Articolo 18 – Statuto dei Lavoratori

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Questa voce è stata curata da Alexander Bell

 

Definizione

Per quasi trentacinque anni, l’articolo 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha rappresentato il cardine della disciplina limitativa dei licenziamenti e ha costituito in definitiva il più efficace riconoscimento e la più ampia garanzia a livello individuale dei diritti e delle libertà enunciate dallo Statuto dei lavoratori.
In sostanza ogni volta che il Giudice avesse ritenuto illegittimo un licenziamento, la sanzione prevista era una sola ed era la reintegrazione nel posto di lavoro (nel caso di imprese con più di 15 dipendenti).
Come è noto, la norma ha subito una pesante rivisitazione per opera delle riforma del 2012: mentre prima di tale legge, infatti, il principio di stabilità del rapporto di lavoro era tutelato in ogni caso, ad oggi la norma prevede quattro differenti regimi di tutela che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento.
Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto ha di recente raggiunto il suo culmine, con l’approvazione del decreto legislativo n. 23/2015 (contenente la disciplina del c.d. “contratto di lavoro a tutele crescenti”), attuativo della legge delega 183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, che individua nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo e limita ulteriormente le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro.

Per espressa previsione del legislatore, la nuova disciplina è destinata a trovare applicazione nei confronti di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015 (7 marzo 2015).
I lavoratori già in forza prima di questa data continueranno, invece, a beneficiare dei regimi di tutela previsti dall’art. 18, purché, naturalmente, risultino assunti in strutture che superano le soglie numeriche previste dalla legge (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale). Nell’immediato, dunque, per questi lavoratori non cambia nulla.

Va peraltro segnalato che, ai sensi dell’art. 1, co. 3, del decreto legislativo 23/2015, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore di detto decreto, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento illegittimo..
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato, oltre che ai lavoratori delle c.d. organizzazioni di tendenza.

È infine necessario precisare che i lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, ben potranno esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.

 

I regimi di tutela previsti dall’art. 18

L’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) come modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, disciplina il regime sanzionatorio da applicare nei casi di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del d.lgs. 23/2015, che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento ingiusto).
La norma, ad oggi, prevede una serie di tutele differenti a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento. Si distinguono, in particolare, quattro differenti tipi di tutela: infatti, l’art. 18 prevede quattro regimi sanzionatori.

 

A. Tutela reintegratoria “piena”

Tale tutela si applica:

  • in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge;
  • nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché intimato in forma orale.

È bene precisare che essa trova applicazione a prescindere dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro ed è prevista anche a favore dei dirigenti.
In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione.
Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo). Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità – entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza – di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

 

B. Tutela reintegratoria “attenuata”

Tale tutela si applica:

Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltreché al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva.
Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ci che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.

 

C. Tutela meramente obbligatoria

Tale tutela si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro.
In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore i lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.

 

D. Tutela obbligatoria “ridotta”

Tale tutela si applica alle ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per il giustificato motivo oggettivo.
In tali casi il giudice, dichiarando l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità variabile tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi da arte del giudice in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.

 

Osservazioni conclusive sulle tutele offerte dall’art. 18

Da quanto detto, si ricava che, secondo la disciplina dettata dall’art. 18 della Legge 300/1970, il giudice deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nei, soli, seguenti casi:

  • licenziamento discriminatorio;
  • licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio;
  • licenziamento comminato in violazione delle tutele previste in materia di maternità e paternità;
  • licenziamento inefficace in quanto orale;
  • altri casi di licenziamento nullo previsti dalla legge o determinato da motivo illecito determinante;
  • licenziamento comminato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa annullabile in quanto il fatto addebitato non sussiste o quando esso rientra fra le sanzioni punibili con una sanzione conservativa;
  • licenziamento economico annullabile quando il fatto addotto è manifestamente infondato.

Per gli altri casi di licenziamento, la stessa norma prevede altre forme di tutela che vengono graduate a seconda della gravità del vizio che inficia la legittimità del licenziamento.

 

I nuovi regimi di tutela introdotti dal Decreto Legislativo n. 23/2015

Il decreto legislativo n. 23/2015, sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, attuativo del c.d. Jobs Act (Legge n. 183 del 2014), ha introdotto un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato dapprima ad affiancare e quindi a sostituire il sistema di tutele previsto dall’art. 18 della Legge 300/1970.
In base alla nuova disciplina, il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto, nella maggior parte dei casi, a percepire esclusivamente un indennizzo economico; la tutela reintegratoria viene invece limitata a poche e residuali ipotesi.

 

A. Le ipotesi di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro

Il decreto legislativo 23/2015 stabilisce che il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nei soli casi di:

  • licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della Legge n. 300 del 1970 (art. 2, co. 1);
  • licenziamento nullo per espressa previsione di legge (art. 2, co. 1);
  • licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (art. 2, co. 1, ult. parte);
  • licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, co. 4);
  • licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2).

Nelle prime quattro ipotesi (licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore), il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore, anche al pagamento di un’indennità a favore di quest’ultimo e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
L’indennità è commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrisponde al periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso, l’indennità non può essere inferiore a cinque mensilità.
Fermo restando il diritto a percepire la suddetta indennità, al lavoratore è attribuita la facoltà di sostituire la reintegrazione nel posto di lavoro con un ulteriore indennizzo economico, pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, purché effettui la relativa richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. L’indennità sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motiv soggettivo o per giusta causa, rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, e il dipendente ha diritto di percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. A tale indennità, tuttavia, andrà dedotto non solo l’aliunde perceptum, ma anche le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). Inoltre, l’indennità non potrà essere superiore a dodici mensilità (mentre non è prevista un’entità minima, come invece stabilito per le altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace).

 

B. Le ipotesi in cui al lavoratore spetta il solo indennizzo economico

Fuori delle suddette ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 4 e le 24 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).
Più in particolare, l’art. 3, co. 1, del decreto stabilisce che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, allorché il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).
In ogni caso, l’indennità non potrà essere inferiore a 4 mensilità, né potrà superare le 24 mensilità.
Ai sensi dell’art. 10, il medesimo regime sanzionatorio (indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, comunque ricompresa tra 4 e 24 mensilità) trova applicazione anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (in particolare, le procedure richiamate all’art. 4, co. 12, Legge 223 del 1991) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, co. 1, Legge 223 del 1991).
Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione del requisito della motivazione (art. 2, co. 2, legge 604 del 1966) o per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
In questi casi, tuttavia, l’indennità risulta dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.

 

C. Le novità relative ai dipendenti dei datori di lavoro che non soddisfano i requisiti dimensionali dell’art. 18 della Legge 300 del 1970

Il decreto sul contratto a tutele crescenti si occupa anche dei dipendenti presso strutture che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18.
In particolare, l’art. 9 del decreto legislativo 23 del 2015 prevede che, nei confronti di tali lavoratori, trovi applicazione il medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Vale a dire che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore occupato presso un datore di lavoro minore, la reintegrazione varrà solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Negli altri casi, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico, pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio e con un limite massimo di 6 mensilità.

 

D. L’offerta di conciliazione

Il decreto legislativo 23/2015 prevede una nuova procedura conciliativa, finalizzata a rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, che prevede l’immediato pagamento di un indennizzo da parte del datore di lavoro.
In particolare, l’art. 6 del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76 del decreto legislativo 276 del 2003, e offrirgli un assegno circolare di importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 2 mensilità e non superiore a 18 mensilità.
Per incentivare questo tipo di soluzione, il legislatore ha previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

 

Voci correlate – Approfondimenti – Giurisprudenza

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