatorio il datore di lavoro che licenzi una lavoratrice per il suo stato di gravidanza, fuori dai casi consentiti dal D.Lgs. 26/03/01 n. 151, con conseguente obbligo del datore di lavoro, sul piano della rimozione degli effetti, di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, di pagare alla stessa le retribuzioni dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa e di risarcire il danno non patrimoniale. (Trib. Pistoia 27/10/2005, decr., Est. De Marzo, in D&L 2006, con n. Sofia Lecconi, “Licenziamento discriminatorio e azione d’urgenza della Consigliera di Parità: presupposti e conseguenze”, 594)
  14. La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre per cessazione dell’attività presuppone il verificarsi di entrambi i presupposti previsti dalla norma e l’impossibilità di estendere analogicamente la fattispecie. (Cass. 18/5/2005 n. 10391, Pres. Mileo Rel. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2006, 92)
  15. Il licenziamento intimato alla lavoratrice all’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino in violazione dell’art. 2, secondo comma, L. n. 1204/1971, è affetto da nullità, a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61/1991, ed è improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento, in ragione del mancato guadagno. (Cass. 15/9/2004 n. 18537, Pres. Mattone Rel. Castaldi, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Lucia Casamassima, 237)
  16. Il divieto di licenziamento delle lavoratrici madri, previsto dall’art. 54, D. Lgs. n. 151/01, opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio, ancorchè il datore di lavoro sia inconsapevole, alla data del licenziamento, dello stato della lavoratrice. (Trib. Roma 10/4/2003, Pres. Cortesani Rel. Blasutto, in Lav. nella giur. 2003, 1172)
  17. Ai fini dell’applicabilità dell’art. 2, comma 3, lett. a), L. n. 1204/1971, il quale rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre quando ricorra la colpa grave della stessa, non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento, ma è necessario verificare, con onere probatorio a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2697 c.c., se sussista quella colpa prevista specificatamente dalla norma suddetta e diversa, per la richiesta connotazione di gravità, da quella cui si riferisce la legge o la disciplina collettiva per casi generici di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto. In definitiva, si tratta di un’ipotesi di colpa più qualificata dal punto di vista soggettivo in ragione delle condizioni psicofisiche in cui versa la lavoratrice madre. (Trib. Roma 30/5/2002, Est. Cocchia, in Lav. nella giur. 2003, 290)
  18. Il licenziamento intimato alla madre lavoratrice in violazione della L. n. 1204/71 è nullo , ma ad esso non è applicabile l’art. 18 St. lav. Ne consegue, alla stregua dei principi generali del vigente sistema, che la declaratoria di nullità comporta, da un lato, che il recesso va considerato fin dall’inizio privo di effetti risolutori del rapporto-che, pertanto, giuridicamente è sempre pendente fino a quando non se ne verifichi una legittima risoluzione-e, dall’altro lato, che il creditore ha diritto al risarcimento dei danni come previsto dall’art. 1223 c.c. Peraltro la speciale tutela stabilita per la lavoratrice madre non esonera la stessa dall’offrire la prestazione di lavoro per poter conseguire, con la ripresa della funzionalità in fatto del rapporto o, comunque, con la messa in mora del creditore, il diritto alle retribuzioni o al risarcimento del danno. (Trib. Milano 16/4/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 191)
  19. La garanzia per la lavoratrice del divieto di licenziamento intimato a causa di matrimonio nel periodo compreso tra la richiesta delle pubblicazioni ed un anno dalla celebrazione trova le uniche eccezioni nelle ipotesi previste nella stessa L. 9/1/63 n. 7. Ne consegue che è nullo, ai sensi della citata legge, il licenziamento intimato nell’anno dalla celebrazione delle nozze per avvenuto superamento del periodo di comporto. (Cass. 9/4/2002 n. 5065, Pres. Senese Est. Miani Canevari, in D&L 2002, 680, con nota di Lorenzo Franceschinis, “Tutela della lavoratrice per il licenziamento a causa di matrimonio e superamento del comporto”)
  20. Ai fini di verificare la sussistenza della colpa grave che, ex art. 2, l. 30/12/71, n. 1204, consente il licenziamento della lavoratrice in periodo di gestazione o puerperio, e che, per l’indicato connotato di gravità, è diversa dalla giusta causa e dal giustificato motivo soggettivo, nonché dalla colpa prevista dalla disciplina collettiva per generici casi d’infrazione o d’inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto, è necessario accertare, oltre che la ricorrenza di giusta causa di recesso, la sussistenza di quella colpa specificamente prevista, da provarsi dal datore di lavoro, nella condotta della lavoratrice, in ciò tenendosi conto del comportamento complessivo della lavoratrice stessa, in relazione alle sue particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gestazione, le quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (nella specie, la corte ha precisato doversi tenere conto, per valutare l’elemento psicologico, dell’avere la stessa lavoratrice, un’impiegata esattrice che è stata licenziata per un ammanco contabile, avvisato il datore di lavoro della differenza contabile risultante dai bollettini di versamento per consentirne un immediato controllo) (Cass. 21/9/00, n. 12503, pres. Ianniruberto, est. Balletti, in Foro it. 2001, I, 110; in Lavoro giur. 2001, 343, con nota di Ferrau’, Lavoratrice madre e “giusta causa” di licenziamento per “colpa grave”)
  21. Il licenziamento intimato alla lavoratrice madre durante il primo anno di vita della figlia – in assenza della sopravvenuta impossibilità definitiva della prestazione lavorativa – è nullo per violazione dell’art. 2 L. 30/12/71 n. 1204 ancorché nella lettera di licenziamento l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro sia stato differito a una data successiva al compimento del primo anno di età (Trib. Milano 15 aprile 2000, est. Cincotti, in D&L 2000, 785)
  22. Il licenziamento della lavoratrice madre intimato in violazione dell’art.2, 2° comma, L. 1204/71, nella formulazione risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 61/91, è nullo e, conseguentemente, non trova applicazione il regime sanzionatorio di cui all’ art. 18 S.L., bensì quello previsto per la nullità di diritto comune (Trib. Cassino 11/2/00,. est. Lisi, in Dir. lav. 2000, pag.376, con nota di Pietropaoli, La nullità del licenziamento della lavoratrice madre)
  23. Non integra la fattispecie della cessazione dell’attività dell’azienda, quale circostanza legittimante il recesso intimato nei confronti della lavoratrice madre o puerpera ex art. 2, 3° comma, lett. b), L. n. 1204/71, il licenziamento di tutti i dipendenti e la costituzione con alcuni di essi di rapporti di associazione in partecipazione (Trib. Cassino 11/2/00,. est. Lisi, in Dir. lav. 2000, pag.376, con nota di Pietropaoli, La nullità del licenziamento della lavoratrice madre)
  24. E’ nullo ai sensi dell’art. 2 L. 30/12/71 n. 1204 il licenziamento intimato alla lavoratrice madre prima del compimento del primo anno di età del bambino. Alla fattispecie si applica l’art. 18 SL a prescindere dalla verifica del numero dei dipendenti impiegati nell’impresa (Trib. Milano 9 febbraio 2000, est. Negri della Torre, in D&L 2000, 473)
  25. Alla lavoratrice madre illegittimamente licenziata non si applica il regime previsto dall’art. 18 SL, ma il regime della nullità di diritto comune, con la conseguenza che il licenziamento è inidoneo a estinguere il rapporto e la lavoratrice ha diritto al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1223 c.c. (Cass. sez. lav. 20 gennaio 2000 n. 610, pres. Delli Priscoli, est. Picone, in D&L 2000, 449, n. Messana, Licenziamento della lavoratrice madre)
  26. Al licenziamento della lavoratrice madre non è applicabile l’art. 6 L. 15/7/66 n. 604, che impone l’onere di impugnare il licenziamento entro il termine di decadenza di sessanta giorni (Cass. sez. lav. 20 gennaio 2000 n. 610, pres. Delli Priscoli, est. Picone, in D&L 2000, 449, n. Messana, Licenziamento della lavoratrice madre)
  27. Il licenziamento intimato da un’impresa con meno di 15 dipendenti nei confronti di una lavoratrice madre, in violazione della L. 30/12/71 n. 1204 (così come modificata dalla Corte Cost. con sent. n. 61 dell’8/2/91), è affetto da nullità, con conseguente carenza di effetti risolutori del recesso e continuazione del rapporto di lavoro, che è da considerare come giuridicamente esistente fino a quando non si verifichi una legittima causa di risoluzione. Non potendosi considerare interrotto il rapporto di lavoro, spetta il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 1223 c.c., in misura pari alle retribuzioni non corrisposte (Pret. Vallo della Lucania, sez. Agropoli, 5/2/98, est. De Luca, in D&L 1998, 474)
  28. Durante il periodo di gravidanza delle lavoratrici addette ai servizi domestici non si applica il divieto di licenziamento stabilito dall’art. 1 della L. 30/12/71 n. 1204, ma ai sensi dell’art. 2110 c.c., il giudice determina equitativamente il periodo all’interno del quale è sottratto al datore di lavoro il potere di recesso, pena la nullità del relativo atto di esercizio (Trib. Roma 2/12/98 (ord.), pres. ed est. Cecere, in D&L 1999, 408)
  29. E’ illegittimo il licenziamento di una lavoratrice madre intimato , prima del compimento di un anno di età del bambino, da una società di gestione di servizi mensa per la cessazione di uno degli appalti di cui è titolare e a cui era addetta la lavoratrice, se non prova l’autonomia organizzativa o funzionale del servizio cessato rispetto agli altri da essa gestiti e la inutilizzabilità della lavoratrice licenziata in altra occupazione all’interno dell’impresa (Cass. 8/9/99, n. 9551, in Riv. It. Dir. Lav. 2000, pag. 517, con nota di Marra, Sul licenziamento della lavoratrice madre per cessazione di attività (ma non dell’azienda) )
  30. Il licenziamento che trova la sua reale motivazione nello stato di maternità della lavoratrice dev’essere dichiarato nullo perché discriminatorio. Le conseguenze sono quelle di cui all’art. 18 SL alla luce del disposto di cui all’art. 3 L. 11/5/90 n. 108 che richiama l’art. 15 SL, dovendosi ricomprendere nelle discriminazioni per ragioni di sesso a fortiori quelle a causa della maternità (Pret. Milano 19/9/97, est. Atanasio, in D&L 1998, 193)
  31. Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, a nulla rilevando la conoscenza o meno dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro al momento del licenziamento, mentre va interpretata in senso restrittivo, con riferimento ai soli casi di cessazione totale dell’attività, la deroga di cui all’art. 2, L.30/12/71 n.1204, che non può essere riconosciuta in ipotesi di chiusura della sola unità produttiva alla quale la lavoratrice era addetta (Pret. Milano 23/12/96, est. di Ruocco, in D&L 1997, 646)
  32. E’ costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 2 c. 3 L. 1204/71, nella parte in cui non prevede l’inapplicabilità del divieto di licenziamento nel caso di recesso per esito negativo della prova (Corte cost. 31/5/96, pres. Ferri, rel. Mengoni, in D&L 1996, 919, con nota di ROMEO)
  33. La nozione di colpa grave, di cui alla lettera a) del comma 3 dell’art. 2 L. 1204/71, è specifica rispetto a quella generale presupposta dall’art. 2119 c.c., per cui per la configurazione della deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre è necessaria la sussistenza di una riprovevolezza intrinseca, di una colpa morale, di una gravità oggettiva del comportamento della lavoratrice che serva a superare la considerazione in cui vanno tenute le condizioni psico – fisiche della gestante (o della puerpera), la quale si trova a vivere una rivoluzione dei ritmi biologici e psichici con ineliminabili effetti anche nell’immediata vita di relazione, compresa l’attività lavorativa (nella specie sono stati ritenuti non costituire giusta causa di licenziamento l’effettuazione di sette ritardi nell’inizio dell’attività lavorativa e la timbratura tempestiva del cartellino orario da parte del convivente, anch’egli dipendente del medesimo datore di lavoro) (Pret. Pistoia 12/12/94, est. Amato, in D&L 1995, 412)
  34. La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre di cui all’art. 2 c. 3 lettera b) L. 1204/71 va intesa in senso restrittivo, con riferimento ai soli casi di cessazione totale dell’attività dell’azienda, con esclusione quindi dell’ipotesi di soppressione di un reparto o ufficio, anche se dotato di autonomia funzionale (Pret. Monza, sez. Desio, 8/11/94, est. Milone, in D&L 1995, 415)
  35. Il licenziamento intimato alla lavoratrice entro l’anno dalla celebrazione del matrimonio è nullo e non semplicemente inefficace e da tanto consegue il diritto della lavoratrice, oltre a un risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla ripresa del rapporto, alla reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato (Trib. Catania 23/11/94, pres. Pagano, est. Nigro, in D&L 1995, 433)

 

 

Dimissioni

  1. La procedura di convalida delle dimissioni della lavoratrice madre, anche nel contesto normativo precedente alle modifiche apportate dall’art. 4, comma 16, l. n. 92/2012, trova applicazione altresì rispetto alla risoluzione consensuale del rapporto, attesa l’identità dell’effetto dei due – pur diversi – atti, entrambi idonei a cagionare la risoluzione del rapporto. (Cass. 11/6/2015 n. 12128, Pres. Macioce Rel. Amendola, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Manuela Salvalaio, “La convalida della risoluzione consensuale nell’ambito della tutela della genitorialità tra novità e valenza confermativa della norma”, 129)
  2. Ritiene questo giudice di dover aderire all’orientamento assolutamente maggioritario in giurisprudenza, secondo cui la previsione dell’art. 55, comma 1, d.lgs. n. 151/2001 configura una presunzione de iuris et de iure, in base alla quale tutte le dimissioni rese entro un anno dalla nascita del bambino avrebbero come motivazione proprio la maternità. La norma non richiede affatto alcuna verifica delle motivazioni sottese alla scelta della lavoratrice, sicché la corresponsione delle indennità contrattuali e di legge (nel caso di specie l’indennità sostitutiva del preavviso) prescinde da un simile accertamento. (Trib. Bergamo 14/11/2013 n. 852, Giud. Corvi, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Isabella Seghezzi, 386)
  3. Ai sensi dell’art. 55 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 la lavoratrice madre nel primo anno di età del figlio è legittimata a rassegnare le dimissioni senza onere di preavviso, anche qualora la stessa si ricollochi immediatamente nel mercato del lavoro, con conseguente illegittimità della trattenuta operata dal datore di lavoro della corrispondente indennità sostitutiva. (Trib. Bergamo 9/2/2012, Est. Bertoncini, in D&L 2012, 588)
  4. La tutela relativa all’estinzione del rapporto di lavoro per dimissioni della lavoratrice madre, al pari di quella relativa al licenziamento, opera in modo oggettivo, indipendentemente dalla consapevolezza della donna riguardo al proprio stato di gravidanza. L’ignoranza del proprio stato da parte della lavoratrice non esclude la necessità della convalida delle dimissioni da parte dell’Ispettorato del lavoro. (Trib. Lucca 2/10/2007, Giud. Nannipieri, in Riv.it.dir.lav. 2008, con nota di Cristina Cominato, “La non consapevolezza dello stato di gravidanza non è sufficiente a escludere l’applicabilità della disciplina delle dimissioni della lavoratrice madre”, 137)
  5. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., dell’art. 55, 4° comma, D.Lgs. 26/3/01 n. 151, nella parte in cui richiede la convalida delle dimissioni rese dalla lavoratrice in stato di gravidanza; ne consegue l’inefficacia delle dimissioni rassegnate in stato di gravidanza non convalidate dall’organo amministrativo. (Trib. Firenze 12/12/2005, Est. D’Amico, in D&L 2006, con n. Lisa Amoriello, “La convalida delle dimissioni rese in stato di gravidanza nel labirinto delle fonti”, 616)
  6. Ai sensi degli artt. 54 e 55, D.Lgs. n. 151/2001, la lavoratrice madre (o il lavoratore padre) che dia le dimissioni durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento ha diritto, in ogni caso, all’indennità sostitutiva del preavviso dovendosi considerare irrilevanti i motivi delle dimissioni non solo per il tenore letterale delle citate disposizioni, ma anche perché l’opzione interpretativa opposta postulerebbe di volta in volta un accertamento in fatto il cui contenuto e i cui limiti sono di incerta definizione. (Trib. Milano 14/11/2005, Est. Di Rocco, in Lav. Nella giur. 2006, 617)
  7. Il comma 4 dell’art. 55 D.Lgs. n. 151/2001, a norma del quale la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice durante il periodo della gravidanza, e della lavoratrice o del lavoratore, durante il primo anno di vita del bambino deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, convalida alla quale è condizionata la risoluzione del rapporto, non è applicabile all’ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto nella quale interviene la manifestazione di volontà e di autonomia negoziale di entrambe le parti. (Trib. Milano 27/7/2004, Est. Porcelli, in Lav. nella giur. 2005, 291)
  8. Ai sensi dell’art. 12 L. 30/12/71 n. 1204 e dell’art. 24, 3° comma, Cnlg 16/11/95, la lavoratrice madre che, entro l’anno in cui il divieto legale di licenziamento, rassegni le proprie dimissioni ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, a prescindere dalla circostanza che la stessa abbia contestualmente reperito una nuova occupazione. (Trib. Milano 15/11/2001, Est. Porcelli, in D&L 2002, 417, con nota di Stefano Chiusolo, “Le dimissioni del giornalista con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso”. In senso conforme, v. Trib. Milano 13/12/2001, Est. Curcio, in D&L 2002, 417)
  9. La previsione dell’art. 2, l. n. 1204/71, che in caso di dimissioni volontarie nel periodo di divieto di licenziamento garantisce alla lavoratrice il diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, è fondata sulla presunzione di non completa spontaneità delle dimissioni, dovute alla necessità di occuparsi esclusivamente del bambino o, comunque, con una dedizione tale da poter ostacolare la migliore esecuzione della prestazione lavorativa. Tale presunzione, peraltro, non può operare in modo assoluto, in quanto l’imposizione indiscriminata di obblighi indennitari al datore di lavoro contrasterebbero col principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3, 2° comma, Cost.), che si concreta in tal caso in quello di responsabilità e nella necessità che all’indennizzo corrisponda almeno un “pericolo” di danno, e realizzerebbe una sorta di premio di maternità a carico non già del sistema previdenziale ma dell’imprenditore, con ingiustificata riduzione della sua libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.). Conseguentemente, le suddette indennità non sono dovute, perché contrarie alla “ratio legis”, quando il datore di lavoro provi che la lavoratrice abbia, senza intervallo di tempo, iniziato un nuovo lavoro dopo le dimissioni e la medesima, a sua volta, non provi che il nuovo lavoro sia per lei meno vantaggioso sul piano sia patrimoniale sia non patrimoniale (ad es. per gravosità delle mansioni o per maggior distanza della sede di lavoro dall’abitazione etc.) (Cass. 19/8/00, n. 10994, pres. Grieco, est. Roselli, in Orient. giur. lav. 2000, pag.725; in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 515, con nota di Marino, Indennità di preavviso e lavoratrice madre che abbia trovato nuova occupazione; in Lavoro giur. 2001, pag. 836, con nota di Girardi, Dimissioni volontarie della lavoratrice madre nel periodo di divieto di licenziamento)

 

 

Trasferimento

  1. La lavoratrice madre, al termine dei periodi di interdizione al lavoro disciplinati dal Cpo II e Capo III del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, ha diritto al rientro al lavoro nella stessa unità produttiva ove prestava attività all’inizio dell’astensione, o in altra ubicata nel medesimo comune. L’invio in trasferta della lavoratrice, che impedisca la ripresa dell’attività lavorativa ai sensi dell’art. 56, comma 1, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, in violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, è illegittimo. Il rifiuto opposto dalla lavoratrice alla disposizione datoriale di prestare attività in luogo diverso e in violazione di tale diritto, è legittimo e giustifica l’assenza. Il licenziamento intimato sul presupposto che l’opposizione alla contestata collocazione integri colpa grave, viola l’art. 54, comma 3, lett. A), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151. (Cass. 30/6/2016 n. 13455, Pres. Venuti Rel. Negri Della Torre, in Lav. nella giur. 2016, con commento di Enrico Claudio Schiavone, 981)
  2. Il trasferimento della lavoratrice al rientro dal congedo di maternità è illegittimo anche se la gravidanza si è conclusa con la nascita di un bambino morto. (Trib. Milano 6/7/2002, ord., Pres. Ed Est. Cecconi, in D&L 2002, 957)
  3. La lavoratrice madre può legittimamente opporsi a un trasferimento disposto per la soppressione della posizione lavorativa avvenuta nel periodo di astensione dal lavoro per maternità; non è, quindi, legittima la reazione del datore di lavoro che proceda a licenziamento con la motivazione dell’inutilizzabilità della lavoratrice presso la sede originaria a seguito del disposto trasferimento, con conseguente reintegrazione nel posto precedentemente occupato (Pret. Milano 7/11/96, est. Peragallo, in D&L 1997, 325, nota Pirelli, In tema di trasferimento della lavoratrice madre)
  4. In caso di mutamento della zona di lavoro affidata alla lavoratrice madre, il carattere discriminatorio della decisione del datore di lavoro può desumersi dalla coincidenza temporale del mutamento di zona con l’assenza per maternità della lavoratrice e dal conseguente peggioramento delle condizioni lavorative tale da impedire alla lavoratrice l’adempimento dei suoi doveri di madre (Pret. Milano 24/6/95, est. Frattin, in D&L 1995, 970)

 

 

Normativa comunitaria

  1. L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che una donna che abbia cessato di esercitare un’attività autonoma a causa delle limitazioni fisiche connesse alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto conserva la qualità di persona che esercita un’attività autonoma, purché riprenda tale attività o trovi un’altra attività autonoma o un impiego entro un periodo di tempo ragionevole dopo la nascita del figlio. (Corte di Giustizia, sez. IV, 19/9/2019, C-544/18, Est. Vilaras, in Riv. It. Dir. Lav. 2020, con nota di D. Diverio, “L’assenza dal mercato del lavoro a motivo della gravidanza non pregiudica lo status di lavoratore (neppure) per la lavoratrice autonoma”, 168)
  2. La lavoratrice che, in conformità all’art. 5, n. 2, della direttiva 92/85, sia stata provvisoriamente assegnata, a causa della sua gravidanza, ad un posto nella quale essa svolge mansioni diverse rispetto a quelle che esercitava anteriormente all’assegnazione, non ha diritto alla retribuzione che percepiva in media anteriormente a detta assegnazione, fermo restando il mantenimento dello stipendio base e delle integrazioni legate allo status professionale. (Corte di Giustizia 1/7/2010, causa C-471/08, Pres. Cunha Rodrigues Rel. Caoimh, in Riv. it. dir. lav. 2011, con nota di Elena de Gregorio, “Sui limiti della garanzia retributiva spettante alla lavoratrice madre adibita ad altre mansioni per la tutela della salute e della sicurezza sua e del bambino”, 202)
  3. La lavoratrice temporaneamente dispensata dal lavoro a causa della gravidanza ovvero la lavoratrice in congedo di maternità ha diritto a una retribuzione equivalente allo stipendio medio dalla stessa percepito nel corso di un periodo di riferimento anteriore all’inizio della gravidanza, con l’esclusione degli elementi della retribuzione o delle indennità che dipendono dall’esercizio di funzioni specifiche in condizioni particolari, tra cui l’indennità per servizio di guardia. (Corte di Giustizia 1/7/2010, causa C-194/08, Pres. Cunha Rodrigues Rel. Caoimh, in Riv. it. dir. lav. 2011, con nota di Elena de Gregorio, “Sui limiti della garanzia retributiva spettante alla lavoratrice madre adibita ad altre mansioni per la tutela della salute e della sicurezza sua e del bambino”, 202)
  4. L’art. 3 del regolamento CEE del Consiglio 14 giugno 1971, n,. 1408, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, nella sua versione modificata e aggiornata dal regolamento CE del Consiglio 2 dicembre 1996, n. 118/97, deve essere interpretato nel senso che una persona divorziata, cui sono state versate le prestazioni familiari dall’ente competente dello Stato membro in cui essa risiedeva e in cui il suo ex coniuge continua a vivere e lavorare, conserva, per il proprio figlio e a condizione che quest’ultimo sia un componente del nucleo familiare dell’ex coniuge, ai sensi dell’art. 1, lett. f), i), del citato regolamento, il beneficio di dette prestazioni anche qualora lasci tale Stato per stabilirsi con il figlio in un altro Stato membro dove essa non lavora e anche qualora l’ex coniuge possa percepire tali prestazioni nel suo Stato membro di residenza. L’esercizio, a opera di una persona che si trovi in una situazione quale quella della ricorrente nella causa principale, di un’attività professionale nello Stato membro in cui risiede che faccia effettivamente sorgere un diritto a prestazioni familiari ha l’effetto di sospendere, in applicazione dell’art. 76 del regolamento n. 1408/71, il diritto alle prestazioni familiari dovute in forza della legislazione dello Stato membro nel cui territorio l’ex coniuge di tale persona esercita un’attività professionale, fino a concorrenza dell’importo previsto dalla legislazione dello Stato membro di residenza di quest’ultimo. (Corte di Giustizia 26/11/2009 C. 363/08, Pres. Bonichot Avv. Gen. Polares Maduro, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Stefano Giubboni, “Libera circolazione delle persone, prestazioni familiari e regole comunitarie anticumulo”, 479)
  5. La direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, n. 92/85, in merito al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti di cui all’art. 10, punto 1, deve essere interpretato nel senso che essa non riguarda una lavoratrice che si sia sottoposta a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. (Corte di Giustizia 26/2/2008, Grande Sezione, n. C-506/6, Pres. Skouris, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Lorena Forni, “La Corte di Giustizia europea e i diritti delle lavoratrici gestanti nel caso della fecondazione assistita”, 747)
  6. L’art. 2 della Direttiva del Consiglio 9/12/76, 76/207/Cee (relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionali e le condizioni di lavoro) deve essere interpretato nel senso che osta a che la lavoratrice, che prima della scadenza del congedo parentale intende essere reintegrata nel suo posto con il consenso del datore di lavoro, sia tenuta ad informare quest’ultimo del proprio stato di gravidanza nel caso in cui, a causa di taluni divieti posti dalla normativa sul lavoro, non possa svolgere talune mansioni. L’art. 2 n. 1 della medesima direttiva 76/207/Cee deve essere interpretato nel senso che osta a che un datore di lavoro possa, ai sensi del diritto nazionale, rimettere in discussione l’accordo da lui dato al reintegro di una lavoratrice nel suo posto prima della scadenza del congedo parentale per il motivo che avrebbe versato in errore sullo stato di gravidanza dell’interessata. (Corte di Giustizia CE 27/2/2003 causa C 320/01, Pres. C.W.A. Timmermans Rel. Wathelet, in D&L 2003, 277, con nota di Giovanni Paganuzzi, “Ancora in tema di comunicazione dello stato di gravidanza”)
  7. L’art. 10 della direttiva del Consiglio 19/10/92 n. 92/85/Ce (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento) ha un effetto diretto e deve essere interpretato nel senso che, in mancanza di misura di trasposizione adottate da uno Stato membro entro il termine prescritto da tale direttiva, esso conferisce ai singoli diritti che questi possono far valere dinanzi ad un giudice nazionale nei confronti delle autorità di tale Stato. (Corte di Giustizia CE 4/10/2001, causa C-438/99, Pres. La Pergola Rel. M. Wathelet, in D&L 2002, 299)

 

 

Le segnalazioni della Newsletter di Wikilabour in tema di maternità

  1. L’indennità di volo va conteggiata integralmente, sia nella parte fissa che in quella variabile, ai fini del calcolo dell’indennità di maternità delle assistenti di volo. Secondo l’ente previdenziale, viceversa, l’indennità andrebbe calcolata al 50%, in forza del parallelismo con l’indennità di malattia per la quale la base di calcolo dei contributi fa riferimento a quella imponibile ai fini fiscali, che prevede la riduzione al 50% dell’indennità di volo. La Corte viceversa ribadisce (in precedenza cfr. Cass. n. 11414/18, in Newsletter n. 10/18) l’autonomia dell’indennità di maternità per ciò che riguarda i criteri di calcolo. La particolarità del caso è rappresentata dal fatto che il giudizio era stato introdotto secondo il rito sommario previsto per le discriminazioni di genere dalla lavoratrice e dalla consigliera provinciale di parità, poiché si sosteneva che il comportamento dell’ente previdenziale, oltre che illegittimo, sarebbe stato anche discriminatorio. Su tale secondo aspetto (contrastato dall’ente previdenziale) la Corte non si pronuncia, ritenendolo assorbito; senza denunciare l’anomalia del rito prescelto dalle ricorrenti, evidentemente in omaggio ai principi di effettività della giurisdizione, quando, nonostante il rito diverso, venga comunque rispettato il principio del contradditorio. (Cass. 29/9/2020 n. 20673, Pres. Manna Rel. Ghinoy, in Wikilabour, Newsletter n. 16/2020)
  2. Difficoltà della lavoratrice madre di minore, nel periodo dell’emergenza Covid, e condotta secondo buona fede del datore di lavoro: illegittimo il licenziamento per assenze ingiustificate.
    La ricorrente, madre di una figlia minore di dodici anni, aveva chiesto di fruire del congedo parentale per il periodo di sospensione delle attività didattiche previsto dalla normativa d’urgenza. Il datore di lavoro la licenziava per assenze ingiustificate, per non aver la stessa rinnovato la richiesta iniziale al protrarsi del periodo di sospensione delle attività didattiche. Il Tribunale afferma che tale condotta violi i doveri di buona fede e di cooperazione che impongono al datore di lavoro, al di là dei formalismi, di bilanciare l’interesse aziendale con le situazioni di difficoltà personali del lavoratore che lo impediscano nel lavoro. Il Giudice esclude la sussistenza della giusta causa di licenziamento, accertando peraltro l’impossibilità di rendere la prestazione, ai sensi dell’art. 1218 c.c., stante la necessità della lavoratrice di assistere la figlia durante la sospensione delle lezioni come da ratio della normativa emergenziale Covid, estensiva del congedo parentale (Trib. Trento 8/9/2020, Giud. Flaim, in Wikilabour, Newsletter n. 16/2020)
  3. Lavoratrici madri assistenti di volo: discriminatorio non includere l’indennità di volo minima garantita nella base di calcolo dell’indennità di maternità.
    Il Tribunale di Novara ha dichiarato discriminatoria la condotta tenuta da INPS che ha corrisposto a un’assistente di volo l’indennità di maternità non tenendo conto, ai fini del calcolo in rapporto alla retribuzione, dell’indennità di volo minima garantita. Il Tribunale ha inoltre affermato che la discriminazione in base al sesso, se legata allo stato di gravidanza, è svincolata dalla necessità di comparazione rispetto al trattamento riservato a gruppi consimili: deve, dunque, qualificarsi come discriminatorio qualsivoglia trattamento che determini la compressione o la negazione di un diritto per via della condizione di madre. (Trib. Novara 16/6/2020, Giud. Boido, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2020)
  4. Dovuta alle lavoratrici iscritte alla gestione separata INPS l’indennità di maternità per il periodo di astensione anche se percepiscono redditi svincolati dall’effettiva attività lavorativa.
    La pronuncia è relativa al periodo antecedente al 14 giugno 2017, prima che il D.Lgs. n. 81/2017 svincolasse, per questo tipo di lavoratrici, l’indennità per i due mesi precedenti e i tre successivi alla data del parto dall’obbligo di astensione. Con un’accurata analisi della normativa applicabile, la Corte rileva anzitutto che prima della suddetta data sussisteva l’obbligo di astensione delle lavoratrici iscritte alla gestione separata, così come per le lavoratrici dipendenti. Ma data la varietà dei tipi di prestazioni iscritte a tale gestione, era possibile e consentito, per alcuna di esse, l’erogazione di un compenso nel periodo considerato, pur svincolato dalla effettiva prestazione. Tanto si era verificato nel caso esaminato, in cui la Corte riconosce il diritto all’indennità a un’amministratrice di società di capitali, la quale aveva percepito nel periodo di astensione il compenso per la carica, senza effettuare nel medesimo periodo alcuna prestazione. (Cass. 12/3/2020 n. 7089, Pres. Manna Rel. Ghinoy, in Wikilabour, Newsletter n. 7/2020)