Licenziamento discriminatorio

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Scheda sintetica

Il nostro ordinamento tutela il lavoratore anche dal cd. licenziamento discriminatorio, ossia dal licenziamento intimato da ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale, tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sule convinzioni personali del dipendente.
In caso di licenziamento discriminatorio, il lavoratore ha diritto alle tutele previste dalla legge, e in particolare:

  • alle tutele indicate dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), come modificati dalla legge 92/2012, se si tratta di lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015;
  • alle tutele indicate dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del cd. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti), se l’assunzione è avvenuta a decorrere dal 7 marzo 2015.

Tali norme, peraltro, hanno contenuto sostanzialmente identico: sia la nuova sia la vecchia disciplina prevedono infatti che il lavoratore cui sia stato comminato un licenziamento discriminatorio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, in forza della quale il datore di lavoro è obbligato a:

  • reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
  • corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
  • versare i contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;

L’ordinamento riconosce inoltre al lavoratore il cd. diritto di opzione, ossia la possibilità di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

Si può dire, per sommi capi, che si ha una discriminazione, rilevante a questi fini, ogni volta che un soggetto venga trattato in modo più svantaggiato di altri in determinate situazioni (con un criterio, quindi, di tipo comparativo), oppure ogni volta che un soggetto subisca un provvedimento (negativo) in ragione di certe caratteristiche che la legge intende invece proteggere.
Ecco un elenco, che non potrà mai essere tassativo, di discriminazioni vietate:

  • discriminazioni di genere;
  • discriminazioni basate sull’età;
  • discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale;
  • discriminazioni basate sulla disabilità;
  • discriminazioni religiose;
  • discriminazioni basate sull’origine etnica;
  • discriminazioni in base alla razza;
  • discriminazioni politiche;
  • discriminazioni sindacali;
  • molestie o molestie sessuali;
  • discriminazioni basate sulle condizioni sociali;
  • discriminazioni basate sulle condizioni e caratteristiche personali;
  • discriminazioni basate sulla lingua;
  • discriminazioni basate sulle caratteristiche fisiche, sui tratti somatici, sull’altezza, sul peso;
  • discriminazioni basate sullo stato di salute;
  • discriminazioni basate sulle convinzioni personali.

La legge inoltre equipara al licenziamento discriminatorio, quanto ad effetti, quello intimato in concomitanza con il matrimonio, quello disposto in violazione del divieto di licenziamento in materia di tutela della maternità e della paternità, e infine il licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o quello fondato su motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.
Infine, anche il licenziamento intimato per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo) può determinare l’ordine di reintegrazione da parte del Giudice, qualora nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti invece determinato da ragioni discriminatorie.

C’è ancora da tenere conto del fatto che se le ragioni economiche poste a fondamento di un licenziamento risultano insussistenti, il licenziamento stesso si configura come licenziamento discriminatorio, in quanto, eliminata la causale economica, resta solo il fatto che l’impresa ha scelto di eliminare quel certo dipendente per sue caratteristiche personali non gradite: tal genere di licenziamento può sicuramente essere definito come discriminatorio.

Per quanto attiene la dimostrazione della discriminazione, il punto 4 dell’art. 28 del D.Lgs. 150/2011, stabilisce l’inversione dell’onere della prova (mutuato dalla L. 125/1991) sancendo che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata” .

 

Normativa di riferimento

  • Art. 21 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
  • Art. 14 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
  • Art. 3 e 37 Costituzione della Repubblica italiana
  • Art. 15 Legge 300/1970, Statuto dei lavoratori, artt. 15 e 18
  • Legge 903/1977
  • Legge 125/1991
  • D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità)
  • D.Lgs. 286/1998 (Testo Unico in materia di immigrazione)
  • D.Lgs. 215/2003 in attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica
  • D.Lgs. 216/2003 in attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro
  • D.Lgs. 5/2010 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego
  • Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
  • Decreto legislativo n. 23/2015, recante “disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”

 

 

Scheda di approfondimento

Come detto, il nostro ordinamento tutela il lavoratore dal cd. licenziamento discriminatorio (per una trattazione più dettagliata delle casistiche discriminatorie si rinvia alla Scheda sintetica).
In particolare, ogni qualvolta accerti la natura discriminatoria del provvedimento espulsivo, il giudice dichiara la nullità del licenziamento e applica la cd. tutela reintegratoria piena, in forza della quale il datore di lavoro è obbligato a:

  • reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
  • corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
  • versare i contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;

Al lavoratore è poi attribuito il cd. diritto di opzione, ossia la possibilità di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
È opportuno precisare che la tutela accordata in caso di licenziamento discriminatorio opera in ogni caso: essa è applicabile, infatti, quale che sia il numero di lavoratori addetti presso l’impresa (quindi anche alle piccole imprese) e indipendentemente dalla data di assunzione del lavoratore (l’art. 18 della legge 300/1970 e l’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 – che disciplinano, rispettivamente, le conseguenze del licenziamento discriminatorio comminato ai lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 – hanno contenuto sostanzialmente identico).
Inoltre, tale tutela opera indipendentemente dal motivo formalmente addotto dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento.

Quest’ultimo punto richiede una valutazione particolarmente accurata: è, infatti, necessario verificare con attenzione che il datore di lavoro non abbia usato una ragione oggettiva (come quella tecnico- organizzativa) per nascondere, nella realtà, ragioni discriminatorie, in quanto fondate sulla diversità del singolo soggetto che ha subito il licenziamento. Tale valutazione, come accennato, dovrà essere opportunamente effettuata non solo e non tanto comparando la situazione di tale soggetto in quanto inserito nel gruppo, ma anche e soprattutto considerando di per stessa la sua singola situazione.

La prima considerazione da svolgere riguarda la non tassatività dell’elenco sopra indicato.
Con l’art. 4 della L. 604/66 e poi l’art. 15 della L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), con le integrazioni introdotte dall’art.13 della L. 903/77 (Legge di Parità), e l’art.4 della L. 125/1991 (Azioni Positive), poteva probabilmente sostenersi che le ragioni discriminatorie che rendevano illecito il licenziamento fossero solo quelle specificamente indicate dalla legge (sindacali, politiche, religiose, razziali, di lingua e di sesso).
Ma l’introduzione nell’ordinamento delle disposizioni di cui ai D.Lgs. 215 e 216 del 2003 hanno allargato il campo delle discriminazioni sino a ricomprendervi handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali, dilatando gli atti vietati fino a ricomprendere qualunque finalità diversa da quelle positivamente ammesse dall’ordinamento (M.T. Carinci, 2012).
E pertanto qualunque causa giustificativa diversa da quella tecnico-organizzativa ammessa dall’ordinamento, come tale collegata a caratteristiche, opinioni, scelte della persona del lavoratore prive di attinenza con la prestazione lavorativa, è per ciò stesso discriminatoria e illecita e può perfino prevalere su un’eventuale causa tecnico-organizzativa concorrente (M.T. Carinci, ib.).

Bisogna poi osservare che le direttive europee hanno modificato profondamente negli anni la nozione di discriminazione, superando il giudizio di tipo comparativo e introducendo quello di natura assoluta. La nozione di discriminazione accolta dalle direttive europee tende a superare la struttura tradizionale della tutela antidiscriminatoria che presuppone una comparazione con altri soggetti; non è più necessario ormai prendere in considerazione il gruppo, cioè il numero di persone colpite da un certo atto, ma è sufficiente guardare solo alla situazione dei singoli individui (Barbera, 2007).
In questa logica, per fare un esempio, un lavoratore sessantenne licenziato per motivi economici potrebbe sostenere, a prescindere da qualsiasi comparazione con altri lavoratori licenziati o altri lavoratori mantenuti in organico, che la ragione sottesa alla sua eliminazione è quella anagrafica.

Il confronto con il gruppo di riferimento potrebbe essergli utile per giovarsi dell’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 28 D.Lgs. 150/2011, ma l’azione sarebbe esperibile anche a prescindere dal riferimento al gruppo, dimostrando la propria utilità tecnico-organizzativa e quindi l’incomprensibilità della sua estromissione, se non per un atto discriminatorio in ragione della sua età anagrafica.
L’esempio è probabilmente estensibile a tutte le discriminazioni indicate nella scheda precedente: a prescindere dalla comparazione con la platea di riferimento (che, appunto, consentirebbe l’inversione dell’onere della prova), ogni licenziamento attuato in danno di un soggetto che faccia parte di una delle categorie di cui alla scheda, che possa dimostrare la propria utilità tecnico-organizzativa, deve essere annullato in quanto discriminatorio, con la conseguenza della reintegrazione nel posto di lavoro.

Ma la vera novità di questa riforma è il fatto di costringere gli operatori del diritto a ragionare in termini radicalmente nuovi e diversi dal passato. E’ infatti indispensabile dare inizio a un’operazione culturale e giuridica che costringa tutti gli operatori del diritto a utilizzare fino in fondo tutte le possibilità offerte dalle norme antidiscriminatorie. Il concetto di discriminazione è, diciamolo francamente, un concetto che ci è praticamente ignoto: solo una vicenda grossolana e esageratamente sproporzionata può essere colta da chi ha sino ad oggi ignorato il problema. Se escludiamo le donne che ancora una volta sono avanti anni luce rispetto ai maschi e che hanno sollevato e sollevano le questioni di genere sin dal 1977 (L. 903), gli avvocati maschi (e anche diverse avvocate) non hanno la percezione dell’esistenza del problema. Quante volte è capitato che avvocati pur aperti e sensibili abbiano affrontato un licenziamento provando a immaginare se vi sia stata una discriminazione? Quante volte hanno verificato se i loro assistiti facessero parte o meno di una categoria che potrebbe essere discriminata? Quante volte hanno provato a immaginare che l’inesistenza di una causale a sostegno di un licenziamento poteva nascondere una discriminazione? Quante volte hanno seriamente intervistato i propri assistiti onde verificare l’esistenza di caratteristiche o convinzioni personali che potessero avere scatenato una reazione illecita discriminatoria?

La riforma Fornero, così come il recente decreto legislativo 23/2015, con la sanzione reintegratoria collegata al licenziamento discriminatorio, costringono tutti gli operatori a ripensare al proprio modo di lavorare e di istruire le cause: sostenendo la discriminazione ci si incanala in un sistema che ha come sbocco la reintegrazione nel posto di lavoro e non solo una indennità risarcitoria.

 

Indicazioni operative

Sul piano concreto, la prima cosa da fare quando si ha a che fare con un licenziamento, è quella di interrogare a fondo il lavoratore per individuare eventuali specificità che consentano di farlo rientrare in una delle ipotesi di discriminazione vietate o in una diversa e autonoma ipotesi discriminatoria.
Solo attraverso una seria e approfondita analisi delle caratteristiche personali del lavoratore si può dare una valutazione delle possibilità di introdurre l’impugnazione del licenziamento sotto il profilo della nullità per ragioni discriminatorie.
Nel caso di licenziamento discriminatorio in termini relativi (cioè in raffronto con un gruppo), è indispensabile raccogliere dati analitici sulle persone in posizione analoghe (sia i licenziati, sia i rimasti in organico) onde poter fornire elementi di fatto, anche di natura statistica, dai quali possa desumersi la discriminazione, per potersi giovare dell’inversione dell’onere della prova (art.28 D.Lgs. 150/2011).
Nel licenziamento in cui si affronti il tema della discriminazione in termini assoluti, bisogna raccogliere tutti i fatti e le circostanze specifiche relative alla persona del lavoratore, da cui possa farsi derivare l’ipotesi discriminatoria.
In ogni caso è bene ricordare che le conclusioni in tutti i ricorsi di impugnazione dei licenziamenti economici, che, quanto a motivazione, saranno la stragrande maggioranza, dovranno essere finalizzate a rivendicare la discriminazione, il motivo illecito determinante e la sanzione disciplinare simulata, dopo avere smontato (ove possibile) la motivazione economica.

 

Voci correlate

Per approfondimenti si vedano anche le voci:

 

 

 

Casistica di decisioni della magistratura

Per la casistica di decisioni della magistratura in materia di licenziamento discriminatorio si rinvia alle voci: