Dequalificazione

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Questa voce è stata curata da Alexander Bell

 

Scheda sintetica

Fino al 25 giugno 2015, l’art. 2103 del codice civile riconosceva al lavoratore il diritto a essere adibito alle mansioni concordate in sede di assunzione o a quelle corrispondenti alla categoria superiore eventualmente acquisita in seguito o, ancora, a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.
Il datore di lavoro che avesse voluto mutare le mansioni del lavoratore avrebbe dunque potuto farlo solo assegnandogli mansioni superiori o equivalenti.
A tutela di tale diritto, la legge stabiliva la nullità di ogni patto contrario.
In caso di illegittima assegnazione di mansioni inferiori a quelle spettanti, il lavoratore aveva inoltre diritto, per consolidato orientamento giurisprudenziale, a ottenere il reintegro nella precedente posizione, ovvero in un’altra di contenuto equivalente, e a vedersi risarcito dal datore di lavoro il c.d. danno alla professionalità.
L’art. 2013 c.c. disciplinava anche l’ipotesi dell’assegnazione di mansioni superiori: in tal caso al lavoratore spettava, in primo luogo, il trattamento corrispondente all’attività svolta; allorché, poi, lo svolgimento delle mansioni superiori fosse proseguito per un determinato periodo di tempo fissato dalla contrattazione collettiva (e comunque non superiore a 3 mesi), il lavoratore aveva diritto anche al riconoscimento in via definitiva della qualifica superiore e del relativo trattamento.

Il quadro normativo è radicalmente mutato a giugno 2015, con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015, uno dei provvedimenti attuativi della legge delega n. 183 del 2014 (c.d. Jobs Act), che, oltre a rimodulare l’intera disciplina dei contratti di lavoro, ha riformulato anche il contenuto dell’art. 2103 c.c.
La riforma del 2015 ha fortemente allentato i limiti al potere del datore di lavoro di modificare in peggio le mansioni del lavoratore.
Anzitutto, il d.lgs. 81/2015 ha sostituito il concetto di equivalenza delle mansioni con quello, assai più labile, della mera riconducibilità della mansione al medesimo livello e inquadramento contrattuale: in base all’attuale disciplina, il datore di lavoro è quindi libero di assegnare al lavoratore nuove mansioni anche non equivalenti, alla sola condizione che dette mansioni siano genericamente riconducibili allo stesso livello e alla stessa categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte dal dipendente.

La nuova normativa contempla inoltre una specifica ipotesi in cui il datore di lavoro ha il potere di assegnare al lavoratore una mansione inferiore: il secondo comma del rinnovato art. 2103 c.c. stabilisce infatti che, allorché si verifichi una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso lavoratore può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale (in altre parole, l’impiegato dovrà pur sempre svolgere mansioni impiegatizie, non potendogli essere affidate mansioni operaie).
È inoltre previsto che la contrattazione collettiva, anche aziendale, possa introdurre altre ipotesi di demansionamento legittimo.

L’assegnazione di mansioni inferiori, nell’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 2103 c.c. e nelle altre ipotesi eventualmente previste dalla contrattazione collettiva, deve essere comunicata per iscritto al lavoratore, pena la nullità del provvedimento datoriale. Il lavoratore legittimamente dequalificato ha inoltre diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo di cui gode al momento del mutamento, fatta eccezione per quegli elementi della retribuzione collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
Questa salvaguardia incontra un’importante deroga, che consiste nella possibilità per le parti di concordare una riduzione della retribuzione oppure una modifica in senso peggiorativo delle mansioni, della categoria legale o del livello di inquadramento; perché tale accordo sia legittimo occorre che sia raggiunto nelle sedi di certificazione o di conciliazione delle controversie e che sia giustificato dall’interesse del lavoratore alla conservazione della occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

In caso di mutamento delle mansioni, il datore di lavoro è tenuto, ove necessario, a formare adeguatamente il lavoratore. La legge tuttavia precisa che il mancato adempimento di tale obbligo non determina la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
La riforma del 2015 è intervenuta anche sulla disciplina dell’assegnazione a mansioni superiori.
È stato anzitutto aumentato il periodo di tempo di assegnazione necessario affinché il lavoratore acquisisca in via definitiva la qualifica superiore: dai 3 mesi della disciplina previgente, si passa a 6 mesi, con l’ulteriore, significativa novità che detto periodo deve essere continuativo (in precedenza era invece prevista la possibilità che la maturazione dei 3 mesi avvenisse anche sommando singoli periodi di assegnazione alla mansione superiore).

Viene poi riconosciuta alla contrattazione collettiva la facoltà di modificare il termine di 6 mesi, eventualmente anche aumentandolo (la vecchia disciplina prevedeva al contrario che la contrattazione collettiva potesse modificare il termine di 3 mesi solo in senso migliorativo per il lavoratore, vale a dire solo diminuendolo).
Da ultimo, il settimo comma del nuovo art. 2103 c.c. fa salva la diversa volontà del lavoratore: cioè a dirsi che il lavoratore ha ora la possibilità di rifiutarsi di essere definitivamente adibito alle mansioni superiori.

Vedi anche la voce Demansionamento

 

 

 

Normativa

  • Art. 2103 c.c.
  • Art. 13 Legge 20 maggio 1970, n. 300, Statuto dei Lavoratori
  • Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
  • Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante disposizioni in materia di disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183

 

 

A chi rivolgersi

  • Ufficio vertenze sindacale
  • Studio legale specializzato in diritto del Lavoro

 

 

Scheda di approfondimento

Nel contratto di lavoro non può essere dedotta un’attività imprecisata, poiché in tal caso il contratto sarebbe nullo per indeterminatezza dell’oggetto (artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c.).
Occorre, pertanto, che le parti pattuiscano il tipo di lavoro, cioè i compiti che il prestatore deve svolgere, definiti dalla legge come le “mansioni per le quali è stato assunto” (art. 2103 c.c.).

Questo accordo, in virtù della libertà di forma del contratto di lavoro, può essere raggiunto anche per fatti concludenti, mediante la consensuale adibizione del lavoratore a determinati compiti.
L’insieme di mansioni pattuito viene indicato con il termine “qualifica”, che solitamente si identifica con una figura professionale prevista nei contratti collettivi e individua la posizione occupata dal prestatore nell’organizzazione aziendale.
È dovuto, ovviamente, anche l’espletamento delle mansioni accessorie, da non confondere con la possibilità di pattuire un’ampia gamma di mansioni (c.d. polivalenti), corrispondenti a un’effettiva esigenza organizzativa aziendale e non dirette ad eludere i limiti legali alla modificazione delle mansioni.
Nell’ambito delle mansioni pattuite al momento dell’assunzione il datore di lavoro sceglie, di volta in volta, mediante l’esercizio del potere direttivo, quali far svolgere in concreto al lavoratore.
Si suole parlare, a tal proposito, di potere di conformazione proprio per sottolineare che questa manifestazione del potere direttivo non implica una determinazione unilaterale dell’oggetto del contratto di lavoro, che è già avvenuta su base consensuale al momento della sua stipulazione, ma soltanto una sua specificazione.

Le mansioni dedotte in contratto, peraltro, non esauriscono la totalità di quelle esigibili nel corso di svolgimento del rapporto.
Una manifestazione del tutto peculiare del potere direttivo è rappresentata, infatti, dal c.d. ius variandi, nell’esercizio del quale il datore di lavoro può modificare le mansioni del lavoratore al di là di quanto convenuto al momento dell’assunzione, tenendo conto delle particolari cautele espressamente previste dall’art. 2103 c.c., introdotte nell’ordinamento dall’art. 13 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) e recentemente modificate dal d.lgs. 81/2015.
In particolare, l’art. 2103 c.c., nella sua formulazione originaria, stabiliva che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”; inoltre, “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi”.

Dal testo della norma antecedente la riforma del 2015, dunque, emergeva in generale la possibilità di un’adibizione del lavoratore a mansioni diverse da quelle originariamente convenute, essendo così riconosciuta e permessa una certa mobilità del lavoratore tanto temporanea ed occasionale che definitiva.
La tutela della professionalità, tuttavia, che costituisce la finalità essenziale della norma, era perseguita consentendo soltanto spostamenti a mansioni equivalenti (c.d. mobilità orizzontale, vedi infra) oppure superiori (c.d. mobilità verticale, vedi infra).

Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., così come modificato dal d.lgs. 81/2015, prevede invece che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
Nella nuova disciplina, quindi, il potere del datore di lavoro di mutare le mansioni del lavoratore non incontra più il limite stringente della omogeneità professionale delle mansioni: perché il mutamento sia considerato legittimo, è piuttosto sufficiente che le nuove mansioni siano genericamente riconducibili allo stesso livello e alla medesima categoria legale di inquadramento delle mansioni che il dipendente ha svolto da ultimo.
Il secondo comma del novellato art. 2103 c.c. prevede inoltre che, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, quest’ultimo può essere assegnato a “mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”, alla sola condizione che le nuove, inferiori mansioni rientrino nella medesima categoria legale.
La contrattazione collettiva è peraltro libera di introdurre ulteriori ipotesi di legittimo demansionamento.
Per quanto riguarda la mobilità verticale, invece, il settimo comma del nuovo art. 2103 c.c. stabilisce che, nel caso di assegnazione a mansioni superiori, “il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”.

 

Mobilità orizzontale

Fino alla riforma del 2015, la mobilità orizzontale era consentita solo nel rispetto del limite dell’equivalenza professionale e, comunque, garantendo il mantenimento del livello retributivo acquisito nella mansione di provenienza.
La nozione di equivalenza veniva riferita al patrimonio professionale acquisito dal lavoratore, che doveva poter essere utilizzato anche nelle nuove mansioni, escludendosi che l’identità di livello contrattuale significasse automaticamente equivalenza stante l’eterogeneità delle qualifiche raggruppate in ciascun livello e la separata garanzia di irriducibilità della retribuzione.
Pertanto, tale requisito mirava a garantire il lavoratore da ogni depauperamento del suo patrimonio professionale. In questo quadro, l’equivalenza professionale andava dunque accertata considerando anzitutto il complesso delle attitudini e delle capacità acquisite dal lavoratore, ovvero quel bagaglio di perizia ed esperienza che costituiva il suo patrimonio professionale.
Il d.lgs. 81/2015 ha profondamente allentato i limiti posti al potere del datore di lavoro di mutamento delle mansioni del lavoratore, eliminando il requisito dell’equivalenza professionale e sostituendolo con il ben più generico requisito della riconducibilità delle nuove mansioni “allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
In base alla nuova disciplina, dunque, sarà per esempio possibile assegnare a un lavoratore, che per anni ha svolto mansioni di tipo amministrativo, mansioni di tipo tecnico, ovvero mansioni caratterizzate da una professionalità completamente diversa rispetto a quella già posseduta per effetto dello svolgimento delle mansioni antecedenti.
Sarà in ogni caso compito della giurisprudenza, a fronte di un testo normativo tanto laconico, stabilire con precisione sino a dove potranno estendersi i poteri del datore di lavoro di cambiare in corsa le mansioni dei propri dipendenti.

 

Mobilità verticale

Il vecchio art. 2103 c.c. stabiliva che la mobilità verticale era consentita solo verso l’alto e comportava a favore del lavoratore l’assegnazione a mansioni superiori e il godimento di un duplice diritto: il trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori andava corrisposto immediatamente e l’assegnazione alle mansioni superiori diventava definitiva dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi, protrattosi con continuità.
Sul punto, la giurisprudenza ammetteva, tuttavia, la possibilità di sommare tra loro periodi più brevi, laddove il frazionamento fosse stato da intendersi quale strumento elusivo del datore di lavoro.
Il nuovo art. 2103 c.c. mantiene inalterato il diritto, in capo al lavoratore assegnato a mansioni superiori, a ricevere il trattamento corrispondente all’attività svolta.
La riforma, tuttavia, non ha mancato di introdurre significative novità in tema di assegnazione a mansioni superiori; in particolare, la nuova disciplina:

  • ha aumentato a 6 mesi il tempo necessario a far sì che l’assegnazione divenga definitiva e il lavoratore acquisisca il corrispondente livello di inquadramento;
  • ha previsto la facoltà per la contrattazione collettiva di aumentare ulteriormente questo termine (la vecchia disciplina prevedeva al contrario che la contrattazione collettiva potesse solo diminuire il precedente termine di 3 mesi);
  • ha stabilito espressamente che il periodo di assegnazione alle mansioni superiori deve essere continuativo e non frazionato;
  • ha riconosciuto al lavoratore la possibilità di rifiutarsi di essere definitivamente adibito alle mansioni superiori.

La riforma ha poi introdotto una specifica ipotesi di mobilità verticale verso il basso. In base al nuovo secondo comma art. 2103 c.c., infatti, “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, il datore di lavoro potrà assegnare lo stesso lavoratore “a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.
La contrattazione collettiva, anche aziendale, potrà inoltre introdurre ulteriori ipotesi di demansionamento legittimo.
È infine prevista la possibilità anche per le parti di concordare, nelle sedi di certificazione o di conciliazione delle controversie, una modifica in senso peggiorativo delle mansioni, della categoria legale o del livello di inquadramento, purché tale accordo trovi giustificazione nell’interesse del lavoratore alla conservazione della occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

 

Nullità di ogni patto contrario

La disciplina pre-riforma stabiliva la nullità di ogni patto contrario al generale divieto di modificazione in senso peggiorativo delle mansioni del lavoratore.
Sicché era da considerarsi impedita non solo una disciplina del rapporto, individuale o collettiva, che consentisse l’assegnazione di mansioni inferiori, ma anche una pattuizione individuale apposita avente ad oggetto uno specifico spostamento peggiorativo.
Come visto nei precedenti paragrafi, la riforma del 2015 ha introdotto significative deroghe al divieto di modificazione in peius, riconoscendo in particolare alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre specifiche ipotesi di demansionamento legittimo, e a quella individuale di concordare mutamenti peggiorativi delle mansioni, dell’inquadramento e della retribuzione spettante al lavoratore.
Conseguentemente, in base alla nuova disciplina, i patti di mutamento peggiorativo delle mansioni potranno considerarsi nulli solo se non ricorreranno le condizioni di una delle ipotesi di demansionamento legittimo previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ovvero se saranno concordati dalle parti al di fuori in una delle sedi indicate dal sesto comma dell’art. 2103 c.c. e in assenza di uno specifico interesse del lavoratore (art. 2103, c. 9, c.c.).

 

Eccezioni

Fino al 25 giugno 2015, il nostro ordinamento riconosceva un generale divieto di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle concordate in sede di assunzione ovvero a quelle da ultimo svolte.
Il legislatore, tuttavia, aveva nel tempo introdotto alcune deroghe a questo divieto generale. In particolare, già prima della riforma del 2015, la legge stabiliva che:

  • le lavoratrici madri, durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi dopo il parto, se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute, devono essere spostate ad altre mansioni eventualmente anche inferiori a quelle abituali, con conservazione della retribuzione precedente (art. 7 d.lgs. 151/2001);
  • in caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni di assegnazione per infortunio o malattia, il lavoratore può essere adibito a mansioni inferiori, anche in questo caso con diritto alla conservazione della retribuzione di provenienza (art. 4, co. 4, l. 68/1999);
  • quando un accordo sindacale, concluso nell’ambito della consultazione sindacale relativa ad una procedura di licenziamento per riduzione di personale, prevede il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori esuberanti, il licenziamento del lavoratore può essere evitato mediante la sua adibizione a mansioni diverse anche inferiori alle precedenti; in tal caso non è previsto il mantenimento del più elevato livello retributivo antecedente (art. 4, co. 11, l. 223/1991).

La riforma del 2015 ha lasciato intatte queste ipotesi di legittimo demansionamento, e ne ha aggiunta un’altra, contemplata dal nuovo testo del secondo comma dell’art. 2103 c.c., in forza del quale “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.
Il quarto comma dell’art. 2103 c.c. stabilisce inoltre che “ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi”.
Un’ulteriore deroga al divieto di adibizione del dipendente a mansioni inferiori è infine prevista dal sesto comma del rinnovato art. 2103 c.c., il quale prevede che “nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.

 

Conseguenze

In tutti gli altri casi, non rientranti nel quadro delle eccezioni, l’adibizione a mansioni inferiori si configura come una violazione dell’art. 13 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il che comporta, oltre alla dichiarazione di nullità dell’atto o patto contrario, anche la condanna del datore di lavoro a riassegnare il lavoratore alle mansioni precedentemente svolte.
Occorre avvertire, ad ogni modo, che l’eventuale ordine giudiziale di reintegrazione, stando a quanto ripetutamente affermato dalla Cassazione, non è suscettibile dell’esecuzione forzata.
Inderogabile è il riconoscimento della garanzia di carattere retributivo prevista dalla norma. Laddove venisse configurata una lesione della personalità, possono conseguire ulteriori retribuzioni patrimoniali in favore del lavoratore a titolo di risarcimento del danno.
Ciò perché il c.d. demansionamento non soltanto viola lo specifico divieto dell’art. 13 Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), ma “costituisce lesione del diritto fondamentale del lavoratore (v. art. 2 Costituzione) alla libera esplicazione della personalità…nel luogo di lavoro” (Cass. n. 8827/2003).
Tale lesione deve essere risarcita con valutazione equitativa.

 

 

Casistica di decisioni della Magistratura

Per la casistica di decisioni della magistratura vedi la voce Demansionamento

 

 

Le segnalazioni della Newsletter di Wikilabour in tema di dequalificazione

  1. La mera tolleranza temporanea non significa acquiescenza del lavoratore a una dequalificazione.
    In un caso in cui l’impresa sosteneva l’acquiescenza tacita di una lavoratrice all’intervenuta attribuzione di mansioni ritenute inferiori, evidenziata dal fatto che per un anno e mezzo ella non aveva sollevato obiezioni, la Corte ribadisce il principio che per aversi acquiescenza non è sufficiente una temporanea tolleranza, ma è necessario che il destinatario del provvedimento lesivo adotti un comportamento inequivocabilmente incompatibile con la volontà di impugnarlo. (Cass. 3/8/2020 n. 16594, ord., Pres. Bronzini Rel. Lorito, in Wikilabour, Newsletter n. 15/2020)