Accordo interconfederale

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Questa voce è stata curata da Elisabetta Toccalli

Scheda sintetica

Nell’ambito della contrattazione collettiva, l’accordo interconfederale è l’accordo atto a definire regole generali che riguardano i lavoratori a prescindere dal settore merceologico di appartenenza.

L’accordo interconfederale può essere:

  • bilaterale se a firmarlo sono solamente le Confederazioni dei lavoratori e le Confederazioni dei datori di lavoro;
  • trilaterale se partecipa anche il governo.

Esso è il prodotto della mediazione tra i soggetti suddetti, i quali, attraverso il cd “metodo di concertazione sociale”, adottano una decisione comune rispetto a tematiche di particolare valenza.
Infatti, grazie a tale metodo di relazioni industriali, caratterizzato dal confronto e dall’accordo, le parti sindacali, in via negoziale, garantiscono il loro sostegno a politiche del governo particolarmente delicate.
Il coinvolgimento delle parti sociali, d’altro canto, consente al governo il raggiungimento di importanti obiettivi, da un lato, e, dall’altro, permette ai sindacati di partecipare alla predisposizione di alcune significative riforme in campo sociale.

La Corte Costituzionale (sent. Corte Cost. n. 34 del 7 febbraio 1985) ha però negato il valore di veri e propri contratti collettivi a questi accordi. Essi assumono un significato politico, non giuridico. È sempre necessaria, dunque, la traduzione normativa degli impegni assunti dal governo e dalle parti sociali in sede negoziale.

Oggi la pratica della concertazione sociale – e la conseguente stipulazione di accordi interconfederali – è stata formalizzata nel Protocollo del 23 luglio 1993.

Sebbene il metodo di concertazione sociale abbia permesso la stipulazione di accordi interconfederali di notevole importanza (ad es. il risanamento dei conti pubblici e l’ingresso dell’Italia nell’Euro), la mancanza di regole codificate e procedure scritte, ha fatto sì che tale strumento entrasse in una fase di crisi: i passati governi di centro-destra, per la necessità di approvare riforme in campo sociale su cui si era formata una forte opposizione dal lato dei sindacati, hanno dato vita ad una nuova metodologia nei rapporti fra istituzioni e parti sociali, ispirata al modello comunitario del dialogo sociale.

Tale passaggio è stato ben evidente in occasione della riforma del mercato del lavoro, attuata con la Legge 30/2003 e il D.Lgs. 276/2003, preceduta da un forte scontro tra governo e parti sociali sui contenuti della futura riforma e dalla rottura della stessa unità sindacale (il Patto per l’Italia, che esprimeva sostanzialmente l’accordo sugli aspetti portanti della riforma, era stato siglato il 5 luglio 2002 dalle sole CISL e UIL, senza la CGIL).

Una nuova fase di concertazione sociale e di ampio utilizzo di accordi interconfederali si è però aperta nel 2006 con l’insediamento della compagine governativa di centrosinistra che, sin all’indomani delle elezioni politiche dell’aprile 2006, ha attuato un significativo coinvolgimento delle tre principali confederazioni sindacali nella predisposizione dei suoi atti legislativi (come la manovra finanziaria e il DPEF).

La prassi della concertazione sociale è particolarmente criticata da chi vede in essa l’espropriazione delle prerogative parlamentari e la mancata rappresentanza di coloro che non hanno voce.
L’obiettivo non tiene conto del fatto che attraverso questa prassi il governo concorda con le organizzazioni sindacali obiettivi di carattere generale ottenendone il consenso.
Senza questa prassi gli obiettivi generali posti dal governo potrebbero essere paralizzati dalle autonome politiche perseguite direttamente dalle parti con accordi tra di loro.
Per di più la prassi italiana ha smentito le teorizzazioni che ritenevano necessaria per le pratiche di concertazione sociale la presenza al governo di un partito amico. Le organizzazioni sindacali, infatti, molto correttamente, hanno instaurato relazioni e firmato accordi indipendentemente dal colore del partito politico del governo.

Sul piano strettamente giuridico, gli accordi interconfederali, al pari dei contratti collettivi sono contratti e, dunque, la loro sottoscrizione è libera. L’effetto conseguente è che non hanno rilevanza giuridica per chi non ci sta.
L’altro lato della medaglia è che i soggetti non firmatari non sono vincolati alle regole ivi contenute.

 

 

Normativa

  • Costituzione della Repubblica Italiana, art. 39

 

 

Schede di approfondimento

 

La concertazione sociale

Gli anni ’70 del 1900 sono stati caratterizzati da una profonda crisi nazionale e internazionale. Il ruolo dello Stato nelle relazioni industriali cambia: da mediatore diventa il soggetto che influenza le regole del gioco, chiedendo alle organizzazioni sindacali moderazione nelle richieste salariali e un raffreddamento del conflitto in cambio di misure legislative a favore dei lavoratori.
Lo scambio tra i soggetti delle relazioni industriali e lo Stato diventa dunque “politico”.

Gli accordi interconfederali contraddistinti da questo tipo di scambio sono:

  • quelli del gennaio 1977, tradotti poi nella legislazione sul costo del lavoro (leggi n. 91/1977 e n. 675/1977);
  • il c.d. Protocollo Scotti del 1983 che contiene alcune procedure per la composizione dei conflitti e un raccordo fra i vari livelli contrattuali;
  • l’Accordo interconfederale di San Valentino del 1984 che, a seguito della spaccatura fra CISL-UIL e componente socialista da un lato e CGIL dall’altra, inducono il Governo a tradurre in legge la parte sul rallentamento della scala mobile che non aveva avuto il consenso unanime delle O.S.


Dopo un breve periodo di ripresa economica, contrassegnato da una tendenza al decentramento della contrattazione collettiva e da un minor intervento del potere politico nelle relazioni industriali, si assiste ad una ripresa della concertazione sociale.
Tale tendenza, ancora una volta, è giustificata dall’esigenza manifestata dello Stato di risanare i conti pubblici e di stabilizzazione l’economia del paese, in funzione dell’esigenza di raggiungere i difficili obbiettivi fissati a Maastricht nel 1991.

Un tipico esempio di accordo triangolare è quello del luglio del 1992 con il quale venne abolita la scala mobile e con il quale vennero poste le basi per la riforma della contrattazione e dei soggetti della stessa, riforma che verrà attuata con il Protocollo del luglio dell’anno successivo (V. Infra).

Sempre nell’ottica dell’esigenza del risanamento pubblico in funzione degli obbiettivi di Maastricht, non vanno poi dimenticati: il Patto per il lavoro del 24 settembre 1996, l’Accordo sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 22 dicembre 1998 (il Patto di Natale).

 

Il protocollo del 23 luglio 1993 e la politica dei redditi

All’inizio degli anni ‘90, la necessità di contrastare la crisi economica ed occupazionale – formalizzata dall’UE in “parametri” da rispettare per poter partecipare all’unione monetaria, secondo quanto stabilito nel Trattato do Maastricht del 1992 – indusse i governi e le parti sociali di molti Paesi europei a recuperare il metodo concertativo per definire consensualmente le politiche economico-sociali a livello nazionale.

In Italia, ad orientare gli attori verso la riapertura del confronto centralizzato sulla riforma del meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni e della struttura contrattuale furono soprattutto il nuovo peggioramento della congiuntura economica, la disoccupazione crescente ed il timore di un’altra ondata inflattiva.

Il nuovo ciclo si aprì con una serie di accordi interconfederali (stipulati tra il 1989 e il 1990), nei quali le parti individuavano obiettivi economici condivisi e si impegnavano a rendere coerenti con essi le politiche contrattuali. Proseguì con una lunga fase di accordi preparatori e parziali (6 luglio 1990, 10 dicembre 1991 e 31 luglio1992), che provocarono un intenso dibattito e gravi tensioni tra le parti e all’interno delle stesse. Sfociò, poi, nel Protocollo del 23 luglio 1993, nel quale le parti hanno per la prima volta predisposto un quadro di principi e di regole per rendere coerenti i processi contrattuali (cfr. Contratto collettivo) con le politiche economiche e dei redditi (per politica dei redditi si intende quella parte della politica economica che riguarda i redditi, e, tra essi, le retribuzioni), per consentire una gestione congiunta e dinamica delle relazioni di lavoro e per prevenire il conflitto.

Gli strumenti fondamentali su cui poggia questo accordo sono, infatti:

  • l’associazione delle parti sociali alla determinazione e alla realizzazione della politica dei redditi;
  • il coordinamento della struttura contrattuale e la precisa definizione delle competenze di ogni livello;
  • l’individuazione dei soggetti titolari dei poteri di rappresentanza e di contrattazione.


Nel primo capitolo dell’intesa sono individuati gli obiettivi e le procedure essenziali per la definizione della politica dei redditi, orientata, “attraverso il contenimento dell’inflazione e dei redditi nominali”, a “conseguire una crescente equità nella distribuzione del reddito” e a “favorire lo sviluppo economico e la crescita occupazionale mediante l’allargamento della base produttiva e una maggiore competitività del sistema delle imprese”.
Sempre il capitolo primo definisce i contenuti, le procedure e i tempi di confronto sulla politica economica, articolato in due sessioni rapportate a scadenze istituzionali (maggio e settembre).

Queste procedure operano, per così dire, dall’esterno rispetto alla formazione della volontà del governo, senza intaccarne l’autonomia di giudizio. Infatti, il confronto con le parti sociali è preventivo rispetto ai “processi decisionali in materia di politica economica” e aperto nello svolgimento e nei risultati, tanto da poter o meno condurre ad accordi su obiettivi e misure.
In ogni caso, l’eventuale accordo può implicare solo l’assunzione dell’impegno di ciascuno dei soggetti a tenere comportamenti coerenti nell’“autonomo esercizio delle rispettive responsabilità”.
Insomma, l’adempimento di questi impegni resta affidato alla volontà politica dell’esecutivo (analogamente a quanto accade per i capitoli sul sostegno al sistema produttivo e sulle politiche del lavoro) e delle parti sociali, specie per ciò che riguarda le politiche contrattuali.

I contenuti del Protocollo, però, non si esauriscono in quelli appena descritti.
Infatti, la strumentazione della politica dei redditi è seguita ed accompagnata da una serie ricca ed articolata di misure strutturali e congiunturali in materie di politiche del lavoro e di sostegno al sistema produttivo.

In conclusione si può affermare che il Protocollo del 23 luglio 1993, pur implicando uno scambio di consensi e di legittimazione tra i soggetti stipulanti, ha realizzato un coinvolgimento delle parti sociali nel processo di assunzione delle decisioni di politica economica sulla base di obiettivi condivisi: alle stesse, oltre che al governo, sono stati affidati l’impostazione, il coordinamento e il controllo di politiche economiche e contrattuali da attuare in larga misura attraverso un mix di legislazione e contrattazione – centralizzata e decentrata – all’interno di un processo di concertazione coordinato, anch’esso, dal centro, ma tale da favorire anche la diversificazione e la flessibilità delle soluzioni e dei trattamenti.

 

Il dialogo sociale

L’inizio del nuovo millennio si apre con il tentativo operato dagli imprenditori di superare il sistema contrattuale su due livelli per valorizzare il sistema delle relazioni industriali decentrate.
In questo contesto, si assiste dunque alla proposta del Governo di sostituire la concertazione sociale con il dialogo sociale.

Nel Libro Bianco del 2000, il Governo definisce tale metodo come quel “confronto basato su accordi specifici, rigorosamente monitorati nella loro fase implementativa”. In pratica, gli obbiettivi degli incontri vengono individuati di volta in volta dal Governo e le parti sociali svolgono un ruolo marginale limitato al parere.
Tale metodo porterà nel corso degli anni a negoziati bilaterali e, conseguentemente, al fenomeno degli accordi separati.

Il primo frutto di questa nuova stagione è il Patto per l’Italia del 5 luglio 2002, sottoscritto, dal lato delle organizzazioni sindacali, solo da Cisl e Uil.
La Cgil manifestò il proprio dissenso e si rifiutò di negoziare (e poi sottoscrivere) un documento che prevedeva la proposta di modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Di fatto, il Patto per l’Italia, segnò la prima tappa per il superamento delle regole della contrattazione collettiva sancite nel Protocollo del 23 luglio 1993.
Il definitivo abbandono di quel modello è rappresentato dall’Accordo separato del gennaio 2009.

 

Gli Accordi interconfederali di valore normativo

Non vanno dimenticati poi gli Accordi interconfederali c.d. normativi, così definiti in quanto contengono clausole che si pongono nei confronti del contratto individuale di lavoro come fonti eteronome, al pari della legge.

Gli esempi più significativi riguardano gli Accordi Interconfederali limitativi dei licenziamenti.
Tali Intese sono quelle più risalenti nel tempo e si ponevano come obbiettivo il superamento della regola codicistica della libera recedibilità dal rapporto di lavoro (art. 2118 cod. civ.).

Il più risalente è un Accordo del 1947, con il quale vennero per la prima volta introdotte alcune limitazioni ai licenziamenti nel settore industriale. Tale Accordo fu sostituito, dapprima, da due Accordi del 1950 e, successivamente, dagli Accordi 20/4/1965 (licenziamenti individuali) e 5/5/1965 (licenziamenti collettivi).
Queste ultime due Intese furono poi recepite nel testo di legge che ancora oggi limita il potere di recesso del datore di lavoro: la Legge n. 604/1966.