Licenziamento per raggiunti limiti di età

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Questa voce è stata curata da Alexander Bell

Scheda sintetica

Nel nostro ordinamento, vige il principio generale in base al quale il datore di lavoro può licenziare il lavoratore solo al ricorrere di una giusta causa o di un giustificato motivo. In caso di violazione di tale principio, il datore di lavoro va incontro a conseguenze sanzionatorie e al lavoratore sono riconosciute tutele, a seconda dei casi, di tipo reale (la reintegrazione nel posto di lavoro) o risarcitorio.

Esistono tuttavia delle limitate ipotesi nelle quali al datore è riconosciuta la facoltà di recedere dal rapporto di lavoro liberamente, in assenza cioè di specifiche motivazioni (recesso c.d. ad nutum).

Tra queste ipotesi, vi è quella disciplinata dall’art. 4, co. 2, l. 108/90, il quale stabilisce che le tutele contro i licenziamenti individuali illegittimi non si applicano nei confronti dei lavoratori ultrasessantenni che siano in “possesso dei requisiti pensionistici”.

La giurisprudenza ha in più occasioni chiarito che la possibilità di licenziare senza motivazione il dipendente ultrasessantenne vale solo se il dipendente ha maturato i requisiti previsti per la pensione di vecchiaia, non essendo invece possibile licenziare ad nutum il dipendente che ha maturato i requisiti per la pensione anticipata.

Altro principio consolidato in giurisprudenza è quello per cui il passaggio al regime del recesso ad nutum non avviene al momento della mera maturazione da parte del lavoratore dei requisiti anagrafici e contributivi per la pensione di vecchiaia, bensì al momento in cui la prestazione previdenziale è giuridicamente conseguibile dall’interessato.

Per completezza si segnala che, a seguito dell’entrata in vigore del DL 201/11 (c.d. riforma Fornero), talune pronunce di merito hanno sostenuto che l’art. 24, co. 4, di tale decreto – nella parte, in particolare, in cui esso dispone che “il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni” – avrebbe mutato la situazione previgente, introducendo il diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al settantesimo anno di età, con conseguente conservazione, sino a tale età, delle tutele previste dalla legge in caso di licenziamento privo giusta causa o giustificato motivo.

Tale interpretazione è stata però sconfessata dalle Sezioni Unite della Cassazione, che, con la sentenza n. 17589 del 2015, hanno infatti rilevato come l’art. 24, co. 4, DL 201/11 non attribuisca al lavoratore alcun diritto potestativo, dal momento che la norma si limita a prefigurare le condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni (oggi settantuno). In ragione di ciò, i giudici di legittimità hanno quindi concluso nel senso che il lavoratore che matura i requisiti per la pensione può continuare a rimanere in servizio fino a settant’anni (oggi settantuno), conservando le tutele previste dalla legge contro i licenziamenti illegittimi, soltanto se vi è un accordo in tal senso con il datore di lavoro.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di licenziamento per raggiunti limiti di età

  1. Nel lavoro subordinato privato, la tipicità e tassatività delle cause d’estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, diversamente da quanto accade nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in tema di collocamento a riposo d’ufficio, al compimento delle età massime previste dai diversi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche stesse. (Cass. 29/12/2014 n. 27425, Pres. Roselli Est. Tria, in Lav. nella giur. 2015, 306)
  2. L’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 (riforma “Fornero” del sistema previdenziale) non innova al quadro normativo preesistente, in forza del quale, raggiunta l’età massima lavorativa, non è applicabile, ex art. 4 co. 2 legge 108/90, la tutela ex art. 18 legge 300/70. (Trib. Genova 11/11/2013, ord., Est. Barenghi, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Vincenzo Ferrante, “Licenziamento dell’ultrasessantenne in possesso dei requisiti per la pensione (art. 24, co. 4 D.L. 201/2011): lex minus dixit quam voluit?”, 373)
  3. Il licenziamento, intimato per la sola ragione del raggiungimento dell’età di pensionamento di vecchiaia, non è discriminatorio, poiché al legislatore nazionale non è inibito, a mente dell’art. 6 della direttiva 2000/78, dettare una normativa che assuma l’età quale elemento idoneo a fondare una disparità di trattamento fra i lavoratori. (Trib. Genova 11/11/2013, ord., Est. Barenghi, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Vincenzo Ferrante, “Licenziamento dell’ultrasessantenne in possesso dei requisiti per la pensione (art. 24, co. 4 D.L. 201/2011): lex minus dixit quam voluit?”, 373)
  4. Una normativa nazionale che autorizza il datore di lavoro a licenziare un lavoratore per il fatto che questi ha raggiunto l’età pensionabile incide sulla durata del rapporto di lavoro che lega le parti nonché sullo svolgimento da parte del lavoratore della sua attività professionale e rientra dunque nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/Ce, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c). (Corte Giustizia Ce 5/3/2009 causa C-388/07, Pres. Rosas Rel. Lindh, in D&L 2009, 929)
  5. La donna ultrasessantenne può essere licenziata ad nutum, perdendo la tutela di stabilità legale come previsto dalla legge 108/1990, se al compimento dell’età pensionabile non abbia preventivamente esercitato il diritto di opzione nei termini perentori di legge. Il difetto di esercizio del diritto di opzione e la prosecuzione del rapporto lavorativo oltre l’età pensionabile non costituiscono rinuncia del datore di lavoro all’esercizio del diritto di recesso. (Cass. 6/2/2006 n. 2472, Pres. Ianniruberto Rel. Vidimi, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Davide Gallotti e Emanuela Cusmai, 798)
  6. Con riferimento alla non applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti in ragione dell’età o della condizione pensionistica, disciplinata dall’art. 4 della legge n. 108 del 1990, dal sistema dei rinvii previsti dalla suddetta norma risulta che l’intenzione del legislatore era quella di escludere nei confronti dei suddetti lavoratori (in linea di massima) l’applicabilità dell’intera legge n. 604 del 1966, a prescindere dalla dimensione occupazionale del datore di lavoro, ed in particolare l’applicabilità della norma (rilevante nel caso di specie) che prevede l’inefficacia del licenziamento per violazioni delle prescrizioni formali (articolo 2 della legge n. 604 del 1966). (Cass. 11/4/2005 n. 7359, Pres. Mercurio Rel. Toffoli, in lav. e prev. oggi, 2005, 1275)
  7. Al datore di lavoro è imposto il divieto – la cui violazione implica l’applicazione, a seconda delle diverse condizioni, della tutela obbligatoria o reale del posto di lavoro – di esercitare il recesso ad nutum nei confronti della lavoratrice che, pur in possesso dell’età pensionabile, non abbia raggiunto l’età lavorativa massima, ella avendo diritto di proseguire il rapporto di lavoro, senza avere alcun onere di comunicazione al riguardo, fino al raggiungimento di quest’ultima età. (Cass. 24/4/2003 n. 6535, Pres. Ianniruberto Est. Prestipino, in Foro it. 2003, parte prima, 1577)
  8. E’ infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 4, secondo comma, L. 11 maggio 1990 n. 108, dell’art. 6 d.l. 22 dicembre 1981 n. 791, convertito, con modificazioni, in l. 26 febbraio 1982 n. 54, dell’art. 6, primo comma, l. 29 dicembre 1990 n. 407, modificato dall’art. 1, secondo comma, d. leg. 30 dicembre 1992 n. 503, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, primo comma, stesso d. leg. N. 503 del 1992, come modificato dall’art. 11, primo comma, l. 23 dicembre 1994 n. 724, nella parte in cui prevedeva, in via transitoria, che, mentre gli uomini conservano la stabilità del posto di lavoro fino al compimento del sessantatreesimo anno di età, le donne potevano continuare fino al sessantesimo anno e per poter usufruire del prolungamento al sessantatreesimo anno erano soggette all’onere di opzione, in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. (Corte Cost. 20/6/2002 n. 256, Pres. Ruperto Est. Amirante, in Foro it. 2003, parte prima, 2577)