Rapporto tra giusta causa di licenziamento e procedimento penale

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Questa voce è stata curata da Caterina Camposano

Scheda sintetica

Un fatto penalmente rilevante, commesso dal lavoratore, non integra di per sé gli estremi della giusta causa di licenziamento.

La legittimità del licenziamento per giusta causa deve essere verificata di volta in volta, valutando se il contegno penalmente rilevante tenuto dal lavoratore sia idoneo ad incidere sul legame fiduciario alla base del rapporto di lavoro.

La contestazione di un fatto penalmente rilevante può porre alcuni problemi in ordine alle interferenze tra la pendenza dei procedimenti penale e disciplinare nonché tra la pendenza del procedimento penale e l’eventuale giudizio civile di impugnazione del licenziamento.

Fonti normative

  • art. 2119 c.c.
  • art. 654 c.p.p.

Rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare

Nel nostro ordimento vige il principio di autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare: il datore di lavoro, venuto a conoscenza di un fatto che abbia rilievo sia disciplinare che penale, può esercitare il potere disciplinare senza attendere gli esiti del procedimento penale. Infatti, il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva in ambito penale, sancito dall’art. 27, c. 2, Cost., non si applica estensivamente o per analogia all’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, poiché concerne solo le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato. Del resto, l’azione disciplinare si caratterizza per la necessaria immediatezza della contestazione dell’illecito, astrattamente mal conciliabile con le tempistiche del procedimento penale. Si evidenzia, tuttavia, che, oltre all’immediatezza, l’azione disciplinare è informata al principio dell’immutabilità, sicché la contestazione, oltre che immediata, deve essere sufficientemente precisa, specifica e articolata. Nel caso in cui il datore di lavoro non riesca ad esercitare l’azione disciplinare con adeguata precisione, perché impossibilitato nella cognizione del fatto addebitabile al proprio dipendente, può posticipare l’esercizio del potere disciplinare fino all’esito del procedimento penale, senza che possa ritenersi tardiva la contestazione intervenuta dopo tale momento. Può accadere che, nelle more dello svolgimento del procedimento penale, il datore di lavoro, anziché esperire l’azione disciplinare, abbia interesse ad allontanare il dipendente dal posto di lavoro, disponendone la sospensione cautelare dal lavoro. Questa fattispecie non ha natura disciplinare e trova, di regola, la propria fonte nella contrattazione collettiva.

Rapporti tra giudizio penale e giudizio civile

Il principio dell’autonomia sopra ricordato regola in primo luogo anche le possibili interferenze tra procedimento penale e giudizio civile. Pertanto, se il giudice civile è chiamato a giudicare sulla legittimità di un licenziamento per asserita giusta causa, determinato da un contegno astrattamente integrante gli estremi di un reato su cui pende un procedimento, deve procedere con autonomia all’accertamento dei fatti e della responsabilità del lavoratore. In altri termini, il giudice civile non è vincolato alle decisioni del giudice penale e non è tenuto a sospendere il giudizio avanti a sé in attesa della definizione del giudizio penale.

Cosa accade se il giudizio sulla legittimità del licenziamento si svolga quando sia già intervenuta, sullo stesso fatto, una sentenza penale passata in giudicato?

Come appena accennato, il giudizio penale è tendenzialmente autonomo rispetto al giudizio civile e autonomi sono anche i provvedimenti emessi all’esito dei relativi giudizi. Vi sono, tuttavia, delle eccezioni al principio, regolate nel codice di procedura penale (c.p.p.). Il codice, infatti, distingue a seconda che si tratti di giudizio per le restituzioni o per il risarcimento del danno dovuti dal condannato o dal responsabile civile (artt. 651 c.p.p. e 652 c.p.p.), di giudizio per l’accertamento della responsabilità disciplinare del pubblico dipendente (art. 653 c.p.p.), o di altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 c.p.p.).

Nel rapporto di lavoro privato, il giudizio di impugnazione del licenziamento rientra nell’ultima previsione (art. 654 c.p.p.). Questa diposizione prevede che la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale: la norma, pertanto, circoscrive l’efficacia del giudicato penale alle sole parti che abbiano concretamente partecipato al giudizio penale. La medesima disposizione richiede, perché si produca il vincolo, che i fatti ritenuti rilevanti in sede penale ai fini della decisione, debbano avere rilevanza decisiva anche in sede civile e che la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. In assenza di solo una di tali condizioni, la sentenza penale non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnazione della sanzione disciplinare e il giudice civile dovrà provvedere autonomamente all’accertamento ed alla valutazione dei fatti posti alla base del licenziamento per asserita giusta causa.

Le regole sopra descritte non destano particolari problemi nel caso di sentenze penali di condanna, che vincolano tout court il giudice civile chiamato a giudicare sulla legittimità del licenziamento.

Di maggiore complessità è, invece, il tema della vincolatività della sentenza penale di assoluzione; in effetti tale pronuncia conserva il suo effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un accertamento specifico ed effettivo in ordine alla insussistenza del fatto e della partecipazione dell’imputato. Qualora l’assoluzione sia stata pronunciata a norma dell’art. 530 comma 2 c.p.p. (ossia quando “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”) ovvero in caso di carenza dell’elemento soggettivo (formula assolutoria: “perché il fatto non costituisce reato”), tali pronunce non vincolano il giudice civile. In effetti, in entrambi i casi ricordati, anche se la condotta del lavoratore non configura un reato, essa ben potrebbe essere idonea a recidere il legame di fiducia con il datore di lavoro.
Si precisa che le pronunce di condanna rese al di fuori del dibattimento non acquistano efficacia di giudicato nei giudizi extra-penali; manca, infatti, l’accertamento giudiziale sulla base di prove assunte e discusse in dibattimento.

La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a mente dell’art. 444 c.p.p., (la c.d. sentenza di “patteggiamento”) ancorché inidonea a vincolare il giudice civile, ha finito per acquisire valore probatorio dinnanzi a quest’ultimo. Del resto, con la sentenza di patteggiamento l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone (o consentendone) l’applicazione, non contestando né il fatto né la propria responsabilità. Inoltre, nel caso in cui il contratto collettivo consideri la sentenza penale di condanna passata in giudicato quale fatto idoneo a consentire il licenziamento, il giudice di merito può ben ritenere che gli agenti contrattuali, utilizzando l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. “di patteggiamento”.

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di rapporto tra giusta causa di licenziamento e procedimento penale

  • La giurisprudenza di legittimità riconosce completa autonomia e separazione delle valutazioni espresse nell’ambito dei procedimenti penale e disciplinare, come conseguenza della vigenza del principio della autonomia tra il procedimento disciplinare e quello penale, non più legati dall’istituto della “pregiudizialità penale”, a seguito della mancata riproduzione dell’art. 3 dell’abrogato c.p.p. (Cass. 19260/2019, che richiama Cass. 14.9.2000 n. 12141; Cass. 9.4.2003 n. 5530).
  • “Il rapporto tra processo civile e processo penale si configura in termini di pressochè completa autonomia e separazione, nel senso che, ad eccezione di alcune limitate ipotesi di sospensione del giudizio civile, previste dall’art. 75 c.p.p., comma 3, detto processo deve proseguire il suo corso senza essere influenzato da quello penale, sicchè non si è tenuti a sospendere il giudizio in attesa della definizione del processo penale (cfr. in termini Cass. 17.11.2015 n. 23516; Cass. n. 287/2016)” (Cass. 22494/2019).
  • “Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso” (Cass. 21549/2019).
  • “In tema di licenziamento disciplinare, non è rilevante l’assoluzione in sede penale circa i fatti oggetto di contestazione, bensì l’idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro, al di là della sua configurabilità come reato, e la prognosi circa il pregiudizio che agli scopi aziendali deriverebbe dalla continuazione del rapporto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ravvisato l’ipotesi del trafugamento di beni aziendali, di cui all’art. 25 del c.c.n.l. metalmeccanici del 7 maggio 2003, nonostante l’assoluzione del dipendente in sede penale con la formula perché il fatto non costituisce reato)” (Cass. 7127/2017).
  • Questa Corte ha reiteratamente affermato che l’immediatezza della contestazione disciplinare va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa, fermo restando che la valutazione delle suddette circostanze è riservata al giudice del merito (Cass. 281/2016; Cass. 20719/2013); “L’ accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base del provvedimento di recesso, ricadente “ratione temporis” nella disciplina dell’art. 18 st.lav., così come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42 comporta l’applicazione della tutela indennitaria c.d. forte prevista dallo stesso art. 18 st.lav., comma 5″ (Cass. SS.UU. 30985/2017)
  • “L’adozione della misura della sospensione cautelare non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione nel caso in cui essa venga unilateralmente disposta dal datore di lavoro, mentre nell’ipotesi in cui essa sia prevista e consentita dalla disciplina legale o negoziale del rapporto, e nei termini specifici in cui lo sia, l’effetto sospensivo investe anche l’obbligazione retributiva” (Corte appello L’Aquila , sez. lav. , 04/06/2020, n. 219).
  • “Se è doveroso ritenere accertati anche nel giudizio civile gli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti in un precedente giudizio penale conclusosi con una sentenza di condanna divenuta definitiva, non sia invece sempre possibile trarre da un giudicato di assoluzione dalla responsabilità penale la conseguenza, automatica e vincolante per il giudizio civile, dell’insussistenza di tutti i fatti posti a fondamento dell’imputazione (tanto meno qualora il datore di lavoro, come nel caso di specie, non abbia partecipato al giudizio penale: Cass. 4 marzo 2000, n. 2464): potendo verificarsi che alcuni di essi, pur rivelatisi nella loro indiscussa materialità non decisivi per la configurazione del reato contestato, possano essere rilevanti ai fini civilistici; sicchè, il discrimen tra efficacia vincolante dell’accertamento dei fatti materiali in sede penale e libera valutazione degli stessi in sede civile è costituito dall’apprezzamento della rilevanza in detta sede degli stessi fatti (Cass. 18 ottobre 2000, n. 13818; Cass. 29 novembre 2004, n. 22484; Cass. 5 gennaio 2015, n. 13)… Si deve pertanto ritenere che, nei confronti dell’imputato, la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile nel quale si controverte intorno ad un diritto, il cui riconoscimento dipenda dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale: restando invece impregiudicata la qualificazione giuridica dei fatti medesimi (Cass. 16 febbraio 2009, n. 3713)” (Cass. 31643/2018).
  • “Il fatto penalmente rilevante non integra automaticamente gli estremi della giusta causa di licenziamento, dovendo il giudice di merito adeguatamente motivare sull’oggettiva gravità del fatto e sulla veridicità o no della pretesa provocazione dell’offeso” (Cass. 4175/ 1997).
  • “Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, ove questo sia stato irrogato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. In ogni caso, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della “ratio” degli art. 2119 c.c. e 1 l. 15 luglio 1966 n. 604, cioè tenendosi conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali, sicché non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi la legittimità del recesso nonostante l’assoluzione del lavoratore in sede penale per le medesime vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustificazione dell’immediata risoluzione del rapporto (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., in relazione al licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che aveva prestato denaro dietro notevole interesse ad un collega di lavoro ed aveva proceduto poi a tutti i conseguenti atti di recupero crediti, aveva ritenuto la gravità del comportamento del dipendente, in quanto idoneo a turbare l’ordine della compagine aziendale, distolta dai suoi necessari moduli di solidarietà fra compagni di lavoro e di dedizione esclusiva all’attività di lavoro, ed aveva perciò reputato legittimo il recesso del datore di lavoro, indipendentemente dall’avvenuta assoluzione del lavoratore dal reato di usura)” (Cass. 10315/2000).
  • “La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. ben può essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità (fattispecie relativa ad un licenziamento che faceva seguito ad un patteggiamento da parte del lavoratore in merito all’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio)” (Cass. 5897/2020).
  • “Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di cui all’art. 27, comma 2, Cost., concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, neppure nel caso in cui il c.c.n.l. preveda la più grave sanzione espulsiva solo in tale circostanza. Ne consegue che il giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare, intimato a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, per gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto -, non può limitarsi alla valutazione del dato oggettivo del rinvio a giudizio, ma deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti contestati e la loro idoneità, per i profili soggettivi ed oggettivi, a supportare la massima sanzione disciplinare” (Cass. 18513/2016; 13955/2014).
  • “La sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p., che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini; tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato (nella specie, come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso), ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, (interpretazione a lui esclusivamente rimessa e incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione e rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale), ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. “di patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. (Nella specie, la sentenza della cassazione ha confermato la sentenza di merito che, in relazione al c.c.n.l. per i dipendenti delle Poste Italiane prevedente il licenziamento in tronco in caso di sentenza penale di condanna, aveva rigettato l’impugnativa di licenziamento da parte dei lavoratori che, imputati di rapina in banca, avevano “patteggiato” la pena, senza perciò pervenire ad una sentenza di condanna in senso tecnico)” (Cass. 12804/1999).