Donne nel mondo del lavoro

Tu sei qui:

Questa voce è stata curata da Isabella Digiesi

 

Scheda sintetica

Il lavoro femminile è in continua crescita e rappresenta un aspetto importante dello sviluppo occupazionale.

Le donne considerano il lavoro un’attività fondamentale, da preservare lungo l’arco della vita perché importante per l’identità personale, in quanto garanzia di indipendenza e di riconoscimento sociale.

Nonostante, le donne siano sempre più presenti in ogni ambito lavorativo e raggiungano posizioni di rilievo in molti settori, tali cambiamenti non sono stati considerati in maniera sistematica nell’organizzazione del lavoro in azienda. Permangono infatti, forti squilibri rappresentati dall’ancora scarsa presenza delle donne ai livelli alti d’inquadramento e dalla loro quasi assenza ai livelli di vertice.

Questa situazione di fatto è generata da molti fattori, tra cui il verificarsi di discriminazioni basate sul genere all’interno delle aziende.

Le discriminazioni da parte delle aziende sono dovute principalmente alla maternità delle donne ed alla loro maggior dedizione nella cura della famiglia. Le donne infatti, si trovano ad affrontare una molteplicità di compiti che complicano particolarmente l’accesso o lo sviluppo delle opportunità lavorative, rispetto ai “colleghi” uomini.

Per questo, più volte il legislatore è intervenuto al fine di garantire la parità di opportunità e di trattamento fra gli uomini e le donne in ambito lavorativo.

 

Fonti normative

  • Costituzione Repubblica italiana, art. 3 e 37
  • Legge n. 903/1977
  • Decreto Legge n. 791/1981, art. 6
  • Legge n. 108/1990, art. 4, comma 2
  • Legge n. 125/1991
  • D.Lgs. n. 151/2001, art. 3, commi 2 e 3
  • Direttiva 2006/54/CE

 

 

Scheda di approfondimento

Divieto di discriminazione sul posto di lavoro

La parità di opportunità fra donne e uomini è un principio fondamentale del diritto comunitario (Direttiva 2006/54/CE).
Ciò vale in tutti i campi della vita sociale, di cui fa parte incontestabilmente il mondo del lavoro.
In particolare, il divieto di operare discriminazioni sul posto di lavoro in ragione del sesso si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato.

Ai sensi dell’art. 4, comma 1, Legge n. 125/1991, costituisce “discriminazione diretta” qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici in ragione del sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice in situazione analoga.

La legge, al comma 2 dell’art. 4, determina l’esistenza di una “discriminazione indiretta” quando una disposizione, un criterio, una prassi, un patto, o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, a meno che non facciano riferimento a requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa e purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (art. 4, comma 2-bis, Legge n. 125/1991).
Altresì sono considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (art. 4, comma 2-ter, Legge n. 125/1991).

Gli atti, i patti o i provvedimenti che riguardano il rapporto di lavoro delle lavoratrici vittime dei comportamenti discriminatori descritti ai commi 2-bis e 2-ter della Legge n. 125/1991 sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi.

Sono discriminazioni anche i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne (art. 4, c. 2-quater, Legge n. 125/1991).
In particolare è vietata al datore di lavoro qualsiasi discriminazione fondata sul sesso in merito a:

  • l’accesso al lavoro in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale, attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza (art. 1, commi 1 e 2, Legge n. 903/1977; art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001). Pertanto, nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta deve essere necessariamente accompagnata dalle parole “dell’uno e dell’altro sesso” (art. 4, comma 3, Legge n. 125/1991);
  • l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni, e la progressione nella carriera nonché le iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale per quanto concerne sia l’accesso sia i contenuti nonché all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni (art. 3, comma 1, e art. 1, comma 3, Legge n. 903/1977; art. 3, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 151/2001);
  • la retribuzione, la classificazione professionale. Ai sensi dell’art. 2 della Legge n. 903/1977 “la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore” (art. 37, Cost.);
  • la conservazione del posto; le lavoratrici, al pari dei lavoratori, beneficiano della tutela contro i licenziamenti illegittimi fino al compimento del 60° anno di età (art. 4, comma 2, Legge n. 108/1990). Le donne inoltre – in presenza delle medesime condizioni previste per gli uomini – possono optare per la prosecuzione del rapporto – ai sensi dell’art. 6, Decreto Legge n. 791/1981 – oltre il sessantesimo anno di età fino al raggiungimento dell’anzianità contributiva massima utile per incrementare l’ammontare della propria pensione e comunque non oltre il compimento del sessantacinquesimo anno di età.

 

 

Ricorso per comportamenti discriminatori

Qualora il datore di lavoro adotti comportamenti discriminatori, la legge prevede che la lavoratrice – o le organizzazioni sindacali o, il consigliere di parità, su delega della stessa – possano proporre ricorso al Tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunciato.

Il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti, assume sommarie informazioni e spesso concede brevi termini per ulteriori scritti difensivi; se ritiene sussistente la violazione denunciata emana decreto motivato ed immediatamente esecutivo con cui ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti dello stesso oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita.
Avverso il decreto emanato ex art. 15, comma 1, Legge n. 903/1977, la parte soccombente (sia la lavoratrice che il datore di lavoro) può, in virtù del successivo comma 3, proporre opposizione al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, entro il termine perentorio di 15 giorni dalla comunicazione del decreto.
Il giudizio di opposizione si svolge secondo i modi e le forme previsti per il processo del lavoro.

In merito alla repressione delle discriminazioni, è possibile avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, ovvero promuovere, ex art. 4, comma 4, Legge n. 125/1991, il tentativo di conciliazione in sede amministrativa ai sensi dell’art. 410 cod. proc. civ. o dell’art. 69-bis D.Lgs. n. 29/1993 (anche tramite il consigliere di parità), senza che con ciò venga esclusa la possibilità di agire in giudizio.

 

Il lavoro notturno

Il lavoro notturno è vietato alle lavoratrici “nelle aziende manifatturiere, anche artigianali” dall’art. 5 Legge n. 903/1977.
Tale divieto opera dalle ore 24 alle ore 6 e non riguarda le donne che svolgano mansioni direttive o che siano addette ai servizi sanitari aziendali.
La norma prevede anche la possibilità di regolare diversamente il divieto e anche di rimuoverlo, attraverso la stipulazione di un contratto collettivo, anche aziendale, da comunicarsi entro 15 giorni all’Ispettorato del lavoro, con indicazione delle lavoratrici interessate.
La diversa regolamentazione deve essere giustificata in ragione di particolari esigenze della produzione, tenendo altresì conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell’organizzazione dei servizi.

La Corte di cassazione penale, con sentenza del 2/12/86, ha precisato che sul rispetto di queste esigenze deve vigilare l’Ispettorato del lavoro; conseguentemente, la comunicazione di cui si è detto assume una natura sostanziale e non meramente formale, poiché consente all’Ispettorato di verificare che la modifica al divieto posto dalla legge sia lecitamente avvenuta.
In ogni caso, il divieto di cui all’art. 5 Legge n. 903/1977 non può essere derogato nei confronti della lavoratrice madre, dal concepimento e fino al compimento del settimo mese di età del bambino.

Il Ministero del lavoro, con circolare n. 142 del 28/12/83, ha chiarito che l’accordo aziendale idoneo a derogare al divieto legislativo deve essere stipulato da una espressione sindacale aziendale, rappresentativa dei lavoratori, comunque denominata (Rappresentanza Sindacale Aziendale, Consiglio di Fabbrica o altro).
In altre parole, la deroga al divieto non potrebbe essere legittimamente prevista in un accordo stipulato direttamente con i singoli lavoratori.

La Corte di giustizia dell’Aja ha censurato lo Stato italiano in relazione al divieto in questione, giudicato discriminatorio.
In realtà, si deve pure tener presente che, prima che tale divieto fosse introdotto, si era creato un vero e proprio abuso del lavoro notturno femminile, in quanto si reputava che le lavoratrici fossero il soggetto più debole tra i prestatori d’opera, e quindi più facilmente avviabili ad un turno di lavoro particolarmente disagevole.
Inoltre, non si può dimenticare che il sindacato può sempre rimuovere il divieto, se sussistono valide ragioni.