Malattie professionali e diritto penale

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Questa voce è stata curata da Stefano Zirulia

 

Definizione

Per malattia professionale (o tecnopatia) si intende una patologia che si sviluppa a causa della presenza di stimoli nocivi nell’ambiente di lavoro.

La malattia professionale si distingue in maniera netta dall’infortunio che, pur essendo analogamente connesso ad una occasione di lavoro, è definito come un evento verificatosi per causa violenta ed esterna (ossia da un fattore che opera dall’esterno con azione intensa e concentrata nel tempo, rapida).

Per occasione di lavoro si intende quel particolare rapporto anche mediato ed indiretto che deve intercorrere tra l’evento lesivo e il lavoro.

Gli agenti responsabili sono tantissimi e spesso i lavoratori sono esposti alla loro azione senza conoscere i rischi a cui vanno incontro.
I fattori che hanno maggiore rilevanza sono quelli dovuti all’edilizia, all’agricoltura, agli agenti cancerogeni, i cui effetti si manifestano dopo decenni dal loro utilizzo, e l’impiego sempre più diffuso sia nell’industria che in campo agricolo, di sostanze chimiche dannose per la salute dei lavoratori.

Altri fattori di rischio sono legati all’organizzazione del lavoro, campo in cui il fattore umano ormai riveste un ruolo marginale. A questi vanno aggiunti dei fattori emergenti legati principalmente al lavoro d’ufficio (attualmente in Italia il terziario è il settore che occupa il maggior numero di lavoratori) in cui si hanno molte tipologie di malattie professionali (difficilmente infortuni) in genere di scarsa gravità ma importanti per il numero di casi registrati.

 

Rinvio ad altre voci per approfondimenti

Per approfondimenti si vedano le seguenti voci:

 

 

Normativa di riferimento

La voce, oltre ai riferimenti al c.p.p., rinvia ai seguenti testi normativi:

  • Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (integrato con le modifiche apportate dal D.Lgs. 3 agosto 2009 , n. 106)
  • Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300
  • Legge 3 agosto 2007, n. 123, Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia.
  • D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468
  • Costituzione della Repubblica italiana

 

 

Quadro normativo

È noto che lo svolgimento delle attività d’impresa può rappresentare una minaccia per la vita, la salute e l’integrità fisica dei soggetti che, a qualunque titolo, prendono parte al ciclo produttivo.

I pericoli derivanti dall’attività di impresa sono in grado di proiettarsi anche al di fuori delle mura aziendali, minacciando e ledendo la vita e la salute dell’intera collettività: la vicenda della Eternit di Casale Monferrato è soltanto un macroscopico esempio del potenziale offensivo che talune attività produttive esprimono rispetto all’ambiente che le circonda.
Trattandosi di materia estranea alle malattie professionali in senso stretto, in questa sede ci si limita a segnalare che, di fronte a queste minacce, l’ordinamento penale interviene attraverso un sistema di contravvenzioni (ad es. quelle previste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, Testo Unico dell’Ambiente) e di delitti. Tra questi ultimi rivestono particolare importanza gli artt. 437, 434 e 451 cod. pen., i quali configurano, rispettivamente, le fattispecie di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, disastro doloso e disastro colposo.

I primi due delitti sono stati recentemente contestati, nella forma aggravata dall’evento (prevista al comma secondo delle rispettive norme incriminatrici) proprio alla multinazionale Eternit, nell’ambito del processo in corso a Torino.

In relazione ai delitti dolosi in materia di malattie professionali, v. anche il par. “Colpa”.

Il diritto penale protegge questi beni fondamentali sanzionando tanto le condotte che li espongono a pericolo, quanto quelle che effettivamente li danneggiano.

Occorre peraltro notare che la magistratura penale ha iniziato ad interessarsi alle malattie professionali solo a partire dalla seconda metà degli anni ’70, e che la prima pronuncia della Cassazione in materia è quella relativa ai tumori vescicali da ammine aromatiche provocati dall’I.P.C.A. di Ciriè (Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 1979, Ghisotti, in Riv. giur. lav. 1980, IV, 165). Ancora oggi la maggior parte dei casi di malattie professionali, persino se indennizzati dall’INAIL, non arrivano nelle aule giudiziarie penali, con la conseguenza che i relativi responsabili restano impuniti (v. DEIDDA B., Il Testo Unico per la sicurezza e la salute dei lavoratori: molto rumore per (quasi) nulla? , in Dir. pen. e proc. 2008, p. 97).

Il compito di sanzionare le condotte pericolose è affidato alle contravvenzioni previste dalle leggi speciali relative alla sicurezza ed alla salute del lavoro.
In passato esisteva una moltitudine di leggi speciali in materia (si ricordano, a titolo d’esempio, i D.P.R. 547/1955 e 303/1956, sui quali v. par. “Colpa”, mentre oggi gran parte della normativa rilevante (benché non tutta) è contenuta nel Decreto Legislativo n. 81 del 2008, modificato dal Decreto n. 106 del 2009 (si parla, comunemente ma con espressione impropria, di Testo Unico sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro).

Le contravvenzioni previste dal c.d. Testo Unico (e dalle leggi speciali che sono rimaste in vigore, come, a titolo d’esempio, il D.P.R. 128/1959, contenente le norme di polizia delle miniere e delle cave, e il D.P.R. 322/1956, recante norme relative all’industria della cinematografia e della televisione) sono reati aventi funzione preventiva, dal momento che puniscono la violazione di obblighi strumentali alla tutela della vita e della salute, anche prima che da tale violazione derivino eventi lesivi: si parla, infatti, di reati di condotta e di pericolo.

Nel Decreto n. 81 del 2008, tali contravvenzioni vengono inserite nell’ultimo capo, costantemente dedicato alle sanzioni penali, di ciascuno dei primi undici titoli del testo normativo. Il Decreto, infatti, tratta gli argomenti in maniera ordinata e sistematica, suddividendoli in tredici titoli, ciascuno dei quali è a sua volta ripartito in più capi: nei primi undici titoli si trovano i principi generali e le specifiche norme cautelari per la sicurezza e la salute del lavoro (sul concetto di norma cautelare, v. par. “Colpa”), ed è la loro violazione ad essere sanzionata con le contravvenzioni di cui si sta parlando.
Ad esempio, nel titolo I (Principi Comuni), capo III (Gestione prevenzione) è previsto l’obbligo, a carico del datore di lavoro, di predisporre il documento di valutazione dei rischi (art. 29): la violazione di tale obbligo è sanzionata con la contravvenzione, inserita nel capo IV, dell’arresto da 3 a 6 mesi o dell’ammenda da 2500 a 6400 euro (art. 55, comma 1): la contravvenzione si applica, essendo un reato di condotta e di pericolo, a prescindere dal fatto che si siano verificati eventi lesivi per la vita e la salute..

Proprio perché puniscono la semplice violazione di regole cautelari, questi reati prevedono sanzioni piuttosto contenute: le contravvenzioni più gravi sono punite con l’arresto fino a 8 mesi e la pena detentiva può essere commutata, sussistendo le condizioni indicate dalla legge, in sanzione pecuniaria (art. 302 del TU 81/2008).

Quando le condotte pericolose si traducono in eventi dannosi per la vita e la salute sul lavoro – vale a dire incidenti, malattie o morti – vengono in rilievo anche i delitti previsti dal codice penale, vale a dire l’omicidio colposo (art. 589, comma 2, cod. pen.) e le lesioni personali colpose (art. 590, commi 1 e 3 cod. pen.), commessi violando le norme sulla sicurezza e la salute del lavoro.
Si tratta, infatti, di reati d’evento e di danno, i quali non puniscono l’esposizione a pericolo, ma l’effettiva lesione della salute e dell’integrità fisica sul luogo di lavoro. Per questo motivo comportano, almeno in teoria, pene più elevate, come di seguito indicato.

Il delitto di omicidio colposo, commesso con violazione della normativa sulla sicurezza e la salute del lavoro (art. 589, comma 2 cod. pen.) punisce, con la reclusione da due a sette anni, chiunque cagiona, violando le norme sulla salute del lavoro, la morte di un uomo.
Il delitto di lesioni colpose (art. 590, commi 1 e 3 cod. pen.), si articola nelle seguenti fattispecie: cagionare per colpa una lesione personale lieve (reclusione fino a tre mesi o multa fino a euro 309); cagionare, violando le norme sulla sicurezza e la salute del lavoro, una lesione personale grave (reclusione da tre mesi a un anno o multa da euro 500 a euro 2000); cagionare, violando le norme sulla sicurezza e la salute del lavoro, una lesione personale gravissima (reclusione da uno a tre anni).

È molto importante chiarire che le disposizioni contenute nelle leggi speciali sulla salute e sicurezza del lavoro – oggi principalmente rappresentate, come visto, dal c.d. Testo Unico n. 81/2008 – trovano applicazione anche nei processi per i delitti di omicidio colposo e lesioni colpose: da una parte, infatti, la giurisprudenza somma le pene previste per le contravvenzioni con quelle previste per i delitti (cfr. Cass. pen., sez. IV, 6 giugno 2001, n. 35773, in Cass. pen. 2002, 3771); dall’altra parte la rilevata violazione delle norme cautelari dettate dalle leggi speciali permette di muovere all’imputato un rimprovero di colpa specifica, come verrà successivamente chiarito (v. par. “Colpa”).

Così inquadrata la disciplina complessiva della tutela penale della salute e sicurezza sul lavoro – composta, lo si ripete, dalle contravvenzioni di condotta pericolosa contenute nelle leggi speciali e dai delitti di evento dannoso del codice penale – occorre evidenziare che, essendo la presente voce dedicata ai profili penali delle malattie professionali – ossia alle responsabilità penali derivanti da veri e propri eventi dannosi, e non da semplici pericoli – la trattazione avrà ad oggetto i soli delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose del codice penale, mentre le questioni relative alle leggi speciali verranno trattate esclusivamente sotto il profilo della loro rilevanza in tema di colpa specifica (v. par. “Colpa”). Per quanto invece riguarda i profili sanzionatori delle contravvenzioni contenute nelle leggi speciali – cioè le pene che esse prevedono per i casi in cui la salute e la sicurezza del lavoro siano soltanto esposte a pericolo, e non effettivamente lese – non si aggiungerà altro a quanto sopra accennato, essendo tematica senz’altro meritevole di trattazione in una voce a se stante.

Ciascuno dei prossimi paragrafi esamina uno dei cinque elementi essenziali del reato d’evento colposo, sia esso un omicidio o una lesione personale:

  1. il soggetto che lo realizza
  2. la sua condotta
  3. l’evento lesivo
  4. il nesso di causalità tra la condotta e l’evento lesivo
  5. la colpa.

La sistematica che giuda l’illustrazione dei singoli elementi rispecchia quella seguita dalla giurisprudenza nelle decisioni in materia di malattie professionali, come di volta in volta viene evidenziato.

 

Soggetti responsabili

Soggetti persone fisiche

I reati di evento sopra indicati (v. par. “Quadro normativo”) possono, in linea di principio, essere contestati a chiunque: gli articoli 589 e 590 cod. pen. si aprono infatti con le parole «chiunque cagiona…» (si parla, tecnicamente, di reati comuni).
Ciò comporta che, specie nei processi relativi agli infortuni – ossia a quegli incidenti che si verificano durante il turno di lavoro per una “causa violenta” facilmente individuabile – vengano chiamati a rispondere penalmente non solo i datori di lavoro, ma anche, ad esempio, gli stessi lavoratori la cui condotta abbia contribuito a determinare l’evento (si pensi al caso del lavoratore addetto alla conduzione di un rullo gommato che investe il collega, e che viene condannato insieme con il direttore del cantiere: il primo per aver materialmente causato l’evento, il secondo per non aver organizzato l’attività in maniera sicura, Pret. Pordenone, 31 marzo 1993, Masarin, in Riv. crit. lav. 1994, 202).

Viceversa, nella maggior parte dei procedimenti penali relativi alle malattie professionali – le quali, come si vedrà ai paragrafi ”Eventi lesivi” e ”Accertamento del nesso causale”, sono veri e propri processi patologici che si sviluppano in un lungo arco temporale, le cui cause sono spesso rappresentate da diversi anni di esposizione a fattori di rischio – siedono sul banco degli imputati i soggetti garanti dell’impresa, ossia le persone gravate dell’obbligo giuridico di impedire che, durante il ciclo produttivo, si verifichino eventi dannosi o pericolosi per la salute: solo questi soggetti, infatti, avrebbero potuto, nel corso degli anni, adottare le misure cautelari idonee ad impedire che insorgessero le malattie.
L’obbligo di impedire gli eventi, che si definisce giuridico in quanto deve essere stabilito dalla legge, è chiamato, tecnicamente, posizione di garanzia.

A beneficio del lettore giurista si segnala il recente contributo di BLAIOTTA, L’imputazione oggettiva nei reati d’evento alla luce del Testo Unico sulla sicurezza del lavoro (in Cass. pen. 2009, 6, 2263 ss), che propone una rilettura della figura del garante, da effettuarsi alla luce della c.d. teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, finalizzata ad individuarne il «reale significato giuridico».
In questa sede, non essendo possibile ripercorrere l’intero iter argomentativo del saggio in parola, ci si limita ad evidenziare che l’Autore interpreta la posizione di garanzia come sfera di responsabilità comportante l’obbligo di gestire il rischio, e ne evidenzia l’essenzialità tanto nei reati omissivi, quanto nei reati commissivi (sulla qualificazione delle condotte lesive della salute e della sicurezza sul lavoro anche in termini commissivi, v. infra par. “Condotte”; sulla necessità di ripensare la posizione di garanzia anche nel quadro delle condotte attive, v. già PEDRAZZI, Profili problematici del diritto penale d’impresa, in Riv. Trim dir. pen. econ. 1988, 1, p. 127). Muovendo da tali presupposti, e coordinandoli con le novità introdotte dal c.d. Testo Unico 81/2008, l’Autore indica alcune direttive per la costruzione di una «mappa dei poteri e delle responsabilità» nell’impresa, attraverso la quale risulti possibile risalire dall’evento lesivo al soggetto che l’ha cagionato o che avrebbe dovuto impedirlo.

La principale legge italiana attualmente in vigore in materia di salute e sicurezza del lavoro, ossia il c.d. Testo Unico 81/2008, modificato dal Decreto n. 106 del 2009 (v. par. “Quadro normativo”), individua due categorie di soggetti responsabili: i responsabili per diretta previsione legislativa ed i responsabili per delega di funzioni.

Per un inquadramento delle novità introdotte dal Testo Unico, v. PISANI N., Profili penalistici del Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, in Dir. pen. e proc. 2008, 7, 819; sulla disciplina previgente v. MAZZACUVA N. – AMATI E., Il diritto penale del lavoro, in CARINCI F. (a cura di), Commentario di diritto del lavoro, 2007, 15ss; nonché PULITANÒ, Voce Igiene e Sicurezza del lavoro (tutela penale) in Digesto delle Discipline Penalistiche (Agg.), I, 2000, 106ss, 388ss; v. anche VENEZIANI, Omicidio e lesioni colpose nel settore del lavoro, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Trattato di diritto penale, 2003, 402 ss).

A) tra i soggetti responsabili della salute sul lavoro per diretta previsione legislativa, si segnalano, in particolare:

  • il datore di lavoro, definito «il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» (art. 2, lett. b), che contiene ulteriori precisazioni con riferimento al datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni). I suoi obblighi sono dettati dall’art. 17 (valutazione dei rischi e predisposizione del relativo documento; designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione) e 18 (in particolare, informazione dei lavoratori in merito ai rischi ai quali sono esposti; predisposizione delle misure cautelari idonee a prevenire pericoli e danni).
  • il dirigente, ossia la «persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa» (art. 2, lett. e)). I suoi obblighi sono dettati dall’art. 18, e quindi si sovrappongono ad una parte degli obblighi del datore di lavoro: ciò significa che il dirigente è l’alter ego del datore di lavoro, benché solo nell’ambito del settore a lui affidato.
  • il preposto, ossia la «persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa» (art. 2, lett. e)). I suoi obblighi, dettati dall’art. 19, possono essere sintetizzati nel dovere di sorveglianza diretta sul concreto svolgimento del lavoro e sull’adozione delle misure disposte dai dirigenti e dai datori di lavoro.
  • Il Testo Unico prende in considerazione anche altre figure, ponendo in capo ad esse specifici obblighi sanzionati penalmente attraverso contravvenzioni: si tratta, in particolare del medico competente (art. 25) e degli stessi lavoratori (art. 20) È però controverso se tali soggetti siano titolari dei soli obblighi specificamente previsti, oppure di vere e proprie posizioni di garanzia, cioè dell’obbligo di attivarsi per impedire eventi di morte o lesioni, con conseguente responsabilità per i delitti di evento.

Con riferimento all’ultimo problema prospettato si propone il seguente esempio.
L’art. 20, comma 2 lett. e) impone ai lavoratori di segnalare immediatamente ai loro superiori eventuali deficienze del sistema preventivo: la violazione di tale obbligo comporta la sola sanzione prevista dalla contravvenzione di cui all’art. 59 (arresto fino a un mese o ammenda da 200 a 600 euro) oppure anche la responsabilità per gli eventi lesivi che, a causa della mancata segnalazione, dovessero verificarsi a carico dei colleghi, e dunque le sanzioni previste dai delitti del codice penale (lesioni e omicidio colposo, v. par. “Quadro normativo)?
La questione è stata affrontata dalla giurisprudenza penale solo con riferimento alle condotte commissive dei lavoratori, e nell’ambito dell’infortunistica (ad. es. la sopraccitata Cass. 26020/09, imp. Cipiccia e al., ha confermato la condanna a carico di quattro lavoratori che avevano predisposto un impianto elettrico non sicuro, così determinando la morte di un loro collega). Con riferimento alla condotta di omessa segnalazione di rischi, la Cassazione civile ha riconosciuto, nel vigore della L. 626/1994, la responsabilità concorsuale tra lavoratore e datore di lavoro (sez. III, 21 aprile 1995, n. 4493, Rep. Foro it., 1995, 1350; per ulteriori approfondimenti sul punto, v. VENEZIANI, Omicidio e lesioni colpose nel settore del lavoro, in MARINUCCI-DOLCINI (a cura di), Trattato di diritto penale, 2003, 443 ss)
Ai sensi dell’art. 299 del Testo Unico, un soggetto può rivestire il ruolo di datore di lavoro, dirigente o preposto sia per formale investitura sia per semplice esercizio di fatto dei poteri giuridici riferiti alle diverse figure.
Il soggetto che, ad esempio, esercita abitualmente i poteri di sorveglianza diretta nell’ambito di un cantiere, può essere chiamato a rispondere penalmente per gli eventi lesivi che hanno colpito i lavoratori, e ciò a prescindere dal fatto che il suo superiore lo abbia formalmente designato preposto.

B) Soggetti responsabili della salute sul lavoro per delega di funzioni.
L’art. 16 del c.d. Testo Unico n. 81/2008 consente al datore di lavoro di delegare ad altri soggetti determinate funzioni relative alla tutela della salute e sicurezza, a meno che non si tratti di obblighi non delegabili (in particolare non lo sono quelli previsti dall’art. 17, indicati sopra alla lettera A) e purché siano rispettate determinate condizioni, indicate nei commi 1 e 2. L’art. 16, comma 1 richiede:

  1. che la delega «risulti da atto scritto recante data certa»;
  2. «che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate»;
  3. che la delega «attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate»;
  4. che «attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate»;
  5. che «sia accettata dal delegato per iscritto».
    L’art. 16, comma 2 stabilisce inoltre che alla delega deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità.


Per un lungo periodo la delega di funzioni è stata considerata con sfavore dalla giurisprudenza, la quale vi intravedeva, almeno nelle piccole imprese, l’intenzione del datore di lavoro di scaricare la propria responsabilità su altri soggetti (ad es. limitavano l’efficacia della delega alle imprese di grandi dimensioni le sentenze Cass. 28 gennaio 1986, in Giur. it., 1986, II, 417; Cass. 18/10/1984, in Riv. pen. 1986, 338).
La dottrina più autorevole – successivamente seguita dalla giurisprudenza ed oggi anche, come visto, dal legislatore – ha invece sempre messo in luce i due ostacoli che si oppongono alla concentrazione della responsabilità in capo al vertice dell’impresa: da una parte il principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 comma 1 della Costituzione, che vieta di creare responsabilità penali da mera posizione, ossia in assenza di una puntuale verifica circa la possibilità concreta di impedire l’evento; dall’altra il pregiudizio per gli stessi interessi della salute e della sicurezza, non essendo concepibile che il vertice possa effettivamente controllare l’intero andamento dell’impresa (PEDRAZZI: Profili problematici del diritto penale d’impresa, cit., p. 134; PULITANÒ, Voce Igiene e Sicurezza del lavoro, cit., p. 394)

La delega di funzioni produce due effetti. Da un lato crea una nuova posizione di garanzia in capo al delegato: questi, pertanto, potrà essere chiamato a rispondere, oltre che per i reati contravvenzionali (v. par. “Quadro normativo”), anche per i delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose, qualora non abbia adempiuto agli obblighi che gli sono stati trasferiti, e dalle sue condotte antidoverose siano derivati eventi lesivi. Dall’altro lato non cancella la posizione di garanzia in capo al datore di lavoro delegante, ma ne muta il contenuto, nel senso che da quel momento egli dovrà vigilare «in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite» (art. 16, commi 3 e 3-bis): anche il delegante, pertanto, potrà essere chiamato a rispondere di omicidio colposo o lesioni personali colpose, qualora sia venuto meno al dovere di sorveglianza, e in tal modo non abbia impedito la verificazione di eventi lesivi. L’obbligo di sorveglianza del delegante si intende assolto, stabilisce il comma 3, in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di organizzazione e gestione di cui alla Decreto Legislativo 231/2001, sul quale ci si soffermerà nel prossimo paragrafo.

L’art. 16, comma 3-bis, infine, ammette la subdelega, ossia dà facoltà al delegato di delegare a sua volta le funzioni, attribuendole ad un terzo soggetto. Tale facoltà, oltre che soggetta alle stesse condizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 16, è sottoposta a precise limitazioni: anzitutto può riguardare solo «specifiche funzioni», e non l’intero contenuto della delega; in secondo luogo «non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite»; infine il subdelegato non può, a sua volta, trasferire ad altri le funzioni che gli sono state attribuite.

 

Soggetti persone giuridiche

Il Decreto Legislativo n. 231 del 2001, all’art. 25-septies (introdotto dalla Legge 123 del 2007), prevede che, qualora vengano commessi il delitto di omicidio colposo con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro (art. 589, comma 2 cod. pen.) oppure quello di lesioni gravi o gravissime con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro (art. 590, comma 3 cod. pen.) possa risponderne anche l’ente collettivo che gestisce l’impresa (ad esempio l’associazione o la società; sono invece espressamente escluse, ex art. 1 comma 3, tutte le Pubbliche Amministrazioni).
Si tratta di una nuova forma di responsabilità, denominata responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato (art. 1 del D.lgs. 231/2001), che permette di infliggere all’ente colpevole quattro tipologie di sanzioni:

  1. pecuniaria
  2. interdittiva
  3. confisca di beni
  4. pubblicazione della sentenza (artt. 9 e ss).

Affinché possa configurarsi tale responsabilità, e possano essere applicate le citate pene, sono richiesti quattro requisiti.

  • Anzitutto, ai sensi dell’art. 2 del Decreto 231/2001, è necessario che il reato figuri nell’elenco tassativo degli illeciti penali dai quali può derivare la responsabilità dell’ente. Tale elenco è contenuto negli articoli 24 e seguenti dello stesso decreto, e dal 2007 comprende, come appena visto, anche gli omicidi colposi e le lesioni colpose sul lavoro. È importante evidenziare che, per espressa disposizione dello stesso art. 2, le norme del decreto relative ai reati e alle sanzioni non hanno effetto retroattivo, e dunque si applicano solo per il futuro: pertanto, con riferimento alle malattie professionali, e più in generale agli eventi lesivi sul lavoro, gli enti possono essere sanzionati solo per i fatti avvenuti dopo l’introduzione dell’art. 25 septies, ossia dopo il 2007.
  • In secondo luogo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto 231/2001, occorre verificare che il delitto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica. Recentemente, nella prima sentenza che ha inflitto una condanna ex art. 25 septies, il vantaggio dell’ente è stato identificato nel risparmio sui costi delle misure preventive (si trattava del processo per la tragedia del Truck Center di Molfetta, dove il 3 marzo 2008 morirono cinque persone per le esalazioni di acido solforico sprigionatesi durante la pulizia di una cisterna: Tribunale di Trani, sez. Molfetta, 26 ottobre 2009).
  • In terzo luogo, sempre ai sensi dell’art. 5, è necessario che l’autore dell’illecito sia o un soggetto apicale (ad esempio il datore di lavoro o l’amministratore della società) o un soggetto sotto la direzione o vigilanza di un soggetto apicale.
  • Infine, l’ente può sottrarsi alla responsabilità se prova di avere adottato e attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi (artt. 6, 7). In materia di malattie professionali, dunque, l’ente dovrà dimostrare di aver adottato un modello capace di tutelare la salute dei lavoratori. Occorre notare che si tratta dello stesso modello attraverso il quale il datore di lavoro adempie l’obbligo di vigilare sulla condotta dei delegati (art. 16, comma 3-bis, TU 81/2008, v. par. “Nesso causale”).

Per una recente disamina dei problemi in materia v. DI GIOVINE, Sicurezza sul lavoro, malattie professionali e responsabilità degli enti, in Cass. pen. 2009, 3, 1325 ss).

 

Condotte

Le condotte sanzionate penalmente posso essere attive o omissive: nel primo caso si parla di reati commissivi, nel secondo caso di reati omissivi.

I delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose possono essere realizzati attraverso entrambe le tipologie di condotta: quella attiva è direttamente prevista dagli articoli 589 e 590 cod. pen. (v. par. “Quadro normativo”); quella omissiva acquista rilevanza penale in forza della combinazione tra gli stessi articoli 589 e 590 cod. pen., e l’art. 40, comma 2, cod. pen., ai sensi del quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Ad esempio, è attiva la condotta del datore di lavoro che espone i lavoratori ad una determinata sostanza tossica, così cagionandone la malattia (art. 590 cod. pen.) o la morte (art. 589, comma 2 cod. pen.); mentre è omissiva quella del dirigente che contravviene l’obbligo di «fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale» (art. 18, comma 1, lett. d., Decreto n. 81/2008), così non impedendo l’insorgere della malattia (art. 40, comma 2, 590 cod. pen.) o della morte (art. 40, comma 2, 589 cod. pen.).

Al lettore giurista è noto che, fino ad un passato recente, la giurisprudenza qualificava sistematicamente le condotte dei soggetti garanti della salute sul lavoro come omissive, sovrapponendo il piano oggettivo della condotta con il carattere antidoveroso del rimprovero per colpa (cfr. per tutte Cass. pen. sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988, imp. Macola e altro, in Foro it. 2003, 324ss, con nota di GUARINIELLO; il problema è limpidamente colto da BLAIOTTA R., L’imputazione oggettiva nei reati d’evento alla luce del Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, in Cass. pen. 2009, 6, 2263 ss; v. anche FIANDACA-MUSCO, Diritto penale-Parte Generale, V ed., 2007, p. 609).
E’ altrettanto noto come tale impostazione si riflettesse sull’accertamento della causalità, posto che si riteneva che la causalità omissiva, per la sua natura ipotetica, potesse essere provata con un grado di attendibilità minore rispetto a quello raggiungibile nella causalità commissiva (il tema viene affrontato infra al par. 5.2.).
In questa sede è importante sottolineare che la giurisprudenza più recente, sulla scorta degli studi dottrinali (v. VIGANÒ F., Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice, in Corr. Merito 2006, 961ss; MASERA L., Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir. pen. proc. 2006, 493ss), ha iniziato a qualificare le condotte dei garanti dell’impresa anche come commissive. Sul punto si segnalano la sentenza di Cassazione su Porto Marghera (Cass. pen. sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, imp. Bartalini e al., in Foro it., II, 550ss, con nota di GUARINIELLO), che dalla qualificazione in termini commissivi trae inferenze in punto di accertamento della causalità; nonché una recente sentenza in materia di infortuni sul lavoro (Cass. pen., sez. IV, 29 aprile 2009, n. 26020, imp. Cipiccia e al., in Danno e resp. 2009, 11, 1111) che applica espressamente i criteri qualificatori proposti dalla sopraccitata dottrina, facendo coincidere il carattere commissivo della condotta con l’introduzione nella realtà di un nuovo fattore di rischio.

È importante evidenziare che, siano esse attive od omissive, le condotte dei soggetti operanti dell’impresa possono essere sanzionate penalmente solo quando violano delle norme cautelari, ossia quelle regole, scritte o non scritte, che stabiliscono come comportarsi nello svolgimento di attività pericolose, indicando le misure cautelari che devono essere adottate al fine di eliminare o ridurre i rischi.
Il problema della violazione delle norme cautelari trova peraltro la sua corretta collocazione sistematica nell’ambito della colpa (malgrado le sovrapposizioni concettuali alle quali va spesso incontro la giurisprudenza e che sono state sopra segnalate) e viene pertanto trattato al paragrafo “Colpa”.

 

Eventi lesivi

In materia di malattie professionali, gli eventi lesivi per i soggetti operanti nell’impresa possono consistere in patologie, ed in tal caso viene contestato il delitto di lesioni colpose, nelle forme lievi, gravi o gravissime (art. 590 cod. pen.); oppure nella morte, e in tal caso viene contestato il delitto di omicidio colposo (art. 589 cod. pen.).
Occorre inoltre ricordare che, come già evidenziato (v. par. “Quadro normativo”), la giurisprudenza applica congiuntamente i delitti previsti dal codice penale e le contravvenzioni previste dalle leggi speciali, sommando tra loro le relative pene.

Nel nostro sistema penale vengono considerati “eventi” non solo la malattia e la morte, ma anche l’anticipazione della malattia o della morte, e l’aggravamento della malattia. Ciò, come meglio si vedrà nel paragrafo sul nesso di causalità, è molto importante in quanto permette di incriminare non solo le condotte senza le quali l’evento non si sarebbe verificato, ma anche quelle che hanno anticipato o aggravato eventi che comunque si sarebbero verificati (sul punto v. anche la giurisprudenza citata nelle voci Tumori amianto-correlati e diritto penale e Tumori nasali da polveri di legno e diritto penale).

Quanto al concetto di malattia professionale, occorre chiarire due aspetti fondamentali.
Anzitutto la giurisprudenza penale si interessa solo delle patologie che si traducono negli eventi lesivi descritti dal codice penale: dunque o le morti, o le malattie, queste ultime da intendersi come «alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa» (Cass. pen., sez. IV, 19 marzo 2008, n. 17505, in Cass. pen. 2009, 5, 1982).
In secondo luogo, il fatto che una malattia professionale sia inserita nella tabella assicurativa di cui al D.P.R. 1124/1965 comporta l’automatico riconoscimento del nesso causale ai soli fini assicurativi e non penali. La ragione di ciò è del tutto logica: ai fini assicurativi importa solo che la malattia sia derivata da causa lavorativa; ai fini penali, ossia di inflizione di una pena ad una persona determinata, non è sufficiente conoscere il rapporto tra una certa lavorazione ed una certa patologia, poiché occorre individuare chi, con la propria condotta colposa o dolosa, ha determinato tale patologia, ed è pertanto meritevole di subire la pena. Per questo motivo ai fini penali occorre accertare, caso per caso, il nesso di causalità tra la condotta del garante e l’evento lesivo, attraverso le operazioni che verranno descritte nel prossimo paragrafo. Diversamente opinando – ossia applicando la sanzione penale ad uno qualsiasi dei datori di lavoro dell’impresa presso la quale esisteva il fattore di rischio – si violerebbe il divieto costituzionale di responsabilità penale per fatto altrui (artt. 27, comma 1 della Costituzione).

 

Nesso di causalità

L’accertamento del nesso causale nel processo penale

Per la sussistenza dei reati d’evento è necessario che la condotta del soggetto garante abbia causato l’evento lesivo, ossia la morte o la patologia: tale legame tra condotta ed evento è chiamato rapporto (o nesso) di causalità.

La necessità di accertarlo caso per caso è imposta dall’art. 40 del codice penale, e prima ancora dal divieto di responsabilità penale per fatto altrui, sancito dall’art. 27 comma 1 della Costituzione (sul punto v. anche par. “Eventi lesivi”).

Il rapporto di causalità viene accertato dai giudici penali attraverso lo svolgimento del c.d. giudizio controfattuale – la cui validità è stata recentemente confermata dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione dell’11 luglio 2002, n. 30328, imp. Franzese (in Cass. Pen. 2003, 1175, con nota di BLAIOTTA) – in base al quale un antecedente è causa di un evento se non può essere mentalmente eliminato senza che l’evento venga meno.

Passando dalle enunciazioni teoriche alle applicazioni pratiche, ed esaminando le sentenze penali relative alle malattie professionali, emerge che, seppure con qualche oscillazione, i giudici accertano il nesso di causalità eseguendo due verifiche:

  1. Anzitutto il giudice accerta se uno dei fattori di rischio presenti nell’impresa ha cagionato l’evento lesivo;
  2. in secondo luogo il giudice accerta se il rispetto, da parte dell’imputato, di tutte le norme cautelari, scritte e non scritte, avrebbe impedito l’evento lesivo (sulle norme cautelari, v. par. “Colpa”).

In questo modo, lo si evidenzia a beneficio del lettore giurista, la giurisprudenza assorbe i profili di causalità della colpa nel giudizio di causalità materiale: in sostanza, come si dirà altresì al par. “Colpa”, la giurisprudenza tratta il profilo della evitabilità degli eventi lesivi – attraverso la predisposizione delle misure cautelari doverose – nell’ambito del giudizio di causalità tra il fattore di rischio naturalistico e l’evento.
Siffatta impostazione, si nota, è coerente con quella che sovrappone i profili relativi alla condotta con quelli afferenti alla colpa specifica, e che spesso si traduce nella sistematica contestazione di reati omissivi (v. par. “Condotte”): la sovrapposizione tra causalità materiale e causalità della colpa è infatti un tratto caratteristico della causalità omissiva, laddove essa richiede di verificare se la realizzazione della condotta doverosa avrebbe o meno impedito l’evento (v. MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di Diritto penale, 3^ ed, 2009, p. 206 ss).
Tale approccio giurisprudenziale al tema della causalità emerge chiaramente, ad esempio, nelle sentenze in materia di tumori amianto-correlati, per le quali si rinvia alla relativa voce.

Per la differenza tra causalità materiale e causalità della colpa v. MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di Diritto penale, 3^ ed, 2009, p. 308 ss, nonché MANTOVANI, Diritto penale-Parte Generale, 2007, p. 324 ss: questi autori ritengono che il giudizio di causalità della colpa trovi la propria corretta collocazione sistematica nella categoria della colpevolezza. Viceversa, la causalità della colpa viene trattata in sede di tipicità nel manuale di FIANDACA-MUSCO, Diritto penale-Parte Generale, 2007, p. 552).

Nello svolgere i due accertamenti appena indicati, il giudice deve attenersi alle seguenti regole:

  1. ai sensi degli articoli 40 e 41 del codice penale, il giudice è tenuto ad attribuire pari rilievo a tutte le cause necessarie: tanto quelle che hanno agito da sole, determinando l’evento (ad es., l’amianto che causa l’asbestosi); quanto quelle che hanno agito come concause, cioè hanno collaborato con altre cause, così determinando l’evento (ad es., l’amianto che, insieme alla predisposizione personale, determina il mesotelioma), o anticipandolo (le numerose esposizioni all’amianto che, sommandosi, accorciano la latenza del tumore polmonare anticipandone la manifestazione), oppure aggravandolo (le successive esposizioni al rumore che indeboliscono sempre di più l’udito);
  2. come ormai da anni insegna la Corte di Cassazione, il rapporto di causalità deve essere accertato per mezzo di leggi scientifiche, introdotte nel processo penale grazie all’attività dei consulenti tecnici delle parti e dei periti d’ufficio (Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 1979, Ghisotti, in Riv. giur. lav. 1980, IV, 165; Cass. pen., sez. IV, 6 dicembre 1990, imp. Bonetti, in Foro it. 1992, II, 36; tale orientamento giurisprudenziale, ormai granitico, trova la sua origine negli studi di Federico Stella, e in particolare in STELLA F., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, 1975, Giuffrè).

 

 

Leggi scientifiche e processo penale

Nel paragrafo precedente è stato evidenziato che il giudice deve fondare il proprio convincimento, circa la sussistenza del nesso causale, sulla base di leggi scientifiche. Tra i problemi maggiormente discussi in proposito, devono essere segnalati quello del grado di attendibilità della legge scientifica e quello della tipologia di leggi scientifiche che possono accedere al processo penale.
In questo paragrafo si tratterà il secondo problema segnalato, mentre, con riferimento al primo, si rinvia alla voce Tumori amianto-correlati e diritto penale, nonché, per una trattazione completa, a MASERA L., Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale: gestione del dubbio e profili causali, Giuffrè, 2007.

A lungo si è discusso se nel processo penale potessero essere utilizzate solo le leggi scientifiche di tipo universale oppure anche quelle di tipo statistico.
Le prime coprono il 100% dei casi, poiché sono in grado di affermare che il fattore X determina sempre ed invariabilmente l’evento Y. Le seconde, invece, coprono una certa percentuale di casi, poiché sono soltanto in grado di affermare che il fattore X determina l’evento Y in un certo numero di casi, e non in tutti.
Ci si chiedeva allora se fosse possibile fondare una condanna penale su leggi statistiche, oppure se ciò significasse correre il rischio di punire individui innocenti.
La questione riveste un particolare interesse in questa sede, posto che la maggior parte delle leggi scientifiche che vengono in rilievo nel campo delle malattie professionali hanno natura statistica (si pensi, ad esempio, alle leggi epidemiologiche).

Esempio.
Un soggetto, dopo aver lavorato in una impresa dove è stato esposto alla sostanza tossica S1, contrae una patologia P. Il giudice dispone del seguente dato epidemiologico: il 40% dei soggetti affetti da P sono stati esposti alla sostanza S1. Tale dato è sufficiente per affermare che quel soggetto si è ammalato proprio a causa di S1, e non invece a causa di un’altra sostanza tossica con la quale è venuto in contatto al di fuori dell’impresa?

Negli anni ’90 la giurisprudenza – tanto della Cassazione (ex multis, Cass. pen., 12 luglio 1991, Silvestri, in Foro it. 1992, II, 363), quanto delle corti di merito (in maniera espressa a partire da Pret. Torino, 9 febbraio 1995, imp. Barbotto Beraud, in Foro it. 1996, 107ss, con nota di TERMINI; e in Riv. it. dir. proc. pen. 1997, 1447ss, con nota di PIERGALLINI) – riteneva che le leggi statistiche, comprese quelle con coefficienti medio-bassi, fossero in grado di provare i rapporti di causalità, e quindi di fondare sentenze di condanna. Tale convinzione si reggeva su due argomenti di fondo: anzitutto che le condotte penalmente rilevanti dei soggetti garanti della salute sul lavoro hanno sempre natura omissiva (argomento rispetto al quale è stato segnalato il recente revirement giurisprudenziale sulla scorta degli studi dottrinali, v. supra par. “Condotte”); in secondo luogo che la causalità omissiva, in quanto ipotetica, «può essere determinata con un grado di attendibilità minore rispetto a quello normalmente raggiunto dalla causalità reale», e dunque anche sulla base delle precitate leggi statistiche a coefficiente medio-basso (Pret. Torino, 9 febbraio 1995, cit.; negli stessi termini, ex plurimis, Cass. pen., sez. IV, 31 ottobre 1991, Rezza, in Cass. Pen., 1994, 1204). Negli anni ’90, in altre parole, la sistematica qualificazione in termini omissivi delle condotte lesive della salute sul lavoro si accompagnava, in maniera altrettanto sistematica, all’abbassamento dello standard di certezza richiesto per l’accertamento del nesso di causalità (per una chiara ricostruzione del contesto e delle successive evoluzioni del dibattito v. MASERA L.: Nesso di causalità e malattie professionali nella giurisprudenza penale: un difficile equilibrio tra tutela dei lavoratori e garanzie dell’imputato, in MALZANI F., GUAGLIANONE L. (a cura di), Come cambia l’ambiente di lavoro: regole, rischi tecnologie, Giuffrè, 2005, p. 149 ss.).

Tra il 2000 e il 2001 alcune sentenze della Corte di Cassazione adottavano l’orientamento opposto, ritenendo utilizzabili ai fini del giudizio di causalità le sole leggi universali o con coefficiente vicino al 100% (in materia di malattie professionali v. Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 2002, Covili, in Foro it., 2002, II, 289 con nota di FIANDACA). In quelle pronunce i giudici osservavano che le leggi statistiche, per loro natura, coprono solo una certa percentuale di casi, e non consentono di sapere se il caso concreto, sul quale il giudice è chiamato a decidere, ricada nella percentuale coperta o in quella scoperta. Le leggi statistiche, concludeva la Cassazione, lasciano in piedi una situazione di incertezza, di fronte alla quale il principio in dubio pro reo impone di assolvere l’imputato, pena il rischio di condannare innocenti.

Il contrasto giurisprudenziale veniva ricomposto nel 2002 dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la già citata sentenza Franzese, attraverso il ragionamento che verrà ora brevemente illustrato.
Nel 2002 – con la già citata sentenza Franzese – le Sezioni Unite affermano che, tanto nei reati commissivi, quanto nei reati omissivi, la causalità deve essere accertata attraverso il c.d. giudizio controfattuale (v. supra par. “Accertamento nesso causale”). Detto giudizio, si legge nella pronuncia, può essere effettuato attraverso leggi statistiche, persino se queste hanno coefficienti molto bassi, a condizione che il giudice, dopo aver applicato la legge statistica, tramite la quale stabilisce che il fattore X determina l’evento Y in un certo numero di casi, accerti che, nel caso concreto oggetto del processo, non siano intervenuti fattori alternativi ad X i quali abbiano, da soli, cagionato l’evento Y (per un efficace inquadramento della sentenza e dei suoi contenuti v. MASERA L, Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir. pen. proc. 2006, 493ss).

Tornando all’esempio, per verificare il nesso di causalità tra la sostanza S1 e la patologia P il giudice non potrà limitarsi ad applicare il dato epidemiologico, ma dovrà ricercare, attraverso i consulenti ed i periti, quali sono le cause di P nel restante 60% di casi.
Poniamo che esistano altri dati epidemiologici che indicano tali cause nelle sostanze S2 ed S3. Ebbene, se il giudice riesce ad escludere che, nella storia professionale ed extraprofessionale della vittima, siano intervenute S2 ed S3, può concludere che il caso concreto rientra in quel 40% di casi coperti dalla legge statistica, e che pertanto sussiste il nesso di causalità tra S1 e P.

 

Colpa

La Costituzione Italiana (art. 27, comma 1) e il codice penale (artt. 42 e 43) stabiliscono che, per infliggere una pena, non basta aver accertato i quattro elementi oggettivi del reato (soggetto, condotta, evento, nesso di causalità), ma occorre poter muovere un rimprovero personale all’imputato.
Il nostro ordinamento conosce due tipi di rimprovero. Il più grave è “l’hai fatto apposta”, e si rivolge a chi ha agito con dolo, cioè volontariamente. Quello meno grave è “potevi stare più attento”, e si rivolge a chi ha agito con colpa, cioè involontariamente, ma pur sempre violando norme cautelari, scritte o non scritte, il cui rispetto avrebbe invece consentito di evitare l’evento lesivo (in questi termini l’efficace illustrazione di MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale, 2009, 270 ss).

Nei processi penali per malattie professionali vengono, nella maggior parte dei casi, contestati reati colposi: ciò per l’evidente ragione che agli imputati non si rimproverano, di norma, condotte intenzionali, bensì irrispettose di doveri cautelari. Anche in questa sede ci si occupa solo dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose.

In materia di salute e sicurezza del lavoro sono rari i casi in cui vengono contestati all’imputato reati dolosi: si possono ricordare, nella cronaca contemporanea, il processo pendente avanti al Tribunale di Torino contro i proprietari della Eternit, ai quali sono contestati i reati di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dall’evento (art. 437, comma 2 cod. pen.) e di disastro doloso aggravato dall’evento (art. 434, comma 2 cod. pen.); nonché il processo, pendente avanti alla Corte d’Assise di Torino, per la tragedia della Tyssenkrupp, nel quale è contestato l’omicidio doloso (art. 575 cod. pen.).

Si è detto che il rimprovero per colpa è possibile allorché sussistano due condizioni: che il soggetto abbia violato norme cautelari scritte o non scritte; che il rispetto di tali norme avrebbe evitato gli eventi lesivi. Ciascuna di queste affermazioni deve ora essere approfondita individualmente.

 

Colpa specifica

Si parla di colpa specifica quando vengono violate delle norme cautelari scritte, ossia disposizioni contenute nella legislazione speciale in materia di salute e sicurezza del lavoro (v. par. “Quadro normativo). Attualmente, come già evidenziato, gran parte di tale normativa è rappresentata dal c.d. Testo Unico n. 81/2008.

I titoli I (artt. 1 – 61) e II (artt. 62 – 68), del Decreto n. 81/2008, dettano norme cautelari generali, ossia valide per tutte le tipologie di attività produttiva (come, ad es., il dovere del datore di lavoro di predisporre il documento di valutazione dei rischi, ex art. 17); i titoli successivi, invece, hanno ad oggetto specifiche aree di rischio o di prevenzione, come le attrezzature (tit. III), i cantieri (IV), la segnaletica (V), le movimentazione manuale dei carichi (VI), i videoterminali (VII), gli agenti fisici (VIII), le sostanze pericolose (IX), gli agenti biologici (X), le atmosfere esplosive (XI).

Occorre segnalare che, nei processi penali in materia di malattie professionali, vengono spesso in rilievo leggi speciali non più in vigore. Ad esempio, è tuttora frequente che la colpa specifica venga individua sulla base dei D.P.R. n. 547 del 1955, recante norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, e n. 303 del 1956, che conteneva le norme generali per l’igiene del lavoro, malgrado entrambi questi testi normativi siano stati abrogati ad opera del Decreto n. 81 del 2008 (V. ad esempio le voci relative ai tumori amianto-correlati e tumori nasali da polveri di legno).

La ragione di questa apparente anomalia è invero del tutto evidente. Infatti, per valutare la rilevanza penale della condotta dell’imputato, occorre fare riferimento alla normativa vigente all’epoca in cui le vittime erano esposte al fattore di rischio: trattandosi di epoche spesso molto lontane nel tempo – a causa del lungo periodo di latenza tipico di numerose tecnopatie – è assolutamente normale che la normativa sia nel frattempo mutata.

 

Colpa generica

Si parla di colpa generica quanto vengono violate delle norme cautelari non scritte.
Tali norme, essendo appunto non codificate, discendono dagli obblighi generici imposti dall’art. 43 cod. pen e, nella materia della salute sul lavoro, dall’art. 2087 cod. civ. L’articolo 43 del codice penale impone a chiunque l’obbligo di comportarsi secondo diligenza, prudenza e perizia, in modo da ridurre entro limiti consentiti gli specifici rischi inerenti all’attività svolta.

A carico dei soggetti garanti della salute sui luoghi di lavoro tale obbligo è rafforzato dall’art. 2087 cod. civ. , ai sensi del quale «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». In forza delle due norme appena citate, i soggetti garanti dell’impresa sono tenuti a comportarsi come agenti modello: devono cioè adottare non solo le misure indicate dalle norme cautelari scritte, ma anche tutte le ulteriori misure che la migliore scienza e la migliore tecnologia mettono a loro disposizione, al fine di tutelare la salute e la vita degli altri soggetti operanti nell’impresa rispetto all’intero ventaglio di eventi lesivi prevedibili in quel dato momento storico.

Alla luce di tale principio è possibile affermare che, da una parte, «la colpa va accertata con riferimento alle nozioni conosciute o conoscibili all’epoca della condotta, e non a quelle successivamente acquisite (diversamente da quanto può accadere per il rapporto di causalità)» (Cass. pen., sez. IV, 9 maggio 2003, n. 37432, imp. Monti e al., in Foro it. 2004, 69 ss, con nota di GUARINIELLO); dall’altra il garante dell’impresa è gravato dal dovere di «aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche» (Cass. pen., sez. IV, 26 aprile 2000, n. 7402, CED 216476). Quest’ultima affermazione è pacifica in giurisprudenza (v. di recente, in materia infortunistica, Cass. pen., sez. IV, 1 luglio 2009, n. 37840; in tema di tumori amianto-correlati, v. la relativa voce) ed è stato avallata dalla Corte Costituzionale, la quale ha stabilito che il garante non può limitarsi al rispetto delle norme in vigore, bensì, in forza dell’art. 41 della Costituzione (ai sensi del quale «L’iniziativa economica privata… non può svolgersi… in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana») deve attenersi al principio di massima sicurezza tecnologicamente fattibile ed attuabile, conformandosi agli standard di sicurezza propri, in concreto ed al momento, delle singole realtà produttive (Corte Cost. n. 312 del 1996; per una sintesi della decisione ed una rassegna degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in merito, v. VENEZIANI, Omicidio e lesioni colpose cit., 387 ss).

Quanto alle misure cautelari che devono essere adottate dal garante, in ottemperanza al dettato di norme cautelari scritte o non scritte, occorre distinguere le misure di prevenzione tecnica o primaria (rappresentate da precauzioni di carattere permanente e collettivo, ad es. gli aspiratori) dalle misure di prevenzione personale o secondaria (rappresentate dalle precauzioni di carattere mobile e individuale, ad es. le mascherine).
La distinzione non ha solo un rilievo descrittivo, ma anche prescrittivo: come evidenziano le stesse etichette (prevenzione primaria e secondaria), nel nostro ordinamento il datore di lavoro è innanzitutto obbligato ad adottare tutte le misure tecniche disponibili, e può ricorrere a quelle personali solo nel caso in cui quelle tecniche non siano sufficienti ad abbassare il rischio entro livelli consentiti. Tale regime, imposto dall’interpretazione dell’art. 2087 del codice civile in maniera conforme all’art. 41 co. 2 Costituzione, si giustifica in virtù del fatto che le misure primarie eliminano il rischio alla fonte, e pertanto garantiscono il miglior livello di sicurezza possibile (sul punto v. GUARINIELLO, Malattie da lavoro e processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen. 1981, 556ss).

 

Evitabilità

Affinché il rimprovero per colpa possa essere mosso, non basta verificare che l’imputato abbia violato norme cautelari scritte o non scritte, ma occorre altresì dimostrare che il rispetto di dette norme cautelari avrebbe impedito gli eventi lesivi. Tale verifica viene talvolta indicata col termine di evitabilità, talaltra con l’espressione causalità della colpa.
Ciò che peraltro preme segnalare in questa sede è che la giurisprudenza maggioritaria effettua tale giudizio già nel momento in cui verifica il rapporto di causalità: al paragrafo n. 5, relativo appunto al nesso causale, si è infatti osservato che il giudice non si limita ad accertare se uno dei fattori di rischio presenti nell’impresa ha cagionato l’evento lesivo, ma va oltre, e verifica se il rispetto, da parte dell’imputato, di tutte le norme cautelari, scritte e non scritte, avrebbe impedito l’evento lesivo (v. par. “Accertamento nesso causale”, al n. 2 e alla nota ad esso sottostante).

 

Prescrizione dei reati

Il delitto di omicidio colposo con violazione delle norme sulla salute del lavoro si prescrive in 14 anni (art. 589, co. 2; 157, co. 6 cod. pen.); il delitto di lesioni colpose si prescrive in 6 anni (art. 590, co. 1 e 2; 157, co. 1 cod. pen.).

Alcuni degli atti compiuti dall’autorità giudiziaria nel procedimento penale sono in grado di interrompere momentaneamente il decorso della prescrizione: in ogni caso, tuttavia, i termini sopra indicati non possono prolungarsi di oltre un quarto (art. 160 cod. pen.): quindi, rispettivamente, non possono essere superati i 17 anni e 6 mesi ed i 7 anni e 6 mesi.
Il termine di prescrizione, inoltre, rimane sospeso nei casi previsti dall’art. 159 cod. pen., e in particolare quando viene sollevata questione di legittimità costituzionale o investita la Corte di Giustizia delle Comunità Europee e quando si verifica un impedimento delle parti o del loro difensore.

Con riferimento ai reati di cui ci si occupa in questa sede, il numero di anni necessario a maturare la prescrizione deve essere contato a partire dall’evento (art. 158 cod. pen.): dunque dal momento della morte per il delitto di omicidio colposo; dal momento di insorgenza della patologia, oppure dal momento successivo di aggravamento della patologia, per quello di lesioni personali colpose.

Mentre il momento della morte è assolutamente certo, meno agevole è individuare il momento in cui la patologia insorge o si aggrava. Il problema deriva dal fatto che la diagnosi medica permette di stabilire se è insorta o si è aggravata la patologia, ma non quando tali accadimenti (insorgenza o aggravamento) si sono verificati.
Sul punto, pertanto, si sono sviluppati due diversi orientamenti in seno alla Corte di Cassazione: per il primo, e più recente, orientamento, il termine di prescrizione decorre dal momento stesso della diagnosi di insorgenza o di aggravamento (così, in materia di ipoacusie, Cass. pen., sez. IV, 8 gennaio 1998, n. 2522, Croci, in Cass. pen. 1999, 861; in materia di bronchite cronica, 28 settembre 1990, Brighetti e al., in Cass. pen. 1990, I, 429); per il secondo orientamento, favorevole all’imputato (e infatti fondato sul principio del favor rei), il termine di prescrizione decorre da un momento precedente, ossia dal giorno successivo all’ultima visita medica che non ha riscontrato la patologia o l’aggravamento (Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 1989, Frau, in Dir. prat. lav. 1989, 18, 1224; in tema di silicosi, 15 ottobre 1988, Mandelli, in Riv. giur. lav. 1984, IV, 52)

 

Profili processuali

Procedibilità d’ufficio

Il delitto di omicidio colposo è procedibile d’ufficio, ossia senza necessità di querela da parte della persona offesa, ex art. 50 c.p.p.
Il delitto di lesioni personali colpose è procedibile d’ufficio quando si tratta di lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme cautelari per la tutela della salute e della sicurezza del lavoro (art. 590, comma 3). Ciò vale, è importante evidenziarlo, tanto allorché siano state violate norme scritte specifiche, e si configuri pertanto la colpa specifica (v. par. “Colpa specifica”), quanto allorché siano state violate norme non scritte derivanti dall’obbligo di cui all’art. 2087 cod. civ., e si configuri pertanto la colpa generica (v. par. “Colpa generica”). In questi termini, di recente, Cass. pen., sez. IV, 9 novembre 2007, n. 41307, CED rv. 237785 (si tratta peraltro di giurisprudenza consolidata, v. Cass. pen., sez. IV, 7 aprile 1996, n. 5114 in Riv. Trim. Dir. Pen. Economia, 1997, 588; Cass. pen. 13 gennaio 1989, in Cass. pen. 1990, 615).

 

Competenza

La competenza per materia spetta al Tribunale in composizione monocratica per il delitto di omicidio colposo (art. 33-ter c.p.p.) e per quello di lesioni colpose se la malattia ha avuto durata superiore a venti giorni (art. 4 D.Lgs. n. 274/2000). Se la malattia ha avuto durata inferiore, la competenza spetta al Giudice di Pace.

Quanto alla competenza per territorio, in caso di omicidio colposo spetta al giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione (art. 8, comma 2 c.p.p.). Tale luogo corrisponde, nella materia della salute sul lavoro, a quello in cui la vittima svolgeva le proprie mansioni in condizioni di esposizione al fattore di rischio da cui è derivata la patologia. In caso di lesioni personali, la competenza è determinata dal luogo in cui la malattia è insorta o si è successivamente aggravata (art. 8, comma 1 c.p.p). In quest’ultimo caso si ripropongono i problemi, segnalati al par. 7, relativi alla difficoltà di individuare il momento in cui la malattia è effettivamente insorta o si è effettivamente aggravata.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in materia di malattia professionale

Oltre alla casistica di decisioni della Magistratura citata all’interno della presente voce, in tema di malattie professionali si veda anche la sezione specifica nella voce INAIL – Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie.