Professioni intellettuali

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Questa voce è stata curata da Chiara Bovenga

 

Scheda sintetica

La libera professione intellettuale può essere definita come un’attività di carattere non manuale, volta al soddisfacimento di fini di rilevanza sociale, svolta in modo continuativo e personale da parte di soggetti iscritti in appositi albi, in conformità alla regolamentazione apprestata autonomamente dai rispettivi organi professionali.
La disciplina delle professioni intellettuali è collocata nel libro V del Codice Civile, all’interno del Capo II del Titolo III dedicato al lavoro autonomo.
In particolare, l’art. 2230 c.c. stabilisce che il contratto di opera intellettuale è disciplinato dalle norme successive, ma anche da quelle del Capo I dedicato al lavoro autonomo, purché compatibili con la natura del rapporto concretamente instaurato.
Molto spesso è richiesta l’iscrizione ad appositi albi o elenchi, come precisa il comma 1 dell’art. 2229 c.c., secondo il quale “la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi” .
Da ciò se ne ricava che per essere definiti professionisti non è necessaria l’iscrizione agli albi e/o elenchi professionali: sicuramente le attività che richiedono l’iscrizione ad appositi albi rientrano nella più ampia definizione di professioni, ma vi possono essere professioni intellettuali che non richiedono tale iscrizione.
In ogni caso, il legislatore non ha vietato che il professionista intellettuale possa svolgere attività di lavoro dipendente; è dunque possibile che i professionisti intellettuali siano lavoratori subordinati.

 

Normativa di riferimento

  • Capo II, Titolo III, Libro V, c.c. (artt. 2229 ss.)
  • Artt. 2222 ss. c.c.
  • D.L. 4 luglio 2006, n. 233 (c.d. “decreto Bersani”) e convertito in legge L .4 agosto 2006, n. 248
  • Leggi speciali per ciascun tipo di professione (per la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense: L. 31 dicembre 2012, n. 247 e per la disciplina dei compensi: D.M. 10 marzo 2014, n. 55)
  • D.L. 2012, n.1, conv. l. 24 marzo 2012, n. 27
  • Legge 22 maggio 2017, n. 81
  • Legge 19 0770bbre 2017, n. 155
  • D.M. 8 marzo 2018, n. 37

 

 

A chi rivolgersi

  • Studio legale specializzato in Diritto del lavoro e della previdenza sociale

 

 

Le caratteristiche del libero professionista

Non esiste una espressa definizione di professionista intellettuale, ma dalle disposizioni espressamente dedicate alle professioni intellettuali si possono ricavare alcune caratteristiche di tale attività.
In estrema sintesi, i tratti distintivi delle professioni intellettuali sono:

  • la personalità dell’attività;
  • la professionalità della prestazione;
  • l’autonomia del professionista;
  • la funzione sociale svolta;
  • l’autonomia degli organi professionali.

Come già detto, il Capo II dedicato alle professioni intellettuali è collocato all’interno del Titolo III che disciplina il lavoro autonomo. Tale Titolo si articola in due soli Capi: il primo rubricato ”Disposizioni generali” e il secondo rubricato ”Delle professioni intellettuali” . Il fatto che il legislatore abbia però precisato che le disposizioni generali inerenti al lavoro autonomo possano essere applicate alle professioni intellettuali solo ”in quanto compatibili” evidenzia come la professione intellettuale possa essere svolta con modalità che di fatto si discostano da quelle tipiche delle prestazioni di lavoro autonomo.
Il contratto d’opera professionale, dunque, può integrare una specifica forma di contratto d’opera caratterizzato dal compimento di un’opera intellettuale, ma non si può escludere che l’opera intellettuale costituisca l’oggetto di un contratto di lavoro subordinato anziché di un contratto d’opera. Infatti, esistono anche professionisti che svolgono la propria attività in regime di subordinazione (si pensi ai medici e ai giornalisti).

In particolare, ai fini dell’individuazione di un rapporto di lavoro subordinato, va tenuto presente che nelle professioni intellettuali il vincolo di subordinazione deve intendersi in senso relativo e non rigido ed assoluto, poiché queste professioni richiedono una certa discrezionalità nelle modalità di svolgimento del lavoro, essendo caratterizzate da una certa libertà decisionale che permette al professionista di poter autonomamente e responsabilmente scegliere tra diverse soluzioni tecniche.
La giurisprudenza ha altresì chiarito come vi sia un rapporto di lavoro subordinato qualora il professionista sia inserito nella gerarchia tecnico-organizzativa dell’impresa e il datore di lavoro eserciti un potere direttivo tale da permettergli di disporre della prestazione del professionista. In questa prospettiva, possono rilevare i cosiddetti elementi sussidiari, solitamente utilizzati al fine di qualificare un rapporto di lavoro come subordinato nei casi in cui il potere direttivo del datore non emerge indiscutibilmente dall’analisi delle circostanze di fatto. Più precisamente, in caso di prestazioni di questo tipo (che proprio a causa della loro natura intellettuale mal si adattano ad essere eseguite sotto la continuativa direzione del datore di lavoro), si ritiene che il primario parametro distintivo della subordinazione (inteso come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro) deve essere accertato o escluso proprio mediante il ricorso agli elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto. Non mancano peraltro pronunce che concludono per l’irrilevanza dell’eventuale sussistenza dei connotati normalmente propri del lavoro subordinato ma compatibili con forme di lavoro autonomo (si pensi alla collaborazione, all’osservanza di un determinato orario, alla continuità dell’attività e al la forma della retribuzione).

Caratteristica imprescindibile è invece il carattere intellettuale della prestazione che, da sempre, si contrappone a quello manuale: l’attività del professionista intellettuale è di conoscenza e applicazione, mentre non richiede l’utilizzo della forza fisica e/o della manualità, ma competenze specifiche in un determinato settore.
Inoltre, il professionista svolge la propria attività indipendentemente dal raggiungimento di un risultato: siamo nel campo delle obbligazioni di mezzi e non di risultato. Ciò significa che è dovuta esclusivamente un’attività lavorativa, conforme agli standard di diligenza, ma senza che si debba necessariamente ottenere un determinato risultato che può essere influenzato anche da fattori esterni (l’esempio tipico è quello dell’avvocato: il cliente si rivolge all’avvocato perché questi garantisca l’assistenza legale strumentale per far raggiungere un risultato, quale può essere vincere la causa, ma non può essere ritenuto responsabile di un eventuale esito negativo anche perché il risultato dipende dall’intervento di un soggetto terzo che è il Giudice e da tutta un’altra serie di fattori che non necessariamente dipendono dal professionista).

Di regola il professionista deve svolgere la propria attività secondo la diligenza professionale di cui all’art. 1176, comma 2, c.c.. Tale disposizione prevede che la diligenza debba “valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata” : viene in rilievo, quindi, la cd. diligenza professionale media”, ossia quella utilizzata da un professionista dotato di un’apposita preparazione professionale che presta un’attenzione media nell’esercizio della propria attività.
L’art. 2236 c.c. dispone però che se la prestazione che deve essere resa dal professionista implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, questi non risponderà di eventuali danni se non per dolo (volontarietà di arrecare un danno) e colpa grave (grossolana mancanza di diligenza e attenzione nei comportamenti). Ciò configura una deroga all’art. 1218 c.c., che prevede che il debitore che non esegua correttamente la propria prestazione è comunque tenuto a risarcire il danno a meno che non dimostri che l’inadempimento o il ritardo non sia a lui imputabile. La responsabilità del professionista è quindi attenuata nell’ipotesi in cui la prestazione richieda la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.

L’art. 2232 c.c. dispone che “il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto” . Emerge dunque il carattere personale dell’incarico: considerata appunto l’importanza dell’aspetto intellettuale-conoscitivo della professione, il cliente decide di rivolgersi – secondo valutazione personali – a uno specifico professionista, non a un professionista qualunque.
La norma prosegue riconoscendo però la possibilità per il professionista di avvalersi di sostituti (chi svolge l’attività “al posto del professionista”) e di ausiliari (coloro che coadiuvano e si affiancano al professionista). I praticanti avvocati, ad esempio, collaborano con l’avvocato titolare dell’incarico nella redazione di un atto o, più in generale, nell’attività di rappresentanza e assistenza che caratterizza l’attività forense.
Nel caso in cui il professionista si avvalga della collaborazione di sostituti ed ausiliari, il rapporto però continua a intercorrere esclusivamente tra il cliente e il professionista, che rimane l’unico responsabile: gli eventuali contatti tra il cliente e i collaboratori, in assenza di uno specifico mandato in loro favore, non fanno sorgere un nuovo e ulteriore rapporto professionale, ma restano assorbiti nel rapporto tra cliente e professionista incaricato.

Storicamente, dalla necessaria personalità della prestazione veniva peraltro dedotta l’impossibilità di esercitare le professioni intellettuali in forma societaria. Infatti, era espressamente vietato costituire, esercitare o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di “studio”, società, istituti, uffici, agenzie o enti, che avessero lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati o ai terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria.
Tuttavia, tale prescrizione col tempo si rivelò anacronistica, tanto che già a partire dalla fine degli anni 90 venne consentito l’esercizio delle professioni intellettuali in forma societaria (la regolamentazione di tali società era stata però demandata a un apposito decreto che non venne mai emanato).
Successivamente, al fine di attuare la direttiva 98/5/CE, intervenne la legge n. 526/1999 che stabilì taluni principi generali circa i requisiti che avrebbero dovuto possedere le società tra avvocati. Tali requisiti trovarono poi compiuta attuazione nel D.Lgs. n. 96/2001.
La legge n. 183/2011 autorizzò invece la costituzione di società professionali, anche multidisciplinari, salvi i diversi modelli societari e associativi già vigenti.
In questo contesto, si inserì la l. n. 247/2012 che delegò il governo ad emanare un decreto al fine di disciplinare la società tra avvocati. Benché tale decreto non sia mai stato emanato, la legge n. 124/2017 ha inserito nel corpo del provvedimento l’art. 4-bis, disciplinante appunto l’esercizio della professione forense in forma societaria.

A ciò si aggiunga che la legge n. 81/2017 ha stabilito che, al fine di consentire la partecipazione ai bandi e concorrere all’assegnazione di incarichi e appalti privati, viene riconosciuta anche ai soggetti che svolgono attività professionale, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, la possibilità:

  • di costituire reti di esercenti la professione e consentire agli stessi di partecipare alle reti di imprese, in forma di reti miste con accesso alle relative provvidenze in materia;
  • di costituire consorzi stabili professionali;
  • di costituire associazioni temporanee professionali.

L’inciso “a prescindere dalla forma giuridica rivestita” dunque conferma la possibilità che l’attività professionale venga svolta anche in forma societaria.

Ad oggi, dunque, anche alla luce del fatto che l’esercizio della professione richiede l’investimento di maggiori risorse rispetto al passato, può dirsi certamente superato quell’orientamento che identificava il requisito della personalità della prestazione con il divieto di ricorrere a strumenti societari o associativi per l’espletamento dell’attività professionale; tuttavia, anche in seguito all’evoluzione normativa descritta, il legislatore ha sempre fatto salvo il fatto che la prestazione debba essere personale e di carattere fiduciario.

 

Esclusione dalla natura imprenditoriale

Esercizio di una professione intellettuale non implica lo svolgimento di un’attività imprenditoriale: le professioni intellettuali rappresentano attività produttive per le quali è escluso in via di principio dal legislatore il carattere imprenditoriale.
Ciò si ricava dal testo dell’art. 2238, comma 1, c.c. il quale stabilisce che le disposizioni del Titolo II in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se “l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa” (l’esempio tipico è quello del medico che gestisce una clinica privata nella quale opera). In tali ipotesi si è in presenza di due distinte attività: quella intellettuale e quella d’impresa; quindi, nei confronti del medesimo soggetto, troveranno applicazione sia le norme in tema di impresa (ad esempio quelle inerenti l’obbligo di garantire la regolare tenuta delle scritture contabili), sia quelle in tema di professioni intellettuali (ad esempio quelle inerenti la necessità di iscrizione all’albo).
Se quindi il professionista si limita a svolgere la propria attività non diventa imprenditore, neppure qualora si avvalga di collaboratori, anche se numerosi. Infatti il comma 2 dell’art. 2230 c.c. dispone che al professionista intellettuale che impieghi sostituti o ausiliari si applicano le disposizioni delle Sezioni II, III, IV del Capo I del Titolo II del Libro V c.c. e cioè solo le norme che disciplinano il lavoro nell’impresa e non anche la restante disciplina dell’impresa.
Tuttavia, tale impostazione si discosta dall’elaborazione giurisprudenziale comunitaria. Infatti, già a partire dagli anni 90, nelle pronunce della Corte di Giustizia e nelle decisioni della Commissione Europea vi è stata, di fatto, una parificazione tra la posizione dei professionisti e quella degli imprenditori, culminata ad oggi con l’applicazione della tutela anticoncorrenziale anche ai primi. Nell’ambito del diritto comunitario della concorrenza, infatti, è stata elaborata una nozione funzionale di impresa, secondo la quale costituisce un’impresa qualsiasi entità che svolga un’attività economica, indipendentemente dal suo status giuridico e dal suo modo di finanziamento. Per “attività economica” si è inteso qualsiasi attività consistente nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato dietro corrispettivo al fine di ottenere un profitto; pertanto, ben possono essere considerate imprese anche i professionisti intellettuali e le loro associazioni che, dunque, devono sottostare anche essi alla normativa antitrust.

 

L’iscrizione agli albi e il ruolo delle Associazioni professionali

Molto spesso per poter svolgere un’attività professionale è necessaria l’iscrizione ad appositi albi: è il caso delle c.d. professioni protette (avvocati, notai, medici, consulenti del lavoro, geometri, periti agrari, giornalisti, etc.); la “protezione” consiste, soprattutto, nell’interdizione ad esercitare la professione per chiunque non sia iscritto all’albo o ne sia stato espulso, e si manifesta altresì nelle soggezione degli iscritti al potere disciplinare esercitato dagli Ordini professionali.
In Italia esistono numerosissimi albi, molti più rispetto al resto dell’Unione Europea.
L’albo è un registro pubblico all’interno del quale sono raccolti i nomi e i dati di tutte le persone abilitate ad esercitare una professione regolamentata dalla legge. L’iscrizione all’albo è generalmente subordinata all’ottenimento di uno specifico titolo di studio, allo svolgimento di un eventuale periodo di praticantato e al superamento di un esame di stato (come nel caso degli avvocati), ma per alcune professioni è sufficiente il superamento di un esame o il possesso di un titolo di studio.

Ai sensi dell’art. 2229, comma 1, c.c., “la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi” .
Esiste dunque una legge per ogni professione che stabilisce il modo in cui è possibile accedere alla professione e i requisiti per poter procedere con l’iscrizione all’albo.
“L’accertamento dei requisiti per l’iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente” (art. 2229, comma 2, c.c.).

La competenza degli Ordini o dei Collegi professionali si dipana in due direzioni: il potere disciplinare sugli iscritti ed il potere di ammissione ed esclusione degli stessi.
La distinzione tra Ordini e Collegi risale al R.D. 24 gennaio 1924, n. 103: gli Ordini sono previsti per le professioni per il cui esercizio è necessario un percorso universitario, mentre i Collegi riguardano le professioni per il cui esercizio è sufficiente un percorso di studio medio-superiore. Tale distinzione non è sempre stata rispettata nel nostro ordinamento, tantè che, per fare un esempio, i notai – per i quali è ovviamente necessaria la laurea in giurisprudenza nonché un percorso formativo successivo – sono organizzati in Collegi Notarili e non in Ordini.
Ai sensi del comma 3 dell’art. 2229 c.c., contro il rifiuto di iscrizione agli albi e/o contro la cancellazione dai medesimi, nonché contro i provvedimenti disciplinari che comportano la perdita o la sospensione del diritto all’esercizio della professione, è ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle specifiche leggi.

L’esercizio abusivo della professione può integrare gli estremi del reato di cui all’art. 348 c.p., mentre, dal punto di vista civilistico, lo svolgimento di un’attività professionale da parte di chi non è iscritto all’albo -nelle ipotesi in cui l’iscrizione all’albo sia richiesta dalla legge- comporta l’esclusione dal diritto alla retribuzione. Infatti, ai sensi dell’art. 2231, comma 1, c.c., “quando l’esercizio di un’attività professionale è condizionato all’iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione” .
Oltre a ciò, qualora un soggetto eserciti prestazioni professionali senza essere iscritto all’apposito albo come richiesto dalla legge, il contratto stipulato con il cliente è radicalmente nullo.
Coerentemente, il comma 2 dell’art. 2231 c.c. dispone che la cancellazione volontaria o coattiva (per sopravvenuto difetto di uno dei requisiti per l’iscrizione oppure quale sanzione disciplinare) del professionista dal relativo albo determina la risoluzione automatica del rapporto.

 

Il fallimento del professionista

L’art. 1 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 indica i soggetti che possono essere dichiarati falliti e cioè gli imprenditori che esercitano una attività commerciale (a meno che non dimostrino il possesso congiunto di tre requisiti previsti dal medesimo articolo), esclusi gli enti pubblici.
Tuttavia la legge 19 0tt0bre 2017, n. 155 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti volti a modificare la disciplina del fallimento e una delle novità maggiormente rilevanti previste è proprio l’estensione del campo dei debitori soggetti al fallimento. L’art. 2 della legge infatti, alla lettera e), dispone che tra gli scopi della riforma vi è quello di “assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore, sia esso persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici, disciplinando distintamente i diversi esiti possibili, con riguardo all’apertura di procedure di regolazione concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria, tenendo conto delle relative peculiarità soggettive e oggettive” .
Ciò significa che potranno essere soggetti alle procedure concorsuali non più solo gli imprenditori commerciali, ma anche i professionisti.

 

Compensi e anticipazioni per il professionista

Il contratto d’opera professionale è di regola a titolo oneroso.
Riguardo al compenso, il legislatore, nell’art. 2233 c.c., ha stabilito una gerarchia per i criteri di liquidazione.
Secondo la lettera della legge, ai fini della determinazione dell’ammontare del compenso del professionista, si deve aver riguardo anzitutto alle decisioni delle parti, in subordine alle tariffe, agli usi e, infine, alle decisioni giudiziali.

Per quanto concerne le eventuali determinazioni pattizie, soltanto in relazione alla professione forense, il legislatore aveva originariamente vietato agli avvocati di stipulare con i loro clienti patti relativi ai beni che formavano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio (c.d. divieto del patto di quota-lite). Con il “decreto Bersani” invece, tale divieto era stato abrogato ed era stato sancito il mero obbligo di forma scritta, a pena di nullità, per i patti conclusi dagli avvocati con i clienti aventi ad oggetto i loro compensi professionali.
Il Consiglio Nazionale Forense aveva poi precisato, con la Circolare 4 settembre 2006, n. 22, che il patto di quota lite poteva avere effetto solo tra le parti (professionista e cliente) e non poteva essere opposto a terzi.
Tuttavia, l’abrogazione del divieto aveva suscitato numerose polemiche, pertanto, il legislatore è tornato nuovamente sul punto, prevedendo all’art. 13, co. 4, della l. n. 247/2012, l’illegittimità di quei patti in forza dei quali l’avvocato percepisce come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene o della ragione litigiosa. Resta comunque legittimo pattuire il compenso a percentuale sul valore dell’affare.

Tornando alla gerarchia, in assenza di una determinazione consensuale delle parti circa la determinazione del compenso del professionista, la seconda fonte cui è possibile far ricorso è costituita dalle tariffe (oltre agli usi che sono però poco utilizzati). L’art. 9 del d. l. n. 1/2012, conv. l. n. 27/2012, ha però abrogato le tariffe professionali e ha stabilito che, in mancanza di pattuizione, si debba fare riferimento a una serie di parametri stabiliti dal Ministero della Giustizia, sulla base dei quali vengono compilate delle apposite tabelle specifiche per ogni professione. Per tutte le professioni, il sistema dei parametri è stato approvato con il d.m. 20 luglio 2012, n. 140, che ha individuato quali criteri generali di riferimento:

  • il valore e natura della pratica;
  • l’importanza, difficoltà, complessità della pratica;
  • le condizioni d’urgenza per l’espletamento dell’incarico;
  • i risultati e vantaggi, anche non economici, ottenuti dal cliente;
  • l’impegno profuso anche in termini di tempo impiegato;
  • il pregio dell’opera prestata.

A dispetto della formulazione dell’art. 2233 c.c. (che rimanda al parere delle associazioni professionali di appartenenza), anche quando la determinazione del compenso viene rimessa al potere discrezionale del Giudice, devono essere presi in considerazioni tali parametri e le relative tabelle (si pensi al caso di liquidazione delle spese a carico della parte soccombente in giudizio).
L’art. 2234 c.c. si occupa invece delle anticipazioni, stabilendo che “il cliente, salvo diversa pattuizione, deve anticipare al prestatore d’opera le spese occorrenti al compimento dell’opera e corrispondere, secondo gli usi, gli acconti sul compenso” .

Nel caso di recesso, l’art. 2237 c.c. dispone che:

  • se a recedere è il cliente, questi deve pagare al professionista il compenso per l’attività svolta sino al momento del recesso e rimborsargli le spese sostenute fino a quel momento;
  • se a recedere è il professionista, questi può recedere per giusta causa e il recesso deve essere esercitato in modo da non recare pregiudizio al cliente; inoltre, ha diritto a ottenere il rimborso delle spese sostenute e il compenso per l’attività svolta fino al momento del recesso, tenendo in considerazione il risultato ottenuto dal cliente.

 

 

Regime previdenziale e assistenziale dei professionisti

Nel caso in cui la prestazione professionale non venga svolta nella forma del lavoro subordinato, per le professioni per le quali è necessaria l’iscrizione ad appositi Albi o elenchi professionali, i professionisti sono obbligati all’iscrizione alla propria cassa previdenziale di appartenenza e ogni cassa di previdenza ha regole proprie (si pensi agli avvocati, ai consulenti del lavoro, ai dottori commercialisti o ai geometri).

Nel caso in cui i professionisti abbiano versato contributi in fondi previdenziali differenti, è possibile fruire del regime della totalizzazione.
In caso di maternità, le professioniste iscritte alle casse di previdenza (o i padri professionisti qualora non vi sia la madre) hanno diritto ad usufruire di un’indennità di maternità per i due mesi precedenti al parto e i tre mesi successivi (nel caso di adozione i termini decorrono invece dalla data dell’ingresso del minore nella casa familiare).
Durante tali periodi, la professionista avrà diritto ad astenersi dallo svolgere la propria attività; tuttavia, a differenza di quanto avviene per le lavoratrici subordinate, potrà anche liberamente scegliere di continuare a svolgere la professione senza perdere il diritto all’indennità.
La misura dell’indennità è pari all80% dei 5/12 del reddito professionale dichiarato ai fini fiscali nel secondo anno precedente alla nascita.
In ogni caso, l’indennità non potrà mai essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura dell80% del salario minimo giornaliero previsto dalla legge per la qualifica di impiegato, e superiore ad una somma pari a cinque volte l’importo minimo (massimo comunque elevabile a discrezione della singola Cassa).

Al contrario, per i professionisti che operano in settori di attività che non prevedono la presenza di Albi professionali, vi è l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata dell’INPS (purché l’attività professionale non venga svolta nella forma del lavoro subordinato).
L’iscrizione alla Gestione separata deve essere effettuata anche nei casi in cui i rispettivi statuti non richiedono l’iscrizione alla Cassa di appartenenza: si pensi al caso in cui il professionista goda di un’altra e contestuale copertura contributiva, oppure al caso dei praticanti avvocati (comunque iscritti in un apposito albo).
La Gestione separata eroga le medesime prestazioni erogabili ai collaboratori continuati e continuativi, ossia indennità di malattia, assegno per il nucleo familiare, indennità di maternità e indennità per congedo parentale.

La legge n. 81/2017 ha parificato la condizione delle lavoratrici iscritte alla Gestione separata con quella delle professioniste, prevedendo che l’indennità di maternità venga riconosciuta indipendentemente dall’effettiva astensione dall’attività lavorativa.
Pare opportuno ricordare come la medesima legge abbia anche dettato le linee guida per la futura riforma delle prestazioni erogabili dalla Gestione separata. In particolare, i decreti delegati, che dovranno essere adottati dal Governo entro luglio 2018, dovranno prevedere:

  • la riduzione dei requisiti di accesso alle prestazioni di maternità, incrementando il numero di mesi precedenti al periodo indennizzabile entro cui individuare le tre mensilità di contribuzione dovuta, nonché l’introduzione di minimali e massimali per le medesime prestazioni;
  • la modifica dei requisiti per l’erogazione dell’indennità di malattia.

La legge n. 81/2017 ha anche delegato il governo ad adottare uno o più decreti al fine di consentire agli enti di previdenza di diritto privato di attivare prestazioni complementari di tipo previdenziale e socio-sanitario (nonché altre prestazioni sociali finanziate da apposita contribuzione) a favore dei professionisti iscritti ad ordini e collegi che abbiano subito una significativa riduzione del reddito professionale per ragioni non dipendenti dalla propria volontà o che siano stati colpiti da gravi patologie.

Per quanto riguarda le politiche attive volte a favorire il reinserimento dei professionisti nel mercato del lavoro, il legislatore del 2017, ha previsto delle misure volte a incentivare l’accesso alle informazioni sul mercato e la riqualificazione o formazione di questi soggetti. Infatti, nel prevedere che i Centri per l’impiego debbano dotarsi di uno sportello appositamente dedicato al lavoro autonomo, è stato altresì previsto che in tale operazione vengano coinvolti anche gli ordini e i collegi professionali, tramite la stipula di apposite convenzioni in cui si terrà conto delle peculiari esigenze dei professionisti.

 

La disciplina per la professione forense e la disciplina per i compensi

La nuova disciplina della professione forense è contenuta nella L. 31 dicembre 2012, n. 247.
Per poter svolgere la professione forense è necessario prima di tutto il conseguimento della laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza (5 anni).
Dopo di che è necessaria l’iscrizione al registro dei praticanti e un periodo di 18 mesi di tirocinio presso uno studio legale, a conclusione dei quali viene rilasciato dall’Ordine di appartenenza un certificato di compiuta pratica. Durante i 18 mesi di tirocinio il praticante avvocato è tenuto a rispettare una serie di disposizioni, previste nel regolamento della pratica forense di ciascun ordine, relative alla partecipazione alle udienze, alla redazione di atti e alla trattazione di questioni giuridiche.
Infine è necessario il superamento di un esame di Stato, la cui disciplina è cambiata a partire dall’esame del 2018 (la norma è entrata in vigore nel 2012, ma con decorrenza dal 2014, negli anni però sono intervenute proroghe per l’entrata in vigore).
Una volta superato l’esame viene rilasciato dalla Commissione esaminatrice il certificato necessario per iscriversi all’albo e l’avvocato è tenuto a compiere il giuramento dinanzi all’Ordine di appartenenza.

Per quanto riguarda i requisiti per potersi iscrivere all’albo, sono elencati all’art. 17 e sono: “a) la cittadinanza italiano o di Stato appartenente all’Unione europea, salvo quanto previsto dal comma 2 per gli stranieri cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea;
b) il superamento dell’esame di abilitazione;
c) il domicilio professionale nel circondario del tribunale ove ha sede il consiglio dell’ordine;
d) il pieno godimento dei diritti civili;
e) assenza di una delle condizioni di incompatibilità;
f) non essere sottoposto ad esecuzione di pene detentive, di misure cautelari o interdittive;
g) non avere riportato condanne per i reati previsti dalla legge professionale.
h) condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense”
.

L’accertamento di tali requisiti è verificato dall’Ordine di appartenenza.

Al comma 9 dell’art. 17 sono state previste anche una serie di ipotesi che comportano la cancellazione dall’albo successivamente all’iscrizione: pare opportuno ricordare che tra di esse vi è la mancanza dell’esercizio, effettivo, continuativo, abituale a prevalente della professione.
Anche in questi casi, tuttavia, la cancellazione dall’albo non è automatica poiché il legislatore ha previsto un apposito procedimento preventivo volto a garantire al professionista il diritto di difesa. Infatti, il consiglio, prima di deliberare la cancellazione, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, invita l’iscritto a presentare eventuali osservazioni entro un termine non inferiore a trenta giorni dal ricevimento di tale raccomandata.
Successivamente alla comunicazione della delibera di cancellazione, invece, l’interessato può presentare ricorso al CNF nel termine di sessanta giorni dalla notificazione, ottenendo così anche la sospensione della cancellazione.
In ogni caso, l’avvocato cancellato dall’albo ha il diritto di esservi nuovamente iscritto nel caso in cui riesca a dimostrare la cessazione dei fatti che hanno determinato la cancellazione, l’effettiva sussistenza dei titoli in base ai quali fu originariamente iscritto e il possesso dei requisiti richiesti dalla legge.

Differenti sono invece le cause di incompatibilità con l’esercizio della professione forense previste al fine di garantire la professionalità della categoria. In particolare, l’art. 18 ha indentificato le ipotesi di incompatibilità nell’esercizio di altre attività di lavoro autonomo o subordinato, nell’esercizio di un’attività commerciale, nonché nell’assunzione di determinate cariche societarie connotate da rilevanti poteri gestionali.

Per quanto riguarda invece la determinazione dei parametri per i compensi professionali, la legge n. 247/2012 ha stabilito che i compensi, in mancanza di uno specifico accordo tra le parti, devono essere determinati sulla base di criteri stabiliti con decreto ministeriale su proposta del CNF. Ad oggi, è in vigore il D.M. 10 marzo 2014, n. 55 che tiene conto dei criteri generali approvati nel d.m n. 140/2012 di cui si è detto nel paragrafo precedente.
Il regolamento disciplina gli specifici parametri dei compensi all’avvocato nei casi in cui, al momento dell’incarico o successivamente, il compenso non viene determinato in forma scritta, nonché in ogni caso di mancata determinazione consensuale.
Il d.m. 8 marzo 2018, n. 37, ha introdotto alcune rilevanti innovazioni relative ai parametri per i compensi giudiziali, all’attività penale, all’attività arbitrale, al caso di assistenza di più soggetti aventi la stessa posizione processuale o procedimentale, ai giudizi dinanzi al Tar e al Consiglio di Stato, ai procedimenti di mediazione e negoziazione assistita, all’attività stragiudiziale e al c.d. avvocato telematico.
L’art. 2, al comma 2, dispone che oltre al compenso e al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all’avvocato è dovuta — in ogni caso ed anche in caso di determinazione contrattuale — una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, fermo restando quanto previsto dai successivi articoli 5, 11 e 27 in materia di rimborso spese per trasferta.
Si precisa che il DM n. 55/2014, facendo uso della locuzione “di regola”, non ha carattere vincolante, come ribadito più volte anche nella Relazione illustrativa ministeriale.

Dal punto di vista previdenziale, l’art. 21, comma 8, L. 247/2012, ha previsto l’obbligo di iscrizione contestuale all’Albo e alla Cassa forense.

 

Casistica di decisioni della Magistratura

  1. In materia di contratto d’opera intellettuale, nel caso in cui risulti provato l’inadempimento del professionista per negligente svolgimento della prestazione, il danno derivante da eventuali sue omissioni deve ritenersi sussistente, qualora, sulla scorta di criteri probabilistici, si accerti che senza quell’omissione il risultato sarebbe stato conseguito (massima ord. Cass., 26 settembre 2017, n. 22343, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)
  2. Ben può il giudice, anche al cospetto di una prestazione d’opera intellettuale “non protetta”, per la cui esplicazione cioè non è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi, utilizzare in chiave parametrica le indicazioni di cui alla tariffa vigente per l’attività professionale “protetta” cui, mutatis mutandis, la prestazione “non protetta” può essere assimilata. E tanto, propriamente, non già nel solco dell’art. 2233 c.c., sibbene nel segno dell’art. 2225 c.c., disposizione quest’ultima dettata in linea generale per il contratto d’opera (ord. Cass., 29 luglio 2016, n. 15805, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)
  3. A fronte di un contratto d’opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela (Trib. Firenze, 5 luglio 2016, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)
  4. Presupposto essenziale ed imprescindibile dell’esistenza di un rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del suo diritto al compenso, è l’avvenuto conferimento del relativo incarico, in qualsiasi forma idonea a manifestare, chiaramente ed inequivocabilmente, la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera, da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. La prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un simile rapporto, grava sull’attore e compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimità. Corollario del suddetto principio è che il cliente del professionista non è necessariamente il soggetto nel cui interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito l’incarico al professionista ed è, conseguentemente, tenuto al pagamento del corrispettivo (Cass., 24 febbraio 2016, n. 3652, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)
  5. In tema di contratto d’opera intellettuale, il giudice, in base alle risultanze ritualmente acquisite, ben può accertare l’esistenza o l’inesistenza in concreto ex officio dell’eccezione relativa alla “speciale difficoltà” della prestazione che, ai sensi dell’art. 2236 c.c., limita la responsabilità risarcitoria del professionista (massima Cass., 22 dicembre 2015, n. 25746, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)
  6. La prestazione d’opera può essere gratuita, in tutto o in parte, per ragioni varie, di amicizia, parentela o convenienza, e sotto questo riflesso la retribuzione costituisce un diritto patrimoniale disponibile, come tale suscettibile di rinuncia, anche preventiva (ord. Cass., 6 febbraio 2014, n. 2769, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)
  7. L’eventuale inadempimento del professionista non può essere desunto senz’altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere meramente valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale, secondo il parametro indicato dall’art 1176 c.c. (a meno che la prestazione professionale da eseguirsi in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà: nel qual caso la responsabilità del professionista è ritenuta, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 cod, civ., solo nel caso di dolo o colpa grave). A differenza delle cosiddette obbligazioni di risultato, che richiedono ai fini dell’adempimento, il perseguimento effettivo della finalità che costituisce elemento costitutivo del sinallagma, in tali obbligazioni, invece, il mancato raggiungimento del risultato non determinerebbe per ciò solo un inadempimento. L’inadempimento (o l’inesatto adempimento) sarebbe correlato al fatto che l’autore della prestazione abbia tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiestagli mentre il mancato raggiungimento del risultato potrebbe costituire danno conseguenziale alla non diligente prestazione o alla colpevole omissione dell’attività (Trib. Firenze, 5 agosto 2013, in Pluris, Banca Dati Giuridica Cedam-Utet)