Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE)

Tu sei qui:

Questa voce è stata curata da Nicoletta Lazzarini

 

Scheda sintetica

La Corte di giustizia dell’Unione Europea è un’istituzione dell’Unione europea; ha sede a Lussemburgo e si compone di un giudice per ogni Stato membro dell’UE e otto avvocati generali. I membri della corte sono in carica per sei anni rinnovabili.
La Corte di giustizia (per brevità, CGCE), istituita nel 1952 dal trattato CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), non va confusa né con la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia (che dipende dall’ONU), né con la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (parte del Consiglio d’Europa).
La sua funzione è di garantire che la legislazione dell’UE sia interpretata e applicata in modo uniforme in tutti i paesi dell’Unione; in altre parole, la Corte ha il compito di garantire l’osservanza del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati istitutivi dell’Unione europea e nell’interpretazione e nell’applicazione della Costituzione europea. Essa vigila, dunque, affinché gli Stati membri e le istituzioni agiscano conformemente alla legge e ha il potere di giudicare le controversie tra Stati membri, istituzioni comunitarie, imprese e privati cittadini.

 

Un breve cenno di introduzione storica

Il 18 aprile 1951, al momento della firma del trattato di Parigi istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), i sei Stati membri fondatori (Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) decisero di creare un organo giurisdizionale incaricato di garantire il rispetto del diritto comunitario, di farlo applicare uniformemente da tutti gli Stati membri e di risolvere le controversie provocate dalla sua applicazione: la Corte di giustizia della CECA.
Il primo presidente della Corte di giustizia (dal 1952 al 1958) è stato l’italiano Massimo Pilotti.
Il 25 marzo 1957, i trattati di Roma istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM) crearono un nuovo organo giurisdizionale, la Corte di giustizia delle Comunità europee (CGCE), comune alle tre (CECA, CEE, EURATOM) Comunità.

 

Come si compone la Corte e quali altri organi giurisdizionali la affiancano

La Corte di giustizia è costituita da un giudice per ciascuno Stato membro, in modo da rappresentare tutti i 27 ordinamenti giuridici nazionali dell’UE. Tuttavia, per motivi di efficienza, raramente la Corte si riunisce in seduta plenaria. Di norma, si tratta di riunioni in “grande sezione”, costituita da 13 giudici, o in “sezioni”, rispettivamente di cinque o di tre giudici. La Corte si riunisce in seduta plenaria in casi molto eccezionali tassativamente previsti dai trattati e quando la Corte ritiene che una causa rivesta particolare importanza.
La Corte si avvale dell’assistenza di otto “avvocati generali”, che hanno il compito di presentare, pubblicamente e con assoluta imparzialità, conclusioni motivate sulle cause sottoposte alla propria giurisdizione.
I giudici e gli avvocati generali sono personalità d’indubbia imparzialità, in possesso delle qualifiche o della competenza richieste per ricoprire le più alte cariche giurisdizionali nei paesi di origine. Sono nominati alla Corte di giustizia in base ad un accordo congiunto tra i governi degli Stati membri, e rimangono in carica per un periodo rinnovabile di sei anni. I giudici della Corte designano tra loro il presidente della Corte con un mandato di 3 anni, rinnovabile.
La tutela giurisdizionale dell’Unione europea è affidata a tre organi giurisdizionali con differenti e coordinate competenze: la Corte di giustizia, il Tribunale di primo grado (1988) e il Tribunale della funzione pubblica (2004).
Per coadiuvare la Corte nella gestione del gran numero di cause portate in giudizio e per offrire ai cittadini una maggiore tutela giuridica, è stato, infatti, creato nel 1988 un “Tribunale di primo grado”. Questo Tribunale, che affianca la Corte di giustizia, è competente a pronunciarsi su determinati tipi di cause, quali azioni promosse da privati cittadini, società e alcune organizzazioni, nonché su ricorsi inerenti il diritto della concorrenza. Anche questo tribunale è composto da un giudice per ogni Stato membro.
Il Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea si pronuncia in merito alle controversie tra le Comunità e i suoi agenti. È, quindi, l’organo giurisdizionale competente a decidere in merito al contenzioso sul pubblico impiego. E’ composto da sette giudici ed è affiancato al Tribunale di primo grado.
La Corte di giustizia, il Tribunale di primo grado e il Tribunale della funzione pubblica designano ciascuno, fra i rispettivi giudici, il proprio presidente con mandato triennale rinnovabile. Nel 2003 è stato eletto presidente della Corte di giustizia Vassilios Skouris. Marc Jaeger è l’attuale presidente del Tribunale di primo grado. Paul J. Mahoney è presidente del Tribunale della funzione pubblica dal 2005.

 

Competenze e poteri della Corte di giustizia

La Corte di giustizia è dotata di ampie competenze giurisdizionali, che esercita nell’ambito delle varie categorie di ricorsi. Il compito della Corte è, in particolare, quello di assicurare il rispetto del diritto comunitario attraverso il controllo giurisdizionale degli atti e dei comportamenti delle istituzioni, nonché attraverso l’interpretazione del diritto comunitario.
Le principali attribuzioni della Corte, finalizzate ad assicurare un’unità di interpretazione (quale necessario presupposto per un’integrazione effettiva), possono essere così sintetizzate con riferimento alle norme previste nel Trattato istitutivo:

  • l’esame dei ricorsi in tema di inadempimento degli Stati membri (artt. 226-228 TCE);
  • il controllo sulla legittimità degli atti comunitari (artt. 230 -231 TCE);
  • il controllo sul comportamento omissivo delle istituzioni (art. 232 TCE), ovvero i ricorsi per carenza;
  • la competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dei trattati e sulla validità e sull’interpretazione degli atti delle istituzioni (art. 234 TCE);
  • l’esame dei ricorsi per il risarcimento dei danni derivanti da responsabilità extracontrattuale delle Comunità (artt. 235 e 288 TCE).

Altre competenze della Corte riguardano le controversie tra la Comunità e i suoi agenti (art. 236 TCE), i ricorsi contro le sanzioni pecuniarie (art. 229 TCE), le controversie aventi ad oggetto l’applicazione di atti, adottati in base al Trattato CE, che creano titoli comunitari di proprietà industriale (art. 229 A, TCE, aggiunto dal Trattato di Nizza).
Le attribuzioni della Corte sono tassative: al di fuori dei casi espressamente previsti dai trattati, la competenza spetta ai giudici nazionali, secondo le norme degli ordinamenti ai quali appartengono, anche qualora debbano essere parte in giudizio le Comunità (art. 240 TCE).
Il sistema della tutela giurisdizionale della Corte comprende, dunque:

  • i ricorsi cd. diretti (ovvero di giurisdizione contenziosa), che si caratterizzano per l’azione diretta dei soggetti interessati davanti alla CGCE (o al Tribunale di primo grado, o al Tribunale della funzione pubblica);
  • un ricorso indiretto (ovvero di giurisdizione non contenziosa), che si identifica con il procedimento di rinvio pregiudiziale, proposto dinnanzi ai giudici nazionali e successivamente portati all’esame della CGCE.

In sintesi, i principali procedimenti sui quali la Corte è competente a pronunciarsi sono:

  1. il ricorso per inadempimento
  2. il ricorso per annullamento
  3. il ricorso per carenza
  4. l’azione per il risarcimento dei danni
  5. il rinvio pregiudiziale

 

 

Il ricorso per inadempimento

Si tratta del giudizio della Corte in merito alla violazione degli obblighi degli Stati membri derivanti dai Trattati e dagli atti vincolanti delle istituzioni.
La procedura di infrazione può essere promossa unicamente dalla Commissione (art. 226 TCE) o da uno Stato membro (art. 227 TCE).

a) La Commissione esercita il compito di vigilanza sull’applicazione delle disposizioni del Trattato e delle disposizioni adottate in virtù dello stesso: “Quando la Commissione reputa che uno Stato membro abbia violato gli obblighi derivanti dai trattati, emette un parere motivato dopo averlo posto in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo Stato in causa non si conferma a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia” (art. 226 TCE).
La disposizione distingue due fasi del procedimento: una fase precontenziosa, che si instaura dinnanzi alla Commissione: una contenziosa, davanti alla CGCE, meramente eventuale, che ha luogo qualora lo Stato membro non abbia rispettato il termine impartitogli.
La fase precontenziosa è caratterizzata dalla lettera di messa in mora e dal parere motivato. Attraverso la lettera di messa in mora la Commissione mette in evidenza la violazione commessa dallo Stato e fissa per quest’ultimo una scadenza entro la quale deve presentare le sue osservazioni in merito.
A seguito della lettera di messa in mora, ricevute le osservazioni, o in assenza delle stesse, la Commissione indirizza allo Stato un parere motivato, che viene adottato nel solo caso in cui non si raggiunga un accordo tra lo Stato interessato e la stessa Commissione. Con detto parere la Commissione sottolinea l’inadempimento e invita lo Stato a conformarsi agli obblighi del trattato, così da eliminare il comportamento illecito.
Qualora lo Stato non si sia conformato al parere motivato può essere avviata la fase contenziosa. Non sussiste alcun obbligo per la Commissione di adire la Corte e il ricorso non ha come oggetto l’inosservanza del parere motivato, bensì l’inadempimento dello Stato agli obblighi del trattato.

b) Il ricorso per inadempimento può essere proposto anche da qualsiasi Stato membro, qualora reputi che un altro Stato membro abbia violato gli obblighi discendenti dal trattato. Anche lo Stato che esercita tale potere d’azione deve rivolgersi prima alla Commissione, pena l’irricevibilità del ricorso.
Lo Stato deve esplicitare le ragioni sulle quali è fondata la richiesta di intervento della Commissione, la quale tenta la conciliazione, ponendo gli Stati in condizione di presentare osservazioni, scritto o orali.
La Commissione, al termine del contraddittorio tra le parti, può non reputare fondate le motivazioni addotte dallo Stato che l’ha adita o non essere in grado di assumere una posizione precisa; può aderire alla tesi dello Stato che si assume inadempiente, ovvero non formulare alcun parere motivato nel termine di tre mesi dalla presentazione della domanda. Nelle prime due ipotesi è sempre possibile il ricorso alla CGCE, dal momento che il parere motivato non è vincolante; qualora la Commissione ritenga di condividere la tesi dello Stato che ha presentato ricorso, il ricorso avrà luogo solo se lo Stato non si sia conformato al parere entro il termine stabilito ovvero non abbia posto fine al comportamento inadempiente.
Se la Corte accoglie il ricorso della Commissione può comminare allo Stato inadempiente il pagamento di una somma forfettaria o di uno penale.

 

Il ricorso per annullamento

Si tratti di giurisdizione contenziosa della Corte avendo ad oggetto il comportamento delle istituzioni comunitarie nell’emanazione di atti vincolanti. Una violazione del trattato può, infatti, concretarsi nell’emanazione di atti illegittimi (art. 230 TCE ).
La Corte esercita il proprio controllo di legittimità sugli atti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE che siano raccomandazioni o parerei, nonché sugli atti del Parlamento europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi (ovvero, gli atti vincolanti).
La legittimazione a ricorrere alla CGCE spetta, in tal caso:

  1. alle istituzioni comunitarie (Parlamento, Consiglio e Commissione) e agli Stati membri – cd. ricorrenti privilegiati – nonché alla Corte dei conti e alla BCE – che possono proporre ricorso esclusivamente per salvaguardare le proprie prerogative;
  2. a persone fisiche e giuridiche – cd. ricorrenti non privilegiati – che possono proporre ricorso al Tribunale di primo grado solo nell’ipotesi in cui gli atti di cui si chiede di accertare l’illegittimità produca effetti vincolanti che li riguardino direttamente e individualmente (art. 230 TCE).

Il ricorso, sottoposto a un termine di decadenza di due mesi dalla pubblicazione o dalla notificazione dell’atto, può avere ad oggetto i seguenti vizi:

  1. incompetenza – l’istituzione che ha emanato l’atto non aveva il potere di emanarlo;
  2. violazione delle forme sostanziali – mancanza di un requisito di forma essenziale;
  3. violazione del trattato o delle norme giuridiche relative alla sua applicazione – tale vizio èuò riguardare anche i principi del diritto comunitario non scritto o norme internazionali vincolanti per le Comunità;
  4. sviamento di potere – il potere è stato esercitato per un fine diverso da quello per il quale tale facoltà era stata conferita.

 

 

Il ricorso per carenza

Sempre in ambito di giurisdizione contenziosa, il comportamento delle istituzioni comunitarie può essere oggetto di ricorso per carenza qualora la violazione del trattato consista nell’astensione dall’emanazione di atti dovuti.
Sono legittimati al ricorrente alla Corte:

  1. gli Stati membri e le istituzioni (compreso il Parlamento e la BCE) diverse da quelle che hanno omesso gli atti dovuti (art. 232 TCE), nonché le persone fisiche e giuridiche, se l’atto omesso le riguarda direttamente e non si tratta di raccomandazioni o pareri;
  2. tra i legittimati passivi è opra compreso anche il Parlamento europeo.

Prima di adire la Corte, è necessario che l’istituzione che ha omesso l’atto dovuto sia messa in mora e che, ciò nonostante, non abbia preso posizione. Il ricorso può essere proposto entro i due mesi successivi.

 

L’azione per il risarcimento dei danni

Ai sensi dell’art. 288 TCE, la Corte è chiamata a giudicare in materia di responsabilità extracontrattuale riguardante i danni causati dalle istituzioni (compresa la BCE) o dagli agenti della Comunità nell’esercizio delle loro funzioni.
La Corte, su ricorso di qualsiasi individuo o impresa che abbia subito un danno in conseguenza dell’azione o dell’inazione della Comunità (o del suo personale), è tenuta a risarcire il danno conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stai membri.
La caratteristica di tale procedura consiste nella totale autonomia ed indipendenza dalle procedure di “ricorso per annullamento” e “ricorso per carenza”. Sebbene, infatti, la responsabilità possa insorgere anche in conseguenza dell’emanazione di atti normativi illegittimi (o di omissione di atto dovuto) è necessaria un’ulteriore azione al fine della determinazione della responsabilità extracontrattuale.

 

Il rinvio pregiudiziale

Alla Corte spetta, altresì, la competenza esclusiva a titolo pregiudiziale sull’interpretazione dei trattati e la validità degli atti delle istituzioni e della BCE (art. 234 TCE). Il fine di tale attribuzione è quello di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto comunitario per una sua corretta e uniforme applicazione.
Pregiudiziale significa, in tal caso, che la Corte si pronuncia prima che un giudice nazionale posso decidere la controversia sottoposta al proprio giudizio.
Il rinvio pregiudiziale può avere ad oggetto:

  1. la corretta interpretazione da attribuire a disposizioni del trattato, o di atti di diritto derivato (ad esempio, regolamenti, direttivo, decisioni, ecc…). In tal caso la questione interpretativa può investire precedenti pronunce della Corte, accordi internazionali conclusi dalla Comunità, nonché le convenzioni stipulati dagli Stati membri nel quadro dell’ordinamento comunitario. Compito della Corte è dunque quello di chiarire il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore.
  2. La validità di un atto di diritto comunitario derivato, verificando se esso rispetti tutte le regole giuridiche applicabili nel quadro dell’ordinamento comunitario. L’atto impugnato può essere dalla Corte annullato o dichiarato invalido; pur essendo gli effetti della pronuncia pregiudiziale limitati alla controversia in esame, le istituzioni tendono a comportarsi come se fosse intervenuto un annullamento dell’atto, provvedendo a modificarlo o sostituirlo.

Il rinvio pregiudiziale ha caratteristiche procedurali analoghe a quelle proprie dell’azione di annullamento, differenziandosi da quest’ultima per il profilo della legittimazione attiva. Possono, infatti, presentare anche le persone fisiche e giuridiche non direttamente o individualmente investite dall’atto impugnato.
Precisa l’art. 234 TCE che quando una questione di interpretazione e validità degli atti comunitari è sollevata davanti a una giurisdizione nazionale, tale giurisdizione può “qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione sul punto” domandare alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla questione.
La valutazione del giudice non di ultima istanza sulla necessità o meno di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte è pienamente discrezionale. Qualora si tratti di un giudice di ultima istanza, nel nostro caso la Cassazione, la remissione è obbligatoria. Esistono tuttavia dei margini di discrezionalità: quando una identica questione è già stata oggetto di pronuncia da parte della Corte, ovvero quando le norme hanno un senso chiaro e univoco (cd. teoria dell’atto chiaro), anche l’iniziativa del giudice di ultima istanza è facoltativa.

Si ricorda, inoltre, la procedura di impugnazione con cui la Corte statuisce sui ricorsi contro le sentenze del Tribunale di primo grado. In tal caso, se l’impugnazione è fondata, la Corte annulla la sentenza del Tribunale (con o senza rinvio degli atti al Tribunale stesso), altrimenti la conferma;
Con il procedimento di riesame la Corte può, infine, eccezionalmente statuire sulla legittimità delle decisioni con le quali il Tribunale di primo grado decide in merito ai ricorsi contro le decisioni del Tribunale della funzione pubblica.

 

Il funzionamento della Corte

La procedura dinnanzi alla Corte di giustizia comprende una fase scritta, con scambio di memorie fra le parti, e una fase orale, introdotta dalla relazione del giudice relatore.
Il procedimento davanti alla Corte è svolto nella lingua propria dello Stato (o degli Stati) implicati nella controversia e nella medesima lingua viene redatto l’originale della sentenza. Le udienze della Corte sono di regola pubbliche.
Nel corso della procedura la Corte può condurre attività istruttorie, eventualmente anche nei singoli Stati membri. Per l’espletamento di tali attività può chiedere l’assistenza giudiziaria delle autorità nazionali degli Stati membri cui incombono precisi obblighi in merito.
In caso di ricorso diretto (ovvero di giurisdizione contenziosa e sono riconducili a tale categoria il ricorso per inadempimento, il ricorso di annullamento , il ricorso per carenza, i ricorsi in materia di responsabilità extracontrattuale e di controversie tra la Comunità e i suoi agenti), il ricorso viene notificato alla parte avversa e vengono designati dalla Corte un giudice relatore e un avvocato generale, incaricati di seguire lo svolgimento della causa.
Se le parti richiedono che si tenga un’udienza pubblica il giudice relatore riassume, in una relazione, i fatti e le argomentazioni delle parti e degli eventuali intervenienti. Tale relazione viene resa pubblica durante l’udienza.
Durante l’udienza i giudici e l’avvocato generale possono rivolgere alle parti le domande che ritengono opportune. Dopo qualche settimana, e sempre in pubblica udienza, l’avvocato generale, qualora la causa presenti nuove questioni di diritto, formula le proprie conclusioni alla Corte di giustizia. Successivamente, i giudici deliberano sulla base di un progetto di sentenza steso dal giudice relatore. Ciascun giudice può proporre modifiche. Una volta adottata, la sentenza deve essere motivata e letta in pubblica udienza.
Le sentenze della Corte di giustizia sono definitive e soggette a revisione solo in casi eccezionali; hanno efficacia vincolante per la parti in causa e forza esecutiva all’interno degli Stati membri (alle condizioni fissate dall’art. 256 TCE) per le decisioni comportanti obblighi pecuniari a carico di privati.
In caso di rinvio pregiudiziale, presentabile – come ricordato – solo da un giudice di un tribunale nazionale, la Corte provvede a far pubblicare la sentenza sulla Gazzetta ufficiale dando tempo due mesi affinché le parti interessate, gli Stati membri e le istituzioni comunitarie presentino i propri pareri sulla questione. Nel corso dell’udienza pubblica gli stessi soggetti possono esporre i propri pareri oralmente. Successivamente alla presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale, i giudici si riuniscono per deliberare. La sentenza è pronunciata in pubblica udienza e trasmessa dal cancelliere al giudice nazionale, agli Stati membri ed alle istituzioni interessate.

 

Gli effetti delle sentenze interpretative della Corte e il diritto degli stati membri

Le sentenze interpretative della Corte di giustizia vincolano il giudice nazionale, che dovrà eventualmente disapplicare la norma nazionale confliggente. Il valore vincolante della pronuncia pregiudiziale si impone anche ai giudici che dovessero esaminare la fattispecie in una successiva fase della procedura (salvo, qualora lo ritengano opportuno, riproporre altra questione pregiudiziale).
Per quanto riguarda gli effetti nel tempo della pronuncia della Corte, si tende a ritenere che essa esplichi i propri effetti retroattivamente (ex tunc), ovvero dal momento di entrata in vigore delle norme oggetto di interpretazione.
Tale sentenza rappresenta un precedente vincolante, anche per giudici di altri Stati membri. Ovviamente la linea interpretativa della Corte può modificarsi in momenti successivi.
Una sentenza in merito alla validità di un atto impone comunque all’istituzione che l’ha emanato di procedere al suo annullamento; ciò non toglie che, oltre ad essere vincolante per il giudice di rinvio, tale accertamento di invalidità costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare illegittimo l’atto ai fini della propria decisione.

 

La giurisprudenza della Corte di Giustizia e il diritto del lavoro italiano

Il diritto del lavoro della Comunità e dell’Unione europea partecipa necessariamente alla costruzione di un “diritto del lavoro per il futuro” (M. Rusciano), caratterizzandosi come fonte sovraordinata a quella nazionale e innovativa sul piano dei concetti e delle tecniche di tutela.
Nell’ordinamento comunitario, malgrado il limitato potere normativo della Comunità in materia sociale, il droit social non ha più la limitata funzione di assicurare la libertà di circolazione dei lavoratori sulla base del principio di non discriminazione fondato sulla nazionalità, ma si volge a rafforzare il radicamento del diritto materiale di tutela dei lavoratori in un corpo di diritti fondamentali (G. Arrigo).
Sono segnali di questa tendenza sia l’affermazione di una priorità del “sociale” rispetto al “puramente economico” (come affermano la direttiva quadro sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e altre direttive successive), sia il sempre più frequente ricorso agli orientamenti della Corte di giustizia. Ciò implica, da un lato, il riconoscimento dell’autorità esercitata dal giudice comunitario; dall’altro, l’adozione dei relativi canoni metodologici e interpretativi.
L’influenza della giurisprudenza della CGCE sulle Corti nazionali investe spesso anche profili di diritto sostanziale: ciò significa che la soluzione di una questione, e la conseguente configurazione di diritti e di obblighi in capo alle parti del rapporto di lavoro, richiede sempre più la conoscenza dei termini in cui la singola materia è posta nei principi comunitari, così che la soluzione della controversia si realizzi in modo conforme a quanto previsto dalla disciplina comunitaria e interpretato dalla Corte di giustizia.
Molteplici sono gli ambiti in cui la Corte di giustizia ha inciso nel dialogo tra il sistema giuridico comunitario e le fonti normative nazionali.
Fra i temi più importanti si ricordano: