Vizio del consenso

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Questa voce è stata curata da Marco Biasi

 

Scheda sintetica

Il rapporto di lavoro è regolato da un contratto e, pertanto, allo stesso si applicano anche le disposizioni previste dal codice civile in materia di vizi del consenso.

I vizi del consenso previsti in materia contrattuale sono l’errore, la violenza ed il dolo.

Ogni contratto stipulato in presenza di uno di questi vizi può essere annullato su richiesta della parte il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo.

Anche alle dimissioni (che costituiscono un atto unilaterale, e non un contratto) si applica la disciplina prevista dal codice civile in materia di vizi del consenso: in particolare, assumono rilievo le ipotesi in cui il lavoratore viene indotto a rassegnare le dimissioni sotto le pressioni o le minacce del datore di lavoro, che, a certe condizioni, rendono le dimissioni rese dal lavoratore annullabili per “violenza”.

L’azione di annullamento, che si prescrive in 5 anni, fa salvi i diritti acquisiti nel periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, ossia per il tempo in cui il prestatore ha di fatto lavorato.

La causa più frequente di annullamento del contratto e/o dell’atto unilaterale per vizi del consenso è l’errore, che deve essere essenziale, ossia avere ad oggetto elementi decisivi nella stipulazione del contratto, e riconoscibile da parte dell’altro contraente.

L’art. 2113 del codice civile, che prevede una disciplina speciale in materia di invalidità degli atti del lavoratore dispositivi di diritti derivanti da norme inderogabili (rinunce e transazioni), non preclude al lavoratore di ricorrere, qualora ne ricorrano i presupposti, anche all’ordinaria azione di annullamento prevista dal codice civile in materia di vizi del consenso.

 

Fonti normative

  • Codice civile: artt. 1427-1446; 1324; 2113

 

 

Cosa fare-tempi

L’impugnazione del contratto di lavoro, delle dimissioni, delle rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore dovuta a vizi del consenso deve essere proposta entro il termine di prescrizione di 5 anni, decorrente dal giorno in cui è cessata la violenza, o da quello in cui è stato scoperto l’errore o il dolo.

 

A chi rivolgersi

  • Ufficio vertenze sindacale
  • Studio legale specializzato in diritto del lavoro

 

 

Documenti necessari

  • Copia del contratto di lavoro
  • Eventuale lettera di dimissioni
  • Eventuale lettera di rinuncia o di transazione avente ad oggetto diritti del lavoratore

 

 

Scheda di approfondimento

Dal momento che il rapporto di lavoro ha origine contrattuale, riveste particolare importanza l’elemento della volontà: questa si deve formare e manifestare liberamente ed in assenza di illegittimi impedimenti.
Al fine di tutelare la volontà delle parti, il codice civile prevede il rimedio dell’annullamento, da un lato, nel caso di incapacità di una delle parti contraenti (nella duplice forma dell’incapacità di agire e dell’incapacità naturale), dall’altro lato, in presenza di uno dei vizi del consenso, ossia di errore, violenza o dolo.

Stabilisce l’art. 1427 del codice civile che “il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l’annullamento del contratto”.
L’azione di annullamento, che può essere domandata solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (art. 1441 c.c.), si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo (art. 1442 c.c.).
In base alle regole generali del diritto civile, se un contratto viene annullato dal giudice (ad es. per un vizio del consenso), le parti vengono sciolte dalla relazione contrattuale e dalle rispettive obbligazioni, e ciò ha effetto anche sulla pregressa attuazione del contratto.

Tuttavia, nel caso dei contratti di durata, che si svolgono attraverso prestazioni reiterate nel tempo, quali il contratto di lavoro, occorre tenere in considerazione il fatto che alcune prestazioni di lavoro possono essere state compiute anche in attuazione di un contratto invalido, e, dunque, sorge l’esigenza di tutelare i diritti di chi ha fornito tali prestazioni.
Infatti, l’art. 2126, comma 1 del codice civile prevede che la nullità e l’annullamento “non producono effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione”, ossia per il tempo in cui il prestatore ha di fatto lavorato: ciò implica la possibilità per quest’ultimo di invocare in giudizio gli ordinari diritti connessi allo svolgimento della prestazione anche per il periodo in cui ha prestato la propria opera in esecuzione di un contratto di lavoro invalido.

Il contratto annullabile può, inoltre, essere convalidato dalla parte cui spetterebbe l’esercizio dell’azione di annullamento, sia espressamente (tramite un atto che contenga la menzione del contratto e del motivo di annullabilità, e la dichiarazione che si intende convalidarlo), sia tacitamente, ossia nel caso in cui la parte dia volontariamente esecuzione al contratto pur conoscendo il motivo di annullabilità.
Per quanto riguarda i singoli vizi, l’errore è causa di annullamento quando è essenziale e riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428 c.c.): è “essenziale” l’errore che cade sulla natura o sull’oggetto del contratto, sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una sua qualità determinante del consenso, sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente determinanti per il consenso o, nel caso del c.d. “errore di diritto”, è “essenziale” qualora l’errore che sia stato la ragione unica o principale del contratto (art. 1429 c.c.).
L’errore viene considerato “riconoscibile” quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo (art. 1431 c.c.).

Bisogna attentamente distinguere le ipotesi dell’errore, inteso come falsa rappresentazione della realtà, che costituisce un vizio del consenso e rende annullabile il contratto posto in essere tra le parti, e l’errore che cade sulla motivazione soggettiva (o ragione individuale) che ha indotto una delle parti a contrarre; quest’ultimo, infatti, dal momento che implica una valutazione interna e personale della parte che ha contratto, non assume alcuna rilevanza dal punto di vista giuridico, altrimenti verrebbe riconosciuto un vero e proprio diritto al “pentimento”, che sarebbe incompatibile con il vincolo nascente dalle obbligazioni (di cui il contratto è fonte).

La violenza, che può essere esercitata anche da un terzo, è causa di annullamento del contratto quando è di natura tale da fare impressione sopra una persona sensata e di farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole (art. 1435 c.c.): il caso previsto dalla norma è quello della c.d. “vis compulsiva”, ossia una forma di coazione consistente nella sola minaccia, che, pertanto, si distingue dalla c.d. “vis absoluta”, che consiste in una violenza fisica tale da escludere totalmente la libera determinazione della parte. Nel caso ricorra quest’ultima ipotesi, infatti, il contratto posto in essere dalle parti non sarà annullabile, bensì radicalmente nullo, dal momento che la violenza fisica ai danni di una parte impedisce la formazione del libero accordo tra le parti, che è uno degli elementi essenziali del contratto.
Si sottolinea, inoltre, che anche la minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto, nel caso sia diretta a conseguire vantaggi ingiusti (art. 1438 c.c.): rileva in questo caso sia l’ingiustizia del fine perseguito dalla parte che minaccia di far valere il proprio diritto sia la sproporzione tra il diritto esercitato ed il vantaggio derivante dalla minaccia.

Infine, il dolo, che consiste in artifici o raggiri di una parte ai danni dell’altra, è causa di annullamento del contratto quando, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato (art. 1439 c.c.).

 

I vizi del consenso nel contratto di lavoro: casistica

La problematica dei vizi della volontà nella formazione del contratto di lavoro non trova in concreto una vasta applicazione, risultando sporadiche le pronunce giurisprudenziali in materia.
Ciò è dovuto ad una serie di fattori: innanzitutto, dal punto di vista del lavoratore, una volta che quest’ultimo abbia dato esecuzione al contratto, fornendo la propria prestazione, ben difficilmente potrà agire in giudizio per ottenere l’annullamento del contratto, poiché l’aver fornito la propria prestazione verrà, con ogni probabilità, interpretato come una sostanziale convalida tacita del contratto.

Per quanto riguarda l’errore, che è l’ipotesi più frequente tra quelle sottoposte al vaglio della giurisprudenza, si sottolinea come, almeno dal punto di vista del datore di lavoro, la possibilità di stipulare un patto di prova (art. 2096 c.c.) e, sussistendone i presupposti, di esercitare il recesso dal contratto rendono del tutto marginali i casi di esercizio dell’azione di annullamento, la quale, essendo priva di efficacia retroattiva, non garantirebbe alcun maggiore vantaggio rispetto ad un licenziamento.

La giurisprudenza ha avuto modo, in diverse occasioni, di pronunciarsi riguardo alle ipotesi di errore sulle qualità personali del lavoratore (art. 1429, n. 3 c.c.); pur essendo il contratto di lavoro un contratto stipulato “intuitu personae” (ossia in cui la persona del contraente riveste fondamentale importanza), tale errore, conformemente ai principi generali, viene considerato rilevante ai sensi della disciplina in materia di vizi del consenso solo quando la soddisfazione dell’interesse tipico dedotto in contratto presupponga necessariamente l’esistenza della qualità attribuita all’altro contraente e perciò quando cada su qualità direttamente attinenti alla prestazione lavorativa. In linea generale, tali qualità non sono solo le attitudini professionali del lavoratore, ma anche particolari qualità della persona del lavoratore, a seconda del tipo di lavoro svolto.
A tal proposito, è stato riscontrato il vizio dell’errore nel contratto di lavoro in un caso di omessa menzione da parte del lavoratore, in sede di visita di idoneità preliminare all’assunzione, di dati anamnestici patologici successivamente rilevati (Pret. Brescia 15.4.1977, OGL, 1977, 942).

Diversamente, è stata esclusa l’annullabilità del contratto nel caso del datore di lavoro che abbia erroneamente supposto il possesso del titolo di ingegnere di un dipendente assunto in qualità di dirigente, con funzioni meramente amministrative: in questo caso, infatti, l’errore è stato ritenuto non essenziale, non essendo caduto sopra una qualità determinante ai fini del consenso (App. Milano 25.3.1969, FP, 1970, I, 390; OGL, 1970, 534).

Ancora, in un’ipotesi di proroga del contratto a termine in violazione dell’art. 2 Legge n. 230/1962, per violazione della durata iniziale del contratto, il giudice ha ritenuto il contratto annullabile per errore essenziale e riconoscibile, avendo il datore di lavoro confuso la data nella lettera di assunzione con quella di inizio del rapporto (Pret. Torino 3.3.1988, GP, 1989, 96).

E’ stato, inoltre, ravvisato un caso di errore di diritto essenziale (art. 1429, n. 4 c.c.) in un’ipotesi di contratto a termine stipulato per la sostituzione di lavoratori assenti per ferie ex art. 1, lett. b), l. n. 230/1962 (App. Firenze 12.10.1977, DL, 1978, II, 403; OGL, 1977, 1110); tuttavia, in una vicenda analoga, la Cassazione ha respinto l’eccezione datoriale di annullabilità per errore di diritto essenziale e ha affermato la nullità della clausola limitativa della durata e la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (Cass. 12.3.1986, n. 1671).

Infine, è stata riconosciuta l’annullabilità per errore di diritto – ritenuto, dunque, essenziale – nell’ipotesi di un’illegittima autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sulla cui validità si era basato il consenso alla conclusione del contratto (Pret. Volterra 16.6.1987, RIDL, 1988, II, 287; FI, 1987, I, 3360).
Per quanto riguarda le ipotesi di dolo nella conclusione del contratto, la giurisprudenza ha ritenuto annullabile il contratto di lavoro concluso dal vincitore di un concorso che aveva dolosamente taciuto di essere in possesso di un titolo superiore, quando nel bando vi era una clausola, considerata legittima, che poneva il limite di non avere un titolo superiore a quello richiesto (Pret. Empoli 15.9.1975, GI, 1977, I, 2, 174).

Viceversa, è stata esclusa l’annullabilità per dolo nel caso di una lavoratrice che aveva occultato il suo stato di gravidanza, dal momento che non sussisteva un suo onere di informazione al riguardo, ed essendo, in ogni caso, vietata al datore di lavoro ogni indagine relativa all’accertamento dello stato di gravidanza (Trib. Milano 13.11.1978, DL, 1980, II, 1). Parimenti, una sentenza della Cassazione (Cass. 1.2.2006, n. 2244) ha escluso che la condotta della lavoratrice, che al momento dell’assunzione non riveli al datore di lavoro il suo stato di maternità, non costituisce né una giusta causa di licenziamento né un comportamento qualificabile come dolo ai sensi della disciplina dei vizi del consenso in materia contrattuale: ad avviso della Corte, infatti, “la condotta della lavoratrice gestante o puerpera, la quale al momento dell’assunzione non porta a conoscenza del suo stato il datore di lavoro, non può in alcun caso concretizzare una giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo…inoltre l’assunto della parte datoriale appare infondato anche sotto il dedotto vizio del consenso, in quanto presuppone logicamente la prova che al momento della conclusione del contratto sussisteva già una causa di impedimento della prestazione lavorativa, che la lavoratrice, essendone consapevole, celò deliberatamente al datore di lavoro tale presupposto non è affatto stato dimostrato e necessita di una prova rigorosa”.

 

La rilevanza dei vizi del consenso nelle dimissioni

Il lavoratore ha diritto di recedere dal rapporto di lavoro senza motivazione alcuna, nel rispetto del termine di preavviso: se sussiste la giusta causa, ha diritto di recedere in tronco (“ad nutum”) con diritto di percepire la relativa indennità di mancato preavviso. Pertanto, le dimissioni vengo considerate un diritto potestativo del dipendente.

Esse si configurano, inoltre, quale atto unilaterale recettizio, dal momento che producono effetto non appena siano pervenute a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dall’accettazione di quest’ultimo (Cass. 22.12.2003, n. 19623). Inoltre, una volta comunicate, esse sono irrevocabili, potendo essere poste nel nulla solamente con il consenso del datore di lavoro, ovvero nel caso la loro revoca pervenga al datore di lavoro prima delle dimissioni medesime (Cass. 29.8.2003, n. 12677).
L’art. 1324 del codice civile prevede che “le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”: di conseguenza, le dimissioni, in quanto atto unilaterale avente contenuto patrimoniale, sono soggette alle norme ordinarie in materia di contratti, tra cui quelle, oggetto della presente analisi, in tema di annullabilità per vizi del consenso.

Al pari di qualsiasi altro atto negoziale, dunque, le dimissioni sono in grado di produrre i relativi effetti giuridici solo quando costituiscono espressione della libera e consapevole volontà del lavoratore di porre fine al rapporto di lavoro.
Sovente vengono portati all’attenzione dei giudici del lavoro casi di dimissioni rese dal lavoratore in stato di incapacità naturale oppure che siano state determinate da errore, violenza o dolo: accade, infatti, di frequente che le dimissioni vengano indotte o estorte da parte del datore di lavoro che, anziché procedere al licenziamento del lavoratore indesiderato, in un’ottica di risparmio dei tempi e dei costi che tale procedura comporta, pone in essere una serie di comportamenti tali da indurre il lavoratore a rassegnare le dimissioni.

In questi casi, solo in un secondo momento il lavoratore dimissionario si rende conto di aver agito contro la propria volontà e in condizioni sostanzialmente non libere: del resto, proprio per questo motivo, parte della dottrina propende per una modifica legislativa che “disponga che le dimissioni siano pienamente valide ed efficaci solo nel caso in cui entro un termine da definire, necessariamente breve, vengano revocate, accordando a questo atto di volontà, non sempre spontaneo, quel diritto di recesso che il legislatore accorda nel settore della vendita a domicilio e nella vendita al di fuori degli esercizi commerciali” (Mario Fezzi, Una modifica legislativa urgente: la riforma delle dimissioni, in D&L -Riv. Crit. Dir. lav., 1994, 238; analoghe considerazioni vengono svolte da Mario Meucci, La tutela del lavoratore dimissionario, in Dir. prat. lav., 1994, 40, 2710).

Tra le regole volte ad evitare che gli atti unilaterali, tra cui le dimissioni, siano frutto di una scelta libera e consapevole si colloca la disciplina prevista dall’art. 428 c.c., in base al quale “gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati…se ne risulta un grave pregiudizio all’autore”.
A tal proposito, la Cassazione (Cass. 13.1.2003, n. 324) ha statuito che “ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento delle dimissioni ai sensi dell’art. 428 c.c., non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente…un’alterazione personale che resti circoscritta alla sola sfera dell’intendere o del volere è, pertanto, idonea ad integrare il presupposto soggettivo dell’azione purché risulti menomata la capacità di autodeterminazione del soggetto”. In questo senso, “anche lo stato di temporaneo turbamento psichico dovuto ad una sindrome ansioso-depressiva può legittimare la richiesta di annullamento delle dimissioni” (Cass. 15.1.2004, n. 515).

Quanto al requisito oggettivo, ovverosia il grave pregiudizio causato all’autore dell’atto unilaterale, ad avviso della Corte le dimissioni rese in stato di incapacità di intendere e di volere “costituiscono di per sé stesse prova del grave pregiudizio derivato al lavoratore” (Cass. 17.4.1984, n. 2499; Cass. 4.3.1986, n. 1375). Le dimissioni, infatti, da un lato, interrompono il flusso di reddito, arrecando un consistente danno patrimoniale, dall’altro, estinguono il rapporto, incidendo così in maniera significativa sulla sfera di interessi patrimoniali del lavoratore.
Oltre che dal predetto stato di incapacità del lavoratore, l’annullabilità delle dimissioni può derivare da un vizio del consenso, ossia essere frutto di errore, violenza o dolo.
Per quanto riguarda l’errore, in base all’art. 1429 c.c. esso deve essere essenziale, ossia determinante in concreto rispetto alla volontà del lavoratore di recedere dal rapporto, nonché riconoscibile dall’altro contraente, cioè dal datore di lavoro.

Alcuni esempi di errore costituenti causa di annullamento delle dimissioni sono i casi in cui il lavoratore, sulla base di circostanze in apparenza oggettive, venga indotto a rassegnare le dimissioni sull’errata convinzione che la società si trovi in uno stato di crisi, o prossima al fallimento (Cass. 8.1.1981, n. 180); ovvero, quando, a fronte della prospettazione datoriale di un licenziamento, il lavoratore rassegni le dimissioni, essendosi convinto che sussistano le condizioni richieste dalla legge per un licenziamento legittimo (errore di diritto).
Sul punto, assume particolare rilevanza una pronuncia della Cassazione (Cass. 19.8.1996, n. 7629), alla cui attenzione era stato sottoposto il caso di un lavoratore che aveva dato le dimissioni nell’errata convinzione di aver diritto al pensionamento anticipato, convinzione alla quale aveva fatto esplicito riferimento come motivo di recesso; dopo che il rifiuto da parte dell’Inps, per la mancanza dei requisiti di legge, il lavoratore aveva revocato le dimissioni e chiesto il ripristino del rapporto.

La Corte, nonostante l’azienda avesse eccepito che la complessità della normativa sui prepensionamenti avesse reso l’errore del lavoratore non riconoscibile agli occhi del datore di lavoro, ha ritenuto meritevole di accoglimento l’istanza del lavoratore, confermando l’annullamento delle dimissioni e confermando la condanna della società al pagamento delle retribuzioni pregresse, sostenendo che “la ragione della rilevanza della riconoscibilità dell’errore (che comporta l’onere di verificarlo e l’obbligo, secondo buona fede, di darne comunicazione al dichiarante) risiede in ciò che, a prescindere dalla sua scusabilità, l’errore riconoscibile è comunque idoneo a suscitare un qualche legittimo affidamento in ordine alla serietà e consapevolezza della dichiarazione, posto che il destinatario della dichiarazione sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che mancava nel dichiarante la volontà diretta all’effetto…la tutela di un affidamento fondato sul valore unico della dichiarazione sarebbe priva, oggi, di qualsiasi giustificazione”.

Per quanto riguarda le dimissioni viziate da dolo, il lavoratore potrà chiederne l’annullamento quando sia stato indotto a recedere dal contratto da una serie di raggiri posti in essere dal datore di lavoro o da un terzo, tali da porre il lavoratore in una situazione di errore in ordine a talune circostanze rilevanti (Cass. 12.2.2003, n. 2104): è, altresì, necessario che il dolo sia determinante nel processo di formazione della volontà del prestatore di lavoro, e cioè che questi abbia rassegnato le dimissioni solo per effetto dei raggiri posti in essere a suo danno (Trib. Milano 18.1.1985, in Lav. giur., 1995, 581).
Inoltre, la Cassazione (Cass. 17.5.2001, n. 6757) ha avuto modo di chiarire che “il comportamento reticente per essere doloso deve realizzare una condotta che nel complesso si configuri come malizia o astuzia diretta a produrre l’inganno conseguito”.
Tuttavia, la più frequente delle ipotesi di annullabilità delle dimissioni è la violenza morale, che si può concretizzare o nel mero timore di un male ingiusto e notevole (ex art. 1434 cod. civ.) o nella minaccia dell’esercizio di un diritto per il raggiungimento di obiettivi ingiusti (ex art. 1438 cod. civ.).

In particolare, spesso accade che le dimissioni vengano prospettate dal datore di lavoro come unica alternativa al licenziamento per mancanze o al deferimento del lavoratore all’autorità giudiziaria, con la minaccia di una denuncia penale per i fatti posti a fondamento del licenziamento.
Tuttavia, va sottolineato che non tutte le volte in cui il datore di lavoro prospetta al lavoratore un’alternativa tra licenziamento e dimissioni egli priva il lavoratore della facoltà di rendere le proprie dimissioni spontaneamente e in maniera responsabile.
Innanzitutto, bisogna indagare circa l’esistenza e l’effettiva gravità delle inadempienze addebitate al lavoratore: ove questi elementi risultino insussistenti o, comunque, di lieve entità, è in ogni caso possibile addurre l’esistenza di una causa di invalidità delle dimissioni per violenza, poiché il comportamento del datore di lavoro crea al lavoratore un danno grave e sicuramente ingiusto (Cass. 28.12.1999, n. 14621; Cass. 20 gennaio 1999, n. 509).

Nella pratica aziendale, peraltro, l’ipotesi della violenza morale ricorre in gran parte sotto l’aspetto della minaccia di far valere un diritto, come definita e delineata dall’art. 1438 c.c.: in questi casi, cioè, il datore di lavoro, a fronte di reali inadempienze compiute dal prestatore, minaccia la comminazione di una sanzione – di norma il licenziamento, ma non è esclusa l’ipotesi della minaccia di un trasferimento ad una diversa unità produttiva –, “strumentalizzando l’esercizio del proprio diritto” (Pret. Nola-Pomigliano d’Arco 18.2.1995, in D&L – Riv. Crit. Dir. lav., 1995, 679).
In questi casi ciò che rileva maggiormente è “l’ingiustificata e abnorme sproporzione tra il vantaggio conseguito dalle dimissioni estorte e quello che si sarebbe raggiunto mediante l’esplicitazione dei normali poteri datoriali” (Cass. 26.1.1988, n. 639; Cass. 11.3.1987, n. 2538; Cass. 5.3.1986, n. 638).

Del resto, la minaccia di un licenziamento – o di denuncia penale –, quando viene usata per ottenere le dimissioni del lavoratore, “è di per sé antigiuridica in quanto intesa ad attribuire al datore di lavoro un titolo di risoluzione del rapporto di lavoro non ottenibile mediante il mero esercizio della facoltà di recesso e sottratto a priori a tutti i limiti formali e sostanziali da cui tale facoltà è vincolata” (Pret. Pescara 19.4.1984, in Giust. Civ., 1984, I, 2264); in effetti, la minaccia del licenziamento può avere come scopo quello di sottrarre la risoluzione del rapporto di lavoro alle procedure di contestazione degli addebiti, all’esercizio del diritto di difesa del lavoratore ed al sindacato giurisdizionale sulla legittimità o meno del provvedimento datoriale di licenziamento. Sicché, anche in questa utilità può essere individuato quel vantaggio ingiusto che il datore di lavoro consegue con la minaccia del licenziamento o della denuncia penale: infatti, “la serie normale di attuazione del diritto o dei diritti avrebbe comportato, una volta effettuata la denuncia o il licenziamento, la possibilità dell’ordinario mezzo di impugnazione di quest’ultimo, con le garanzie sostanziali (onere della prova, valutazione sull’esistenza e rilevanza del fatto) e formali (contestazione, termine a difesa ecc.) relativi a tale normativa” (Cass. 16.1.1984, n. 368; Cass. 1.6.1994, n. 5298).

Ad avviso della giurisprudenza, inoltre, assumono rilievo anche le modalità con cui il datore di lavoro estrinseca il proprio comportamento intimidatorio: “la minaccia può estrinsecarsi in un comportamento non tipizzato ed esplicito, sempre che incida in maniera determinante sulla volontà del lavoratore di dimettersi” (Cass. 26.5.1999, n. 5154; v. anche Cass. 16.7.1996, n. 6426).

 

Rinunce e transazioni (art. 2113 c.c.) e vizi del consenso

L’art. 2113 del codice civile prevede una disciplina speciale in materia di invalidità degli atti del lavoratore dispositivi di diritti derivanti da norme inderogabili quali, a titolo meramente esemplificativo, quelli aventi ad oggetto il diritto alle ferie o al riposo settimanale.
In base al predetto articolo, infatti, “le rinunce e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide. L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la medesima. Le rinunce e le transazioni possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà”.

La giurisprudenza unanime ritiene che l’invalidità sancita dall’articolo 2113 del codice civile sia un’annullabilità (Cass. 26.5.2006, n. 12561; Cass. 14.12.2006, n. 11181; Cass. 23.4.2003), ossia la stessa conseguenza derivante da un vizio del consenso.
L’orientamento dominante in giurisprudenza ed in dottrina ritiene che “l’azione di annullabilità prevista dall’art. 2113 c.c. non è un rimedio esclusivo, ma si aggiunge alle normali azioni di nullità e annullabilità dei contratti” (Cass. 1.6.1983, n. 3758), e che “non sostituisce né preclude al lavoratore di esercitare i normali mezzi di impugnazione dei contratti previsti dal diritto comune” (Cass. 13.1.1983, n. 228).
Sicché, nel caso delle transazioni del lavoratore viziate da errore di fatto, ferma restando l’impugnabilità stragiudiziale ex art. 2113 c.c., nulla esclude che si possa promuovere, entro il termine quinquennale di prescrizione, l’azione di annullamento per vizi del consenso, dimostrando all’uopo che sussistono i requisiti di essenzialità e riconoscibilità del vizio di cui si è detto.

Parimenti, qualora l’atto di transazione dipenda da una minaccia o sia la conseguenza di un comportamento doloso altrui, è possibile ricorrere ai rimedi di diritto comune in materia di vizi del consenso.
Peraltro, non va neppure trascurato che alla medesima azione di nullità per vizi del consenso può ricorrere anche il datore di lavoro: la giurisprudenza, infatti, ha precisato che “accordi particolarmente vantaggiosi per il prestatore ben potrebbero essere impugnati dal contraente datore di lavoro, qualora si dimostri che gli stessi siano stati conclusi per effetto di una falsa rappresentazione della realtà ovvero a seguito di situazioni dolose determinate dalla condotta dello stesso dipendente” (Cass. 14 ottobre 2004, n. 22169).