Mobbing

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Questa voce è stata curata da Annalisa Rosiello

 

Definizione

Dal punto di vista medico-scientifico, così come sul piano più strettamente giuridico, il fenomeno del mobbing è stato oggetto di numerosi studi ed approfondimenti.

Sul tema, di grande interesse ed attualità stante la sempre maggiore diffusione delle patologie lavoro-correlate, sono state presentate svariate proposte legislative ad oggi non concretizzatesi in alcun testo di legge.
Tale perdurante lacuna sul piano normativo contribuisce a creare fraintendimenti nell’attività di individuazione e di qualificazione della fattispecie.
Frequentemente infatti il fenomeno viene confuso con le più “tradizionali” (ma non per questo meno dannose) azioni di dequalificazione o marginalizzazione professionale.
In realtà, perché si possa parlare di mobbing, è necessario che ricorrano condizioni e presupposti particolari, in cui la dequalificazione o la marginalizzazione lavorativa possono essere importanti elementi indicatori di una fattispecie che tuttavia è più articolata e che, come vedremo, è connotata dalla sistematicità e dalla regolarità di attacchi attivi alla persona.
Il mobbing (da “to mob” – assalire tumultuosamente) viene definito dallo psicologo svedese Heinz Leymann – uno dei massimi esperti in materia – come “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili.
Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi).
A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali”.

Le forme che questa azione può assumere vanno dalla dequalificazione dei compiti assegnati alla persona oggetto della persecuzione alla sua emarginazione nell’ambito lavorativo, dalla diffusione di notizie false ed offensive alle quotidiane critiche sul suo operato, per arrivare all’attacco all’immagine sociale nei confronti di colleghi e superiori.
Lo scopo principale del mobbing è, normalmente, quello di spingere una persona ritenuta “scomoda” a dare le dimissioni dall’azienda o a commettere azioni che ne giustifichino il licenziamento (c.d. mobbing strategico).

Alla luce delle recenti riforme, prevalentemente in tema di disciplina dei licenziamenti, di mansioni e di controlli potrebbe verificarsi che il datore di lavoro utilizzi impropriamente le nuove norme per compiere “mobbing generazionale” (qui il termine mobbing è utilizzato in senso lato) ovvero per colpire personale più garantito (che magari fruisce dei permessi ex lege 104, oppure dei permessi legati a genitorialità, o sindacali o politici) per far luogo, una volta portata a termine “l’impresa”, a personale meno garantito (ovvero assunto dopo il 7 marzo 2015). Si pensi ad esempio al caso in cui l’azienda assegni al dipendente mansioni equivalenti sul piano formale, ma nell’ambito di un reparto isolato e sgradito. Benché alla luce delle nuove norme l’assegnazione potrebbe risultare valida, il lavoratore potrebbe segnalare – se presenti – eventuali intenzioni ritorsive, vessatorie o altrimenti punitive che – alla luce dell’art. 15 dello statuto dei lavoratori – renderebbero anche oggi e comunque nullo lo spostamento.

Non sempre risulta altrettanto scontato chi siano i fautori dell’azione di mobbing: infatti, se in buona parte dei casi l’artefice della persecuzione è il datore di lavoro, spesso nelle azioni di mobbing sono coinvolti gli stessi colleghi che, per compiacere il “capo”, si uniscono alla strategia di isolamento e di vessazioni.

Le ricerche condotte ed i casi conclamati sul piano medico-legale e giudiziario hanno dimostrato che il mobbing può portare all’invalidità psico-fisica; in questo senso è corretto inquadrare le patologie da mobbing tra le malattie professionali e, non a caso, l’INAIL riconosce queste patologie (qualora ne risulti dimostrata l’origine professionale) tra quelle che danno diritto al riconoscimento del danno biologico (danno all’integrità psico-fisica della persona).

Nel contesto italiano non esiste, come si accennava, una organica definizione normativa di mobbing.
La nozione di molestie sul lavoro è stata per la prima volta inserita nei decreti legislativi sulle discriminazioni (D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003, D.Lgs. 198/2006), i quali assimilano alle discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni di razza, etnia, handicap, sesso, ecc, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo.
In base a quei decreti è altresì considerata discriminazione l’ordine di discriminare persone in ragione della razza, dell’origine etnica, dell’handicap, del sesso, ecc..

Si tratta di una prima definizione di molestie (o mobbing) sul lavoro, ma essa non può considerarsi esaustiva, dal momento che non sempre il mobbing è inquadrabile nelle condotte discriminatorie contemplate dalle disposizioni richiamate.

Nell’ambito degli studi della psicologia del lavoro presenti nel panorama italiano, la definizione più completa è indubbiamente quella proposta da Harald Ege (psicologo del lavoro esperto di mobbing) che definisce il mobbing “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità.
Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione” (Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffré, 2002, pag. 39).
Tale definizione, accompagnata dai parametri per l’individuazione del mobbing individuati dallo stesso Ege, è quella recepita con maggior frequenza dai Giudici (ed anche dalle proposte legislative parlamentari).

E’ dunque opportuno dare conto dei vari parametri, in totale sette, per l’individuazione del mobbing messi a punto dopo anni di attività e ricerca sul campo dallo stesso Ege. Tali parametri, secondo l’autore, debbono essere tutti presenti affinché si possa parlare di mobbing (salvo i casi di “sasso nello stagno” o di “quick mobbing”).
Vediamo i parametri nel dettaglio.

1) Ambiente lavorativo
Il mobbing deve svolgersi sul posto di lavoro, pur essendo un disagio che potrà poi ripercuotersi nella sfera privata del mobbizzato (in questo caso viene denominato doppio mobbing).

2) Frequenza
Le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese (salvo il caso di “sasso nello stagno”).

3) Durata
Il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi, salvo i casi cosiddetti di “quick mobbing” (cioè di frequenza quotidiana quindi particolarmente devastante delle azioni ostili) la cui durata può essere abbassata a tre mesi.

4) Tipologia di azioni
Le azioni devono rientrare in almeno due parametri tra i seguenti:

  • attacchi ai contatti umani: ad es. attraverso critiche e rimproveri ingiustificati, gesti e insinuazioni con significato negativo, minacce, limitazioni delle capacità espressive e della libertà di pensiero;
  • isolamento sistematico: ad es. deliberata negazione di informazioni relative al lavoro o manipolazione delle stesse o divieto per i dipendenti di parlare con il lavoratore o, ancora, collocazione del lavoratore in luogo isolato;
  • cambiamenti delle mansioni: ad es. attribuzione di mansioni dequalificanti, senza senso, umilianti, ecc.;
  • attacchi alla reputazione: ad es. calunnie, offese, abusi, espressioni maliziose, insultanti;
  • violenza e minacce di violenza; ad es. molestie sessuali, minacce di violenza fisica, adibizione a mansioni nocive per la salute, anche in relazione ad eventuali condizioni di invalidità.


5) Dislivello tra gli antagonisti
Nel mobbing i “protagonisti” sono sostanzialmente due: la vittima (o mobbizzato) e l’aggressore (o mobber). Non si tratta però necessariamente di due persone, bensì di due ruoli in conflitto. La vittima è comunque in una posizione costante di inferiorità.

6) Andamento secondo fasi successive
Perché una situazione possa essere definita mobbing, devono essere ben identificabili al suo interno non solo il senso di progresso, ma anche delle fasi successive.
In questo senso il modello Ege prevede una fase preparatoria (condizione zero) e sei fasi successive:

  • fase 1: conflitto mirato;
  • fase 2: inizio del mobbing;
  • fase 3: primi sintomi psico-somatici;
  • fase 4: errori ed abusi dell’Amministrazione del personale;
  • fase 5: serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima;
  • fase 6: esclusione dal mondo del lavoro).

E’ a partire dalla seconda fase che la vittima si “cristallizza” e comincia a percepire disagio e tensione, mentre la vicenda incomincia ad incanalarsi in una direzione ben precisa.

7) Intento persecutorio
Perché si possa parlare di mobbing si deve riscontrare da parte dell’aggressore un chiaro scopo negativo nei confronti della vittima. Nella vicenda cioè devono essere riscontrabili scopo, obiettivo conflittuale e carica emotiva e soggettiva.

 

Si vedano anche le seguenti voci:

 

 

Fonti normative – Obblighi di prevenzione

In termini civilistici l’incidenza del mobbing sul contratto di lavoro deriva essenzialmente dalla violazione dell’art. 2087 c.c. (combinata con altre norme a seconda della fattispecie; ad es., in caso di dequalificazione, con l’art. 2103 c.c.; in caso di discriminazioni con le norme antidiscriminatorie; in caso di accanimento disciplinare con le disposizioni dello Statuto e del codice civile che regolamentano il potere disciplinare del datore di lavoro).

L’art. 2087 c.c., da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza l’obbligo contemplato dalla norma non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, implicando altresì il dovere dell’azienda di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
E da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento di tal fatta posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa.

Qualora il mobbing possa essere ricondotto ad un fattore discriminante (razza, etnia, sesso, religione, orientamento sessuale, handicap, ecc.) sono richiamabili i D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003 e D.Lgs. 198/2006, come modificato dal d.lgs 5/2010 che descrivono le molestie morali come quei comportamenti indesiderati posti in essere per i fattori discriminanti sopra esemplificati “aventi lo scopo o (anche semplicemente, ndr) l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo”.
In tali casi il lavoratore deve allegare le circostanze indicatrici della discriminazione e delle molestie morali ma è aiutato da un regime di prova agevolato, dato che i decreti sopra menzionati introducono una parziale inversione dell’onere della prova ed inoltre, pacificamente, il lavoratore non è gravato dell’onere di provare l’intentio.
Infine, se alla condotta marginalizzante o mobbizzante è seguito o conseguito uno o più episodi di molestie sessuali, potrà essere invocato il D.Lgs. 198/2006 come modificato dal d.lgs. 5/2010 (v. anche voce Mobbing di genere).

Tra le fonti normative a disciplina della materia – e specificamente in tema di prevenzione del fenomeno – merita infine specifico richiamo la Legge 3 agosto 2007, n° 123 ed il D.Lgs. 9 aprile 2008, n° 81.
Tali disposizioni hanno previsto la valorizzazione di accordi aziendali, territoriali e nazionali nonché, su base volontaria, dei codici di condotta ed etici e delle buone prassi che orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, al fine del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente (Legge 3 agosto 2007, n° 123, art. 1, lett. l).
Inoltre l’oggetto della valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi (D.Lgs. 9 aprile 2008, n° 81 art. 28).
Il mancato rispetto di tale ultima disposizione espone l’azienda a conseguenze sanzionatorie sia civili che penali.

Infine il 9 giugno 2008 è stato firmato dalle parti sociali l’Accordo interconfederale per il recepimento dell’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004.
In tale accordo, all’art. 2, si dà atto che anche le molestie e la violenza sul posto di lavoro sono potenziali fattori di stress lavoro-correlato e che verrà verificata nel programma di lavoro del dialogo sociale 2003-2005 la possibilità di negoziare uno specifico accordo su tali temi.

 

Cosa fare – Tempi

La vittima di mobbing può incorrere in serie difficoltà a livello esistenziale fino ad arrivare a disturbi di adattamento e/o patologie di tipo cronico.
Occorre dunque che la stessa affronti un percorso clinico tramite centri specializzati nelle patologie legate allo stress ed al mobbing e/o tramite figure professionali quali lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra.

E’ di estrema importanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo).

Sul piano legale è importante rivolgersi al sindacato o ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di mobbing.
E’ importante, relativamente ai tempi, affrontare il percorso clinico contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

L’azione risarcitoria si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).
Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente, sia per prevenire l’aggravarsi dei danni, sia per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.

 

Documenti necessari

Dal punto di vista documentale, è importante acquisire eventuali lettere di contestazione, mail dal contenuto offensivo, ordini di servizio non attinenti al ruolo e ogni documento che possa essere utile per ricostruire la fattispecie, tenendo conto peraltro del fatto che le prove più importanti, nei caso di mobbing, sono normalmente quelle testimoniali.

Con riguardo alla documentazione medica, molto importanti sono i certificati del medico di base (per attestare la data di inizio dei disturbi), i certificati dei clinici (psicologo, psichiatra, CTS, Clinica del lavoro, ecc.) e la perizia medico-legale sul danno biologico. La fattispecie del mobbing si realizza ogni qual volta vi siano le condotte vessatorie con le caratteristiche sopra definite, a prescindere dal verificarsi di conseguenze dannose.

La prima richiesta sanzionatoria riguarda la condanna dell’azienda a cessare la condotta molesta nei riguardi del lavoratore e ad adottare ogni misura atta ad evitare il perpetuarsi della situazione.
E’ tuttavia pressoché la norma che situazioni di mobbing ingenerino danni alla persona oltreché patrimoniali.

Con riguardo ai danni patrimoniali, possono essere esposte le spese mediche affrontate, se in relazione con la situazione di mobbing, nonché – qualora al mobbing consegua la perdita del posto di lavoro per licenziamento o per dimissioni conseguono i relativi danni in base alla legge.
Si precisa che qualora, nel caso di superamento del periodo di comporto, risulti comprovato che le assenze del lavoratore siano derivate dalla situazione di mobbing non si computano ai fini del comporto.

Passando ad esaminare le distinte poste di danno non patrimoniale, la prima voce risarcitoria che viene normalmente richiesta nei casi in esame è il danno esistenziale o danno alla vita sociale, di relazione (rappresenta il “non fare più” o il “non aver fatto” in conseguenza degli illeciti aziendali) che la giurisprudenza considera pacificamente risarcibile in casi di mobbing.
Al riguardo la pronuncia delle SU 11 novembre 2008, n° 26972 enuncia la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua componente di danno alla vita di relazione (o esistenziale) in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili di portata costituzionale, quali quelli, espressamente richiamati, di violazione dell’art. 2087 c.c..
Il dovere di protezione stabilito da tale articolo, infatti, è fondato sugli artt. 32, 1, 2, 4 e 35 della Costituzione, che tutelano la salute e la dignità personale del lavoratore. Ed è evidente che in casi di mobbing tali diritti vengono fortemente lesi.

La seconda voce (o sotto-categoria) di danno non patrimoniale di cui si chiede comunemente il ristoro è il danno morale che rappresenta la sofferenza d’animo (il sentire dolore) conseguente agli illeciti aziendali.
Fino ad un certo momento, la Suprema Corte ha affermato che il risarcimento del danno morale doveva riconoscersi in favore del soggetto danneggiato per lesione del valore della persona umana costituzionalmente garantito, a prescindere dall’accertamento di un reato in suo danno (per tutte Cass. 21 giugno 2006, n° 14302).
Un passaggio della sentenza delle SU del 2008, cit., al contrario, parrebbe ancorarlo al fatto di reato, anche se non appaiono pienamente chiare le intenzioni (“viene in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale”).

Si sottolinea peraltro che in molte ipotesi di disfunzionalità organizzativa è possibile individuare delle ipotesi delittuose ed anche la giurisprudenza penale comincia ad intervenire in maniera significativa per la repressione del mobbing (v. in proposito Cass. Sez. 6° penale, sentenza 21 settembre 2006, n° 31413, riguardante il mobbing di massa della Palazzina Laf dell’Ilva di Taranto e la condanna di undici manager per i reati di violenza privata e frode processuale, con conseguenze risarcitorie nei confronti delle vittime, tutte iscritte al sindacato, ed anche nei confronti del sindacato costituitosi parte civile; v. anche Cass. Pen. 7 ottobre 2015, n° 40320; Cass. Pen. 6 febbraio 2009, n° 26594 che ritengono sussimibili gli atti vessatori, nei casi più gravi, nell’ambito del delitto di maltrattamenti).
Per soddisfare quello che parrebbe dunque il mandato delle SU in tema di danno morale, il lavoratore potrebbe in ogni caso chiedere l’accertamento incidentale di tali ipotesi di reato quale premessa per rivendicare il danno morale.

La terza ed ultima voce che viene esposta in tali casi è il danno biologico ovvero la lesione dell’integrità psicofisica clinicamente accertabile.

 

Oneri di allegazione e di prova della fattispecie

I tratti caratterizzanti la figura del mobbing, così come delineati dalla Cassazione, sono i seguenti:

  • reiterazione e sistematicità di condotte ostili, ancorché non necessariamente illegittime o illecite
  • intenzionalità della strategia persecutoria.

Il fenomeno, come detto, rimane assorbito dall’art. 2087 c.c. che – come unanimemente si legge nelle pronunce giudiziali – impone al datore un dovere di tutela contro qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona (fisica e morale) del lavoratore; resta quindi riferito alla fattispecie anche l’obbligo di proteggere il lavoratore nel caso di condotte vessatorie integranti il mobbing.
Siamo nell’ambito della responsabilità contrattuale che, in base all’art. 1218 c.c., grava il lavoratore dell’onere di allegare e provare i fatti che integrano la fattispecie costituente inadempimento (violazione di norme di sicurezza specifiche o generiche) nonché, nel caso di mobbing orizzontale, la conoscenza o conoscibilità da parte de datore di lavoro delle condotte persecutorie dei colleghi.

Grava invece sul datore di lavoro, quale debitore in relazione all’obbligo di sicurezza e sempre ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’onere di provare la non imputabilità dell’inadempimento, ovvero di aver garantito, direttamente o tramite fattiva vigilanza e intervento sull’operato dei collaboratori, la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087 c.c..

Gli operatori del settore sanno che rendere prova del mobbing è cosa particolarmente ardua per il lavoratore (che, una volta provata la fattispecie, è poi anche gravato della prova dei danni e della causalità, come tra breve si dirà).
Ed infatti, anche se la giurisprudenza più recente sembra ormai escludere la necessità di provare l’elemento psicologico o dolo, ancorandosi allo strumento delle presunzioni, provare i fatti (singoli episodi tra loro concatenati e susseguitisi con una certa frequenza in un dato lasso di tempo) attraverso documenti e testimonianze è attività estremamente complicata anche per la particolare difficoltà – soprattutto in contesti di mobbing – a reperire testimoni in grado di riferire le vessazioni.
I colleghi di lavoro, infatti, sono a volte coinvolti nel mobbing o sono di esso (quasi mai del tutto innocenti) spettatori.

Una volta che il lavoratore abbia assolto tale onere, compete all’azienda fornire la prova dell’esatto adempimento.
Si ricorda al riguardo che l’accezione di salute contenuta nel D.Lgs. 81 del 2008, art. 2, lett. o) è quella dello “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.
Si tratta della nozione di salute così come definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Inoltre, come già enunciato, in base all’art. 28 del TU n° 81 del 9 aprile 2008 è compito del datore di lavoro la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004…”. e in base all’art. 15 TU vengono esplicitate tutte le misure generali di tutela, che passano attraverso la formazione e l’informazione di dipendenti, rappresentanti e capi nonché attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi.

Ignorare l’esistenza del fattori potenzialmente stressogeni, quali quelli creati da un ambiente di lavoro improntato a dinamiche relazionali non corrette, e non effettuare una corretta valutazione, in termini preventivi, di tali fattori implica – per l’azienda – esporsi oggi a molto probabili conseguenze risarcitorie anche pesanti.
Sul punto anche la giurisprudenza prevalente conviene che non è assolutamente sufficiente ad escludere la responsabilità datoriale l’allegazione e la prova di avere svolto un intervento “pacificatore” non seguito da concrete misure e da adeguata vigilanza (per tutte vV. Cass. 11 settembre 2008. n° 22858.).

E neppure assolve l’onere probatorio in tal senso l’azienda che si limiti ad allegare di aver deferito al collegio dei probiviri l’autore dei fatti di mobbing (Cass. 25 maggio 2006, n° 12445.). Infatti – anche a causa del noto dilagare del fenomeno di cui ormai si parla da anni e delle tristemente note conseguenze che esso può comportare – assolve al dovere di protezione ex art. 2087 c.c., in tale ambito, il datore di lavoro che utilizza in pieno (e prova di aver utilizzato) tutti gli strumenti normativi, contrattuali o le conoscenze organizzative utili a evitare l’insorgere del fenomeno.
L’istituzione, ad esempio, di commissioni di clima, l’effettuazione di indagini di clima, l’istituzione del fiduciario di azienda, l’effettuazione di corsi di formazione specifici sulle relazioni interpersonali nei luoghi di lavoro, la costante comunicazione aziendale in merito all’importanza di un clima corretto e cordiale, l’istituzione di procedure di “denuncia interna” ecc., sono tutti strumenti preventivi che se adottati in “tempi non sospetti” possono costituire elementi indicatori validi ad escludere o, almeno, a limitare la responsabilità datoriale.
In assenza di tali o simili accorgimenti l’azienda resta oggi esposta alle conseguenze risarcitorie di cui ora si dirà.

Resta fermo quanto già più su precisato in termini di “alleggerimento” degli oneri probatori qualora il mobbing possa essere ricondotto a discriminazioni o ritorsioni.

 

Oneri di allegazione e di prova dei danni

Con riguardo alla allegazione ed alla prova dei danni, merita richiamo l’orientamento della Suprema Corte a Sezioni riunite.

La sentenza delle SU, 11 novembre 2008 n° 26972 ha ribadito quelli che, in ambito giuslavoristico, sono i principi di una precedente sentenza delle Sezioni Unite, la n° 6572 del 14 marzo 2006, espressamente richiamata dalla pronuncia in commento: il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, deve essere allegato e provato con documenti, testimonianze ed anche ricorrendo alle presunzioni.

La sentenza 6572/2006, cit., poneva a carico del lavoratore l’allegazione e la prova “di aver compiuto scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso” e, con riguardo al danno morale, l’allegazione e la prova del turbamento d’animo, del dolore intimo e dimostri tali circostanze “attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale mette a sua disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro” ammettendo anche il ricorso alle presunzioni.

La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza 6572/06 non aveva dato peraltro eccessivo credito a tale rigida impostazione; si fa riferimento ad altre sentenze della Cassazione (per tutte Cass. 22 settembre 2006) che attribuiscono, ad esempio, alla durata del demansionamento ed all’ampiezza del dislivello tra le mansioni precedentemente svolte e quelle successivamente assegnate valore presuntivo sufficiente per la determinazione equitativa del danno, a prescindere dalla specifica allegazione dello stesso.

Peraltro giova ricordare che le stesse Sezioni Unite avevano affermato che l’esistenza del danno da demansionamento nella sua componente esistenziale e morale potesse fondarsi su di un giudizio probabilistico, a prescindere da una specifica allegazione e prova dello stesso.
Si fa riferimento a Cass. S.U. 17 luglio 2008 n° 19596, che afferma che l’espressione “automatico degrado” (utilizzata nella sentenza impugnata) vada interpretata nel contesto della motivazione, come sinonimo di conseguenza ad alto grado di probabilità, il che è sufficiente per istituire la deduzione presuntiva.

Si può dunque presumere, a seguito della prolungata e ingiustificata emarginazione, che i comportamenti tenuti dal datore di lavoro abbiano leso il diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro (art. 1, 2 cost.) e comportato un automatico degrado della professionalità da lui acquisita in trenta anni con conseguenti riflessi sulla sua vita sociale e di relazione.

A prescindere dai contrasti della giurisprudenza di cui si è dato conto, nel caso di richiesta del risarcimento del danno esistenziale e del danno morale il lavoratore potrebbe sottoporsi ad una perizia redatta secondo il metodo “LIPT Ege” o metodi analoghi, quali ad esempio il metodo NAQ perizia costituente senz’altro prova documentale e strumento utile per la migliore valutazione di tali poste di danno.
Infatti, inserire nel ricorso il riferimento a esperienze esistenziali e di sofferenza morale attingendo alle risultanze testali dovrebbe senz’altro “accontentare” anche il giudice più esigente.
Inoltre il lavoratore potrebbe richiedere che in sede di Consulenza Tecnica d’ufficio venga valutata la sussistenza non solo del danno biologico, ma anche del danno esistenziale e morale, e che il CTU esprima un giudizio di compatibilità tra le condotte denunciate e la presenza di tutti i pregiudizi non patrimoniali, non soltanto di quello in ambito biologico.

Del resto già in diversi casi i giudici hanno demandato alla CTU la determinazione della sussistenza del danno esistenziale e del danno morale in casi di mobbing e di straining (Tribunali di Forlì, Bergamo e Sondrio, v. sent. pubblicate nel sito www.mobbing-prima.it).
In tal modo si può evitare di praticare (il che è richiesto dalle SU in commento) l’automatismo quantificatorio utilizzato specialmente per la liquidazione del danno morale (normalmente quantificato da un terzo alla metà).

Con riguardo alla terza posta risarcitoria, costituita dal danno biologico, la sentenza SU 11 novembre 2008, cit., afferma che è normalmente richiesto l’accertamento medico-legale, anche se tale strumento (CTU) non è esclusivo e necessario, potendo il giudice porre a fondamento della sua decisione tutti gli elementi acquisiti nel processo (documenti e testimonianze) nonché avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

 

Contributi scientifici

Su segnalazione dell’ISPESL, Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, ci pervengono i seguenti contributi scientifici:

Uno strumento valutativo del rischio mobbing nei contesti organizzativi: la scala “VAL.MOB.”
di Antonio Aiello(1), Patrizia Deitinger(2), Christian Nardella(2), Michela Bonafede(2)
(1) Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Psicologia, Cagliari
(2) Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL), Dipartimento Medicina del Lavoro, Roma

 

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di mobbing

In genere

  1. Perché sussista il danno da mobbing, il lavoratore deve provare: la molteplicità delle condotte persecutorie o illecite, poste in essere in modo sistematico e prolungato contro di lui; l’evento lesivo della sua salute o personalità; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica; l’intento persecutorio. (Cass. 29/12/2020 n. 29767, ord., Pres. Di Paolantonio Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2021, 311)
  2. È risarcibile il danno patito dal lavoratore, pur nella accertata insussistenza della configurabilità di una condotta di “mobbing”, laddove alcuni comportamenti denunciati, esaminati singolarmente ma sempre in sequenza causale, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati comunque vessatori e mortificanti e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, tenuto a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili. (Cass. 28/2/2018 n. 16256, Pres. Manna Est. Belle, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di F. Lamberti, “Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno patito anche se non risulta provato il mobbing”, 793)
  3. La sussistenza di condotte mobbizzanti, anche nel rapporto di pubblico impiego, deve essere necessariamente qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione o emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito che è imprescindibile ai fini della enucleazione del mobbing. Conseguentemente, un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante. (Trib. Milano 9/9/2016, Giud. Bertoli, in Lav. nella giur. 2017, 101)
  4. Per mobbing deve intendersi quella condotta sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistemativi e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. ( Trib. Firenze 7/7/2016, Giud. Taiti, in Lav. nella giur. 2016, 1133)
  5. Ai fini della configurabilità del mobbing sono rilevanti quattro elementi: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (Cass. 28/8/2013 n. 19814, Pres. Roselli Est. Blasutto, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Elena Pasqualetto, “Intenzionalità del mobbing e costrittività organizzativa”, 63)
  6. Ai fini della sussistenza del mobbing sono necessari due elementi e, cioè, l’intenzionalità e la consapevolezza e la reiterazione e la sistematicità delle condotte finalizzate all’isolamento e all’emarginazione del lavoratore, attuate spesso attraverso atti di demansionamento, di inattività forzata e di privazione dei necessari strumenti di lavoro. (Trib. Milano 17/4/2013, Giud. Scarzella, in Lav. nella giur. 2014, 91)
  7. Ai fini della deduzione del mobbing non è sufficiente la prospettazione di un mero “svuotamento della mansioni”, occorrendo anche l’allegazione sia di una serie di atti vessatori collegati, sia della preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente. (Cass. 2/4/2013 n. 7985, Pres. Lamorgese Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2013, 612)
  8. Non è qualificabile come condotta mobbizzante lo spostamento dalla postazione lavorativa del dipendente per una sola settimana e per ragioni oggettivamente accertabili, quali la necessità di garantire l’accesso esclusivo ad alcuni locali a una società di consulenza esterna per ragioni di indagini difensive, in un procedimento penale a carico dell’organizzazione datrice di lavoro. (Trib. Roma 28/11/2012, ord., in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di A. Bussolaro, “Licenziamento, mobbing e insubordinazione in un gruppo parlamentare”, 305)
  9. È caratteristica propria del mobbing la sussistenza di un disegno persecutorio nei confronti del dipendente, realizzato per mezzo di comportamenti vessatori o, comunque, lesivi dell’integrità fisica e della personalità del prestatore di lavoro, protratti per un periodo di tempo apprezzabile e finalizzati all’emarginazione del lavoratore. Tali comportamenti rilevano quando determinino causalmente nel lavoratore l’insorgere di una vera e propria patologia. (Trib. Milano 5/10/2012, in Lav. nella giur. 2013, 96)
  10. Le condotte vessatorie e maltrattanti poste in essere da un dirigente nei confronti di un suo sottoposto all’interno di un’azienda, anche di grandi dimensioni, integrano il reato di cui all’art. 572 c.p. ove nell’unità operativa, in cui i soggetti operano, vi sia una sostanziale condivisione della quotidianità della vita lavorativa, delle relazioni interpersonali e anche degli spazi. (Trib. Milano Sez. V pen. 5/3/2012, Est. Gatto, in D&L 2012, con nota di Livia Chiara Mazzone, “Novità interpretative in tema di applicabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. a casi di mobbing”, 845)
  11. Per “mobbing” si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente del lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. L’apprezzamento circa la sussistenza in concreto degli estremi del mobbing costituisce valutazione di merito che, ove basata su motivazione adeguata e priva di vizi logici, sfugge al sindacato di legittimità. (Nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore non ravvisandosi un nesso causale tra la patologia psichica da cui il medesimo era risultato affetto e il disagio derivante dall’ambiente lavorativo e non essendo nemmeno possibile individuare i soggetti responsabili dell’allegato mobbing con riferimento a comportamenti specifici e rilevanti). (Cass. 10/1/2012 n. 87, Pres. De Renzis, Est. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2012, 304)
  12. Le condotte vessatorie e maltrattanti poste in essere da un direttore e da un responsabile di un punto vendita di una catena della grande distribuzione nei confronti di un loro sottoposto integrano il reato di cui all’art. 572 c.p. ove nell’unità operativa in cui i soggetti operano vi sia una quotidianità lavorativa nonché la sussistenza di un rapporto personale e immediato tra questi soggetti, indipendentemente dalla dimensione della realtà aziendale. (Trib. Milano Sez. V 30/11/2011, Est. Canali, in D&L 2012, con nota di Livia Chiara Mazzone, “Novità interpretative in tema di applicabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. a casi di mobbing”, 845)
  13. Il mobbing costituisce, come è noto, un fenomeno enucleato dalla psicologia e dalla sociologia, senza una propria autonoma dignità giuridica. La nozione tradizionale di mobbing lo riconduce nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. (…). Sono caratteristiche di questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti; la volontà che lo sorregge, diretta alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente; la conseguente lesione arrecata al lavoratore, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. (Trib. Milano 7/11/2011, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2012, 198)
  14. Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità. La prova di tale condotta involge un giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità. (Cass. 21/5/2011 n. 12048, Pres. Miani Canevari Est. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2011, 844, e in Lav. nella giur. 2011, con commento di Natalina Folla, 1025, e in in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Nicola Ghirardi, “La fattispecie di mobbing ancora al vaglio della Cassazione”, 59)
  15. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (Cass. 21/5/2011 n. 12048, Pres. Miani Canevari Est. Filabozzi, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Nicola Ghirardi, “La fattispecie di mobbing ancora al vaglio della Cassazione”, 59)
  16. Possono essere stigmatizzate come condotte di mobbing soltanto le fattispecie più gravi e non i meri episodi di inurbanità, scortesia o addirittura maleducazione. (Trib. Trieste 14/1/2011, Giud. Multari, in Lav. nella giur. 2011, 421)
  17. È necessaria la prova della finalità illecita. Tuttavia tale indagine non coincide con la ricerca dell’intento persecutorio personale del mobber, né con l’esame dell’aspetto soggettivo della condotta (dolo o colpa). La finalità illecita può essere apprezzata dal giudice in relazione all’idoneità lesiva dei beni della persona e alla intrinseca ratio discriminatoria, che può essere accertata con le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta, oltre alla permanenza nel tempo della condotta. (Trib. Trieste 14/1/2011, Giud. Multari, in Lav. nella giur. 2011, 421)
  18. Le pratiche persecutorie (mobbing) realizzate dal datore di lavoro ai danni del lavoratore, e finalizzate alla sua emarginazione, possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo se il rapporto tra i detti soggetti assuma natura para-familiare, se risulti cioè caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita condivise, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di garanzia. (Cass. pen. 13/1/2011 n. 685, Pres. Serpico Rel. Milo, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Natalina Folla, 1025)
  19. La condotta di mobbing del datore di lavoro, ravvisabile in ipotesi di comportamenti materiali o provvedi mentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali, deve essere quanto meno esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi in sede giurisdizionale a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito. L’interessato, pertanto, deve evidenziare concreti elementi in base ai quali il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri ufficiosi, possa verificare se siano stati commessi illeciti nei suoi confronti. (Cons. St. 21/4/2010 n. 2272, Est. De Felice, in D&L 2010, con nota di Dionisio Serra, “Ancora in merito al risarcimento del danno per mobbing”, 818)
  20. La fattispecie conosciuta come mobbing gerarchico o verticale o bossing consiste nel complesso di comportamenti di ostracizzazione connotati da violenza, come abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, etc. perpetrate da parte di superiori, ripetuti per un apprezzabile lasso temporale e lesivi della dignità personale e professionale, nonché eventualmente, della salute psico-fisica del lavoratore, tenuti con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro. (Trib. Bologna 13/4/2010, Giud. Coco, in Lav. nella giur. 2010, 737)
  21. Per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente in violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c. e consistente in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore, correttamente individuati dal giudice di merito in continui insulti e rimproveri con umiliazione e ridicolizzazione davanti ai colleghi di lavoro, e nella frequente adibizione a lavori più gravosi rispetto a quelli svolti in precedenza. (Cass. 26/3/2010 n. 7382, Pres. Roselli Est. D’Agostino, in Orient. giur. lav. 2010 388)
  22. Il mobbing consiste nella condotta datoriale, realizzata attraverso comportamenti materiali e atti giuridici, posta in essere in un ampio arco temporale, idonea a vessare e discriminare il lavoratore e sorretta da nessuna plausibile finalità, se non quella di mortificare, umiliare e punire il dipendente, tanto da indurlo all’allontanamento dalla struttura. (Trib. Modena 18/1/2010, Est. Ponterio, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Un caso di mobbing tra condotta datoriale, fondamento normativo e risarcimento del danno”, 523)
  23. La responsabilità per mobbing regge essenzialmente sull’art. 2087 c.c. che obbliga l’imprenditore ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, affinché siano salvaguardate sul luogo di lavoro la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. (Trib. Modena 18/1/2010, Est. Ponterio, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Un caso di mobbing tra condotta datoriale, fondamento normativo e risarcimento del danno”, 523)
  24. Se è innegabile la valenza esistenziale del rapporto di lavoro, vale a dire il diretto coinvolgimento in esso del lavoratore come persona, e se è univocamente dimostrata, in base ai dati istruttori, una condotta datoriale vessatoria e ingiusta, può dirsi senz’altro realizzato un danno esistenziale, inteso come danno all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine e alla vita di relazione e, più in generale, lesione del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato agli artt. 1 e 2 Cost. (Trib. Modena 18/1/2010, Est. Ponterio, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Un caso di mobbing tra condotta datoriale, fondamento normativo e risarcimento del danno”, 523)
  25. La fattispecie del mobbing ricade nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Ricade sul lavoratore l’onere di documentare l’inadempimento contrattuale del datore di lavoro, il danno e il nesso di causa tra il primo e il secondo, mentre il datore di lavoro deve provare di aver garantito la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087 c.c., direttamente o mediante vigilanza e intervento sull’operato dei propri collaboratori. Non dà luogo a un’ipotesi di mobbing e, come tale, non legittima alcuna pretesa risarcitoria il ricorrere sul luogo di lavoro di difficoltà relazionali, legate alla cattiva predisposizione del lavoratore rispetto all’ambiente di lavoro, se non sussiste alcun intento persecutorio da parte del datore di lavoro o dei colleghi. (Trib. Milano 20/4/2009, d.ssa Cuomo, in Lav. nella giur. 2009, 849)
  26. È correttamente motivata la sentenza di merito che abbia ravvisato il compimento di una complessiva operazione di mobbing nella pretestuosa irrogazione di sanzioni disciplinari a una lavoratrice, sorretta dalla volontà del datore di colpirla, culminante nella comminazione del licenziamento, basato anche sulle sanzioni precedenti. (Cass. 23/3/2009 n. 6907, Pres. Sciarelli Est. Monaci, in Orient. Giur. Lav. 2009, 121)
  27. Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità; ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute e della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico e il pregiudizio dell’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (Cass. 17/2/2009 n. 3785, Pres. Sciarelli Est. D’Agostino, in Orient. Giur. Lav. 2009, 115)
  28. La caratteristica essenziale per definire come esistente un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto e per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumere significatività oggettiva a tali atti, tipici dell’imprenditore o meno, e permettendo di distinguerli dal conflitto puro e semplice. Accanto al profilo strutturale della ripetitività degli atti vessatori, è invece discusso se debba necessariamente ravvisarsi un profilo finalistico, inteso come valutazione della finalità illecita del motivo vessatorio: in proposito, basti osservare come tale valutazione debba essere intesa come idoneità lesiva dei beni della persona, verificabile attraverso la monodirezionalità della condotta, la pretestuosità della stessa e ancora una volta il permanere nel tempo del comportamento vessatorio. (Trib. Milano 24/12/2008, Est. Vitali, in Lav. nella giur. 2009, 420)
  29. Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente illegittimi), la volontà che li sorregge (diretta alla persecuzione ed emarginazione del dipendente) e la conseguente lesione attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. (Cass. 9/9/2008 n. 22858, Pres. Senese Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Giorgio Mannacio, 1235, e in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Nicola Ghirardi, “Il mobbing all’esame della Cassazione: alcune importanti osservazioni sulle caratteristiche della fattispecie e sugli obblighi del datore di lavoro”, 293)
  30. Tra gli obblighi a carico del datore di lavoro, di cui all’art. 2087 c.c., non rientra quello di intervenire come “mediatore” nei frequenti attriti e antipatie tra i colleghi di lavoro. (Trib. Milano 28/8/2008, Est. Tanara, in Orient. della giur. del lav. 2008, 690)
  31. Viene ribadita nella sentenza la nozione di “mobbing” così come è stata ampiamente elaborata da tempo da parte della giurisprudenza. Con la decisione in esame, la Corte Suprema conferma un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, in base al quale va qualificata come “mobbing” ogni “ipotesi di comportamento materiale o di provvedimento (del datore di lavoro) che sia contraddistinto da finalità persecutorie o di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa, indipendentemente dalla violazione (da parte del lavoratore) di specifici obblighi contrattuali”. La sentenza affronta poi alcune questioni di natura eminentemente processuale, ritenendo peraltro infondati i motivi prospettati dal ricorrente anche a questo riguardo. (Cass. 1/8/2008 n. 21028, Pres. Sciarelli Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Gianluigi Girardi, 1253)
  32. Il mobbing, inteso come atteggiamento di carattere persecutorio e discriminatorio da parte del datore di lavoro nei confronti di un lavoratore che è frustrato nelle sue aspettative umane e professionali può provocare un danno biologico, morale ed esistenziale. Tali danni vanno separatamente provati e risarciti. Il demansionamento può dare luogo al danno professionale, inteso come concreto depauperamento della professionalità acquisita, il quale può essere riconosciuto solo in presenza di adeguata allegazione. (Trib. Milano 30/7/2008, d.ssa Sala, in Lav. nella giur. 2009, 96)
  33. Va respinta la domanda risarcitoria del danno da mobbing proposta dal pubblico dipendente con rapporto di lavoro non contrattuale, in mancanza di prova dell’intento persecutorio della p.a. datrice di lavoro, che non è evincibile dall’illegittimità di provvedimenti amministrativi i quali non siano impugnati. (Cons. Stato 27/5/2008 n. 2515, Pres. Frascione Est. Poli, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Luca Ratti, “Mobbing e pubblico impiego non privatizzato”, 1075)
  34. Il mobbing è istituto di origine giurisprudenziale, con riferimento al quale si intende la reiterazione, sul luogo di lavoro, di soprusi da parte dei superiori o dei colleghi di lavoro in danno del dipendente attraverso condotte dirette a isolarlo nell’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo; condotte il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore di lavoro menomandome la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso creando stati di depressione. (Trib. Benevento 22/4/2008, Est. De Matteis, in Lav. nella giur. 2008, 1282)
  35. Poiché si configuri mobbing non è sufficiente che il superiore gerarchico abbia tenuto, per un breve periodo di tempo, un comportamento aggressivo nei confronti del lavoratore, venendo in questo caso a mancare i caratteri della sistematicità e della reiterazione dei comportamenti vessatori. (Trib. Milano 18/4/2008, Est. Scudieri, in Orient. giur. lav. 2008, 732)
  36. Non può considerarsi idonea a configurare mobbing la mera decisione aziendale di trasferire il lavoratore presso un diverso stabilimento, prevista da un accordo sindacale concluso a seguito della procedura per riduzione del personale, ove non siano state poste in essere vessazioni ripetute e sistematiche rivolte in modo specifico e individuale contro il lavoratore per un apprezzabile periodo di tempo. (Trib. Milano 31/1/2008, d.ssa Vitali, in Lav. nella giur. 2008, 1174)
  37. Anche nel pubblico impiego, pur in assenza di una specifica, rigida regolamentazione, il mobbing si caratterizza per la presenza di precisi, essenziali elementi distintivi quali la sistematicità delle condotte mobizzanti, la ripetitività temporale e la loro natura tipicamente persecutoria e discriminatoria. (Corte app. Torino 15/1/2008 n. 19, Pres. Peyron Rel. Sanlorenzo, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Antonio Quagliarella, 927)
  38. La condotta di mobbing presuppone una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti convergenti a esprimere ostilità del soggetto attivo verso la vittima e di efficace capacità di mortificare e isolare il dipendente, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria nell’ambiente lavorativo. Pur mancando di tale fattispecie una precisa figura incriminatrice penale, la figura di reato più prossima è quella dei maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione (art. 572 c.p.), per la cui punibilità deve essere verificata la serie complessiva degli episodi lesivi contestati, in ordine alla loro sistematicità e durata dell’azione e nel tempo, le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione della condotta e, per la contestazione dell’aggravante specifica delle procurate lesioni gravi, l’individuazione della conseguenza patologica a essa riconducibile (nel caso in esame la Cassazione non rileva nè carenza nè illogicità nella motivazione della sentenza impugnata, attesa la radicale insufficienza del compendio probatorio e della contestazione dell’accusa, incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata). (Cass. 29/8/2007 n. 33624, Pres. Pizzuti Rel. Sandrelli, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Alessia Muratorio, 991)
  39. Il termine mogbbing viene adottato per caratterizzare in modo immediato e sintetico una serie di comportamenti attinenti alle molestie morali e psicofisiche nei luoghi di lavoro. In assenza di una definizione giuridicamente rilevante di tale fenomeno e di una disciplina sanzionatoria del mobbing in quanto tale è necessario fare riferimento alle norme esistenti nell’ordinamento dettate per la tutela delle condizioni di lavoro, quindi, in primis, all’art. 2087 c.c. Per la configurabilità di un’ipotesi di mobbing sono imprescindibili i seguenti elementi: la sistematicità di comportamenti “mobbizzanti”, la protrazione di tali comportamenti per un apprezzabile lasso di tempo e il carattere oggettivamente persecutorio e/o discriminatorio di tali comportamenti, associato a una condotta emulativa e pretestuosa. (Trib. Grosseto 22/2/2007, Dott. Ottati, in Lav. nella giur. 2007, 1151)
  40. E’ riconducibile al fenomeno del mobbing quel comportamento reiterato nel tempo che, secondo i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale e nazionale, è posto in essere da parte di una o più persone, colleghi (c.d. mobbing orizzontale) o superiori (c.d. mobbing verticale) della vittima, è teso a respingere dal contesto lavorativo il lavoratore mobbizzato il quale, a causa di tale comportamento reiterato in un certo lasso di tempo sufficientemente apprezzabile, subisce un pregiudizio anche di ordine fisico. (Trib. Tivoli 23/1/2007, Est. Giordano, in D&L 2007, 1136)
  41. Posto che ai fini del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore non è indispensabile che le condotte costituenti mobbing siano di per sé illecite, il mobbing obbliga il datore di lavoro a risarcire il danno alla salute e alla dequalificazione professionale conseguentemente sofferto dal lavoratore, fermo restando che, qualora il mobbing non abbia dato luogo a una vera e propria invalidità psico-fisica, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno esistenziale da liquidarsi in via equitativa. (Trib. Tivoli 23/1/2007, Est. Giordano, in D&L 2007, 1136)
  42. Dal riconoscimento del diritto della lavoratrice all’indennità sostitutiva del preavviso, in dipendenza delle dimissioni per giusta causa, deriva altresì il suo diritto al risarcimento dei danni (patrimoniali, psicologici e morali) posto che, dalla qualificazione come contrattuale della responsabilità del datore di lavoro per danno da mobbing, derivante da inadempimento dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) deriva che il datore di lavoro non assolve l’onere della prova liberatoria – posta a suo carico – se non allega e dimostra l’adozione di una qualsiasi misura di sicurezza idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, non essendo sufficiente a tal fine limitarsi a dedurre una propria iniziativa volta alla repressione e non già alla prevenzione dei fatti “mobbizzanti” (nel caso di specie, la lavoratrice aveva denunciato un comportamento vessatorio attuato nei suoi confronti dal Presidente dell’Associazione da cui dipendeva, a seguito del quale il Presidente era stato tempestivamente deferito al Collegio dei probiviri). (Cass. 25/5/2006 n. 12445, Pres. Ciciretti Rel. De Luca, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Lucia Valente, “Dimissioni per g.c. e risarcimento dei danni: i conseguenti oneri di allegazione e prova del lavoratore e di prova liberatoria del datore nell’azione risarcitoria per violazione dell’obbligo di sicurezza”, 66)
  43. Perchè si possa configurare un risarcimento per danno da mobbing è indispensabile che il lavoratore fornisca la prova della presenza del comportamento vessatorio del datore di lavoro reiterato nel tempo, con episodi successivi e ripetuti, altresì, animati dall’intento esclusivo e mirato di nuocere al lavoratore nei confronti del quale tali condotte vengono attuate e che venga dimostrato, in particolare, che la condotta denunciata sia causalmente collegata alla malattia insorta del lavoratore. (Trib. Milano 6/4/2006, Giud. Peragallo, in ADL 2007, con nota di Mariele Cottone, “Danno da mobbing: nesso di causalità e oneri probatori”, 561)
  44. Può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque, mobbing, anche in presenza di atti di per sè legittimi cosicchè non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinchè ciò avvenga è necessario che le diverse condotte, alcune o tutte di per sè legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato. (Cass. sez. VI pen. 8/3/2006 n. 31413, Pres. Legnasi Rel. Rotundo, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Anna Piovesana, 39)
  45. L’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (c.d. mobbing) – che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificatamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal lavoratore come vessatori). (Cass. 6/3/2006 n. 4774, Pres. Mercurio Rel. Miani Canevari, in Lav. Nella giur. 2006, 818)
  46. Ciò che distingue il mobbing dalle mere situazioni di conflittualità interpersonali che caratterizzano qualsiasi ambiente di lavoro è la sistematicità dei comportamenti vessatori e il reiterarsi nel tempo nonché l’unitaria e intenzionale finalizzazione di tali comportamenti allo svilimento della professionalità del lavoratore e alla mortificazione della sua dignità. (Trib. Milano 4/1/2006, Est. Vitali, in D&L 2006, 486)
  47. Al lavoratore vittima di accertati episodi di mobbing va risarcito il danno biologico individuato nella lesione psico-fisica della persona (nella fattispecie, è stata riconosciuta una inabilità temporanea del 25% e il danno è stato liquidato in base alle tabelle del Tribunale di Milano). (Trib. Milano 4/1/2006, Est. Vitali, in D&L 2006, 486)
  48. È noto che per mobbing si intende un comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a isolarla e respingerla dall’ambiente di lavoro, con conseguenze negative dal punto di vista sia psichico sia fisico. Il c.d. bossing (o mobbing verticale) è la vessazione da parte di un superiore gerarchico del lavoratore, di solito utilizzata per ridurre il personale, ringiovanire o riorganizzare uffici o reparti. Gli atteggiamenti tipici del mobbing individuati dalla psicologia del lavoro come idonei a colpire il lavoratore menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso sono, a parte le situazioni scolastiche e paradigmatiche della reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari, sottrazioni di benefits o vantaggi precedentemente attribuiti, che devono presentarsi con carattere di ripetitività e di continuità nel tempo. (Trib. Milano 6/5/2005, Est. Porcelli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 327)
  49. Qualora il lavoratore agisca per il risarcimento del danno da mobbing denunciando la violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro (nella specie: mutamento di mansioni, trasferimento, assegnazione a locale insalubre; privazione dei riposi ecc.) deve ritenersi proposta un’azione per responsabilità contrattuale in quanto la tutela invocata attiene a diritti soggettivi derivanti direttamente dal rapporto di lavoro, indipendentemente dalla natura dei danni subiti. Qualora un comportamento mobbizzante venga attuato non mediante meri comportamenti materiali, ma mediante atti di gestione del rapporto, si realizza un’ipotesi non di illecito permanente, ma di illeciti istantanei con effetti permanenti, ancorchè l’evento dannoso si protragga autonomamente. Conseguentemente, nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico, la giurisdizione deve essere determinata avendo riguardo alla data di compimento dei singoli atti lesivi (nella specie è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di atti riferiti ad epoca antecedente il 30/6/98). (Cass. 4/5/2004 n. 8438, Pres. Giustiniani Est. Miani Canevari, in D&L 2004, 339)
  50. Con l’espressione “mobbing” si intende una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotto con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile. Non è sufficiente ad integrare la fattispecie del “mobbing” l’allegazione e la prova – il relativo onere incombe sul lavoratore – di fatti che denotano esclusivamente la sussistenza di divergenze di vedute tra il lavoratore ed il suo superiore gerarchico. (Trib. Milano 26/4/2004 Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2004, 1308)
  51. Dell’attività persecutoria posta in essere non orizzontalmente dai colleghi ma verticalmente dal direttore generale, risponde, in solido, il datore di lavoro che tale attività ha fatto sua, consentendola e non intervenendo affinchè fosse interrotta. Si è pertanto nell’ambito della generale responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., secondo cui il datore di lavoro deve tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. (Corte d’appello Torino 21/4/2004, Pres. Peyron Est. Ramella Trafighet, in Lav. nella giur. 2005, 49, con commento di Roberta Nunin)
  52. I connotati istituzionali del mobbing escludono di poter procedere disciplinarmente per violazione dei doveri di fedeltà e collaborazione nei confronti del lavoratore che si sia limitato a denunciare alla sola dirigenza dell’impresa comportamenti mobbizzanti ai propri danni non supportati dalle indagini introaziendali, in quanto la fattispecie mobbing presuppone strutturalmente il comportamento di denuncia. (Trib. Modena 12/2/2004, Est. Stanzani, in Lav. nella giur. 2004, con commento di Francesca Marinelli)
  53. Il mobbing che abbia inciso sulla salute psichica del lavoratore provoca un danno biologico da liquidarsi in via equitativa. (Trib. Campobasso 16/1/2004, Est. Valle, in D&L 2004, 107)
  54. E’ costituzionalmente illegittima la legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 recante disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro. Alla Regione non è precluso legiferare-nelle materie di competenza concorrente -anche in assenza di una specifica disciplina statale contenente i principi fondamentali di un determinato fenomeno, ma ciò può esser fatto in via provvisoria, senza tener conto dei limiti desumibili dall’ordinamento. Con la legge in questione (dovendosi ritenere ammissibile l’impugnazione dell’intera legge-e non delle singole norme-in quanto connotata dalla denuncia della definizione dei comportamenti costituenti mobbing, intorno alla quale ruotano tutte le altre disposizioni) la Regione , qualificando, come mobbing una serie di fattispecie già note all’ordinamento sotto molteplici aspetti, non ha compiuto una mera ricognizione del fenomeno, per fini di studi o prevenzione, ma-attraverso la previsione delle attività dei centri anti-mobbing-ha creato potenziali interferenze con le aree del rapporto di lavoro privato e pubblico (con riferimento alla Pa ed agli Enti pubblici nazionali) ed ha inciso su fondamentali aspetti della tutela della salute e della tutela e sicurezza del lavoro. (Corte Cost. 10/12/2003 n. 359, Pres. Chieppa Rel. Amirante, in Dir. e prat. lav. 2004, 358)
  55. Si è in presenza di un comportamento qualificabile come mobbing quando le vessazioni psicologiche inflitte alla vittima nell’ambiente di lavoro siano idonee a ledere i beni della persona (quali la salute e la dignità umana) e siano attuate in modo duraturo e reiterato; costituisce mobbing la sottoposizione di una lavoratrice per vasi mesi a controlli esasperati della sua attività di lavoro, ad una serie di contestazioni e sanzioni disciplinari conseguenti ad episodi di inesistente o scarsissima rilevanza disciplinare, nonché a frequenti aggressioni verbali consumate di fronte a terzi. In ipotesi di mobbing, stante la natura anche contrattuale dell’illecito, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica e della dignità del lavoratore, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare sia la lesione sia il nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa. In ipotesi di mobbing, ai fini del raggiungimento della prova del nesso di causalità tra la patologia del lavoratore e le condizioni dell’ambiente di lavoro è sufficiente che l’evento consegua dalla causa in termini di altra probabilità. Una lettura costituzionalmente orientata del sistema di responsabilità civile alla luce degli artt. 2 e 29 Cost. consente di individuare in ipotesi di mobbing un autonomo spazio per il danno non patrimoniale inteso come danno esistenziale che si aggiunge al danno biologico in senso stretto ove provato, ovvero costituisce da solo l’ambito riparatorio, qualora a carico della vittima non sia ravvisabile l’insorgenza di una psicopatologia apprezzabile sotto il profilo clinico, ma solo una lesione della dignità professionale. (Trib. Milano 28/2/2003, Est. Vitali, in D&L 2003, 655)
  56. La legge tutela il diritto del lavoratore a non essere dequalificato e a svolgere effettivamente le mansioni formalmente spettanti; nel caso però non si è in presenza solo di una dequalificazione, ma di un comportamento vessatorio ed illecito nei confronti della ricorrente, che è vittima non di mero mobbing ma di vero e proprio bossing aziendale ad opera di un dirigente a lei sovraordinato che opera contravvenendo alle disposizioni del preposto della Direzione del lavoro. A fronte di tale situazione, l’amministrazione – che sola è parte del rapporto di lavoro con la ricorrente – ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile all’interno dell’ufficio, e di evitare un’ulteriore lesione della personalità fisica e morale della lavoratrice: correttamente, allora, l’azione è incardinata nei confronti del datore di lavoro, titolare dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. nei confronti dei dipendenti e responsabile in quanto tale anche del comportamento vessatori ed illecito dei suoi dipendenti nei confronti di altri (ex artt. 1228 e 2049 c.c.). non occorre per converso che del giudizio sia parte il dirigente in questione, che non è litisconsorte necessario nel rapporto di lavoro dedotto in giudizio, e nei confronti del quale la ricorrente può azionare – se lo ritiene – altri rimedi civilistici autonomi rispetto all’azione cautelare spiegata in questo giudizio. Da ciò l’esigenza di provvedimenti che valgano ad impedire al detto dirigente qualsiasi azione nei confronti della ricorrente, e ad assicurare, per quanto possibile, che la stessa possa ritornare in servizio dallo stato di malattia senza peggiorare le proprie condizioni di salute e senza subire lesioni permanenti della propria sfera psico-fisica. Ciò si traduce inevitabilmente in una compressione dei poteri del dirigenti del servizio, ma si tratta di una situazione necessitata dall’esigenza di prevenire abuso dei poteri medesimi e di evitare l’incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente. Si tratta invero di interferenze del potere giudiziario nella sfera organizzativa dell’amministrazione, e tuttavia di provvedimenti giurisdizionali consentiti nell’assetto normativo seguente al decreto legislativo n. 29/93 (come modificato dai decreti legislativi n. 80/98 e n. 387/98), atteso che a seguito della cosiddetta seconda privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, la pubblica amministrazione agisce “con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro”, e che il giudice ordinario “può adottare nei confronti dell’amministrazione tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati” (Trib. Lecce 31/8/01 ordinanza, pres. Invitto, est. Buffa, in Lavoro e prev. oggi. 2001, pag. 1428)
  57. Il mobbing aziendale, per cui potrebbe sussistere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro è collettivo e comprende l’insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo; inoltre deve essere posto con il dolo specifico quale volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini dell’allontanamento del mobbizzato dall’impresa (Trib. Como 22/5/2001, pres. e est. Fargnoli, in Lavoro giur. 2002, pag. 73, con nota di Ege, “Mobbing” aziendale e collettivo, o molestia; in Orient. giur. lav. 2001, pag. 277, con nota di Quaranta, Un’altra pronuncia sul mobbing)
  58. Non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing”), qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva (Trib. Milano 16/11/00, est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 962).
  59. Non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. “mobbing” ), qualora l’assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all’interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi (Trib. Milano 20/5/00, pres. e est. Mannacio, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 958; in Dir. relazioni ind. 2001, pag. 285, con nota di Boscati, Mobbing e tutela del lavoratore: alla ricerca di una fattispecie vietata; in Lavoro giur. 2001, pag. 367, con nota di Nunin, “Mobbing”: nodo critico è l’onere della prova)
  60. Il lavoratore che sia vittima di comportamenti “persecutori” da parte del datore di lavoro ha diritto al risarcimento del cosiddetto “danno biologico” (ad es. disturbi al sistema nervoso), ma deve dimostrare l’esistenza di un nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e il pregiudizio alla propria salute (Cass. 2/5/00, n. 5491, in Lavoro giur. 2000, pag. 830)
  61. Va risarcito, secondo le regole della responsabilità contrattuale, il danno alla salute (nella specie, infarto cardiaco) derivante al lavoratore dall’eccessivo impegno lavorativo dovuto alla sostituzione di un collega protrattasi per lungo tempo, allo svolgimento di lavoro straordinario e festivo ed alla rinuncia al godimento delle ferie. (Cass. 5/2/00 n. 1307, in Foro it. 2000, pag. 1554, con nota di Perrino)
  62. Costituiscono mobbing le pratiche poste in essere nell’ambiente di lavoro per isolare il dipendente, nei casi più gravi, per espellerlo dall’azienda, con effetto lesivo sul suo equilibrio psichico. L’invito rivolto a una dipendente di rassegnare le dimissioni, l’assunzione durante la sua malattia di altra lavoratrice a tempo indeterminati, con attribuzione a quest’ultima delle mansioni già assegnate alla dipendente assente, nonché l’attribuzione, al rientro dalla malattia, di mansioni dequalificanti integrano una fattispecie di mobbing; in tal caso spetta alla dipendente il risarcimento del danno – da determinarsi in via equitativa – sia per la temporanea compromissione dell’integrità psico-fisica, sia per la dequalificazione subita (Trib. Torino 30 dicembre 1999, est. Ciocchetti, in D&L 2000, 378; in Lavoro giur. 2000, pag. 832, con nota di Nunin)
  63. E’ configurabile il mobbing in azienda nell’ipotesi in cui il dipendente sia oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori, volti ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo, con gravi menomazioni della sua capacità lavorativa e dell’integrità psichica. (Trib. Torino 11/12/99, est. Ciocchetti, in Foro it. 2000, pag. 1556)
  64. Il datore di lavoro risponde ex art. 2087 c.c. per i danni psicologici subiti dai propri dipendenti e dovuti ai trattamenti incivili e ingiuriosi posti in essere da un suo preposto (fattispecie relativa ad un’impiegata costretta a svolgere le sue mansioni in uno spazio angusto, isolato dai colleghi di lavoro e adibito a deposito, e ripetutamente insultata dal capo reparto per le lamentele relative a tale trattamento) (Trib. Torino 16/11/99, est. Ciocchetti, in Dir. relazioni ind. 2000, pag. 385, con nota di Matto, Il mobbing nella prima ricostruzione giurisprudenziale)
  65. Ove sia accertato che, per effetto dell’illecito demansionamento subito, sia derivato al lavoratore anche uno stato di disturbo psicologico clinicamente apprezzabile, compete a quest’ultimo anche il risarcimento del danno biologico temporaneo di natura psichica, a liquidarsi in base alle “tabelle” comunemente accettate (Pret. Milano 26/6/99, est. Frattin, in D&L 1999, 883)

 

 

Le segnalazioni della Newsletter di Wikilabour in tema di mobbing

  1. Anche la malattia derivante da mobbing lavorativo è indennizzabile dall’INAIL.
    Un dipendente aveva chiesto all’INAIL il riconoscimento della natura professionale, ai fini dell’indennizzo, della malattia da cui era affetto, perché causata dalla condotta vessatoria del datore di lavoro. Mentre i giudici dell’appello avevano respinto la domanda, escludendo la ricorrenza di un rischio specificamente correlato alla prestazione lavorativa, la Corte ribalta la decisione, ripercorrendo l’evoluzione della nozione di rischio professionale assicurato dall’INAIL nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della cassazione medesima. (Cass. 14/5/2020 n. 8948, ord., Pres. D’Antonio Rel. Ciriello, in Wikilabour, Newsletter n. 10/2020)