Onere della prova – Probatorio – di allegazione

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Questa voce è stata curata da Giampaolo Furlan e Ylenia Vasini

 

Definizione

L’onere della prova è una regola che trova il proprio fondamento nel principio giuridico tradizionale secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit, che si sostanzia essenzialmente nel porre a carico della parte che allega un fatto a sé favorevole, il dovere di darne prova dell’esistenza.

In altre parole, secondo la lettera della legge (art. 2697, 1° comma, c.c.), “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Allo stesso modo, “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda” (art. 2697, 2° comma, c.c.).

La regola dell’onere della prova può essere intesa sia in senso soggettivo, sia in senso oggettivo.

Nel primo caso (senso soggettivo) questo principio s’intende come l’onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento delle pretese, per fornire al giudice tutti gli elementi necessari e sufficienti affinché egli addivenga ad una decisione corretta e consapevole.
L’onere della prova in senso oggettivo consente invece, al giudice, di emettere in ogni caso la decisione in merito all’accoglimento o al rigetto della domanda, quando, nonostante l’attività probatoria, egli non sia riuscito a raggiungere la verità dei fatti.

All’attore si richiede di provare i fatti che stanno alla base della propria domanda, mentre al convenuto spetta dimostrare la non veridicità di questi fatti, ovvero la loro inidoneità a costituire valido fondamento della domanda dell’attore o ancora provare l’esistenza di altri fatti capaci di modificare o estinguere il diritto dell’attore.

Quanto sopra costituisce il principio di carattere generale dell’ordinamento. E’ peraltro necessario segnalare che la legge può, in alcuni casi, determinare un’inversione dell’onere probatorio.
Nello specifico, una ipotesi di inversione dell’onere della prova è prevista in tema di licenziamento dall’art. 5 della L. 604/1966 il quale prevede che l’onere probatorio in tema di legittimità del licenziamento, sia a carico del datore di lavoro.

 

Fonti normative

  • Art. 2697 codice civile

 

 

Regola di giudizio

La regola di giudizio è una regola strettamente legata a quella disciplinante l’onere della prova.
La disciplina dell’onere della prova, infatti, diventa criterio per regolare il giudizio del giudice, il quale è tenuto a ritenere non vero il fatto incerto ovvero il fatto non provato.
In altre parole grava su colui che ha l’onere di provare un fatto in giudizio, il rischio della mancata prova dello stesso.

 

Oggetto dell’onere della prova

Oggetto di prova sono solo i fatti incerti, pertanto i fatti pacifici e notori non formano oggetto di attività probatoria.
Si distingue inoltre tra fatti costitutivi, estintivi, impeditivi e modificativi.
In particolare, i fatti costitutivi sono posti a fondamento del diritto vantato, i fatti estintivi causano l’estinzione del diritto, i fatti modificativi causano un mutamento del diritto e, infine, i fatti impeditivi vietano ai fatti costitutivi di produrre il loro naturale effetto.

 

Giurisprudenza in tema di onere della prova

Sull’onere della prova in generale

Cass. civ., Sez. II, 10/04/2008, n.9439
In tema di obbligazioni, il principio secondo cui anche quando sia dedotto l’inesatto adempimento è sufficiente al creditore la mera allegazione dell’inesattezza della prestazione gravando sul debitore l’onere della prova contraria, non trova deroga nel caso in cui l’inesatto adempimento sia posto a fondamento dell’eccezione di cui all’art. 1460 cod. civ.

Trib. Potenza, 20/11/2008
Il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo costituisce un ordinario giudizio di cognizione assoggettato alle ordinarie regole processuali, anche in ordine alla distribuzione dell’onere della prova; in base al principio generale consacrato nell’art. 2697 c.c., infatti, spetta al creditore procedente, attore nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo, fornire la prova dell’esistenza e dell’oggetto dell’obbligazione del terzo verso il debitore, mentre grava sul terzo pignorato dimostrare l’eventuale fatto estintivo oppure modificativo di tale pretesa e la sua anteriorità rispetto alla notifica dell’atto di pignoramento.

App. Roma, Sez. II, 06/11/2008
In merito alla responsabilità civile da fatti illeciti, in tema di ripartizione dell’onere della prova, all’attore spetta provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo mentre il convenuto, per liberarsi, dovrà provare l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale e cioè un fattore esterno, che può essere anche il fatto di un terzo o dello stesso danneggiato, che presenti i caratteri del fortuito e, quindi, dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità.

Trib. Novara, 03/11/2008
Il principio dell’onere della prova ben può definirsi come costitutivo del nostro ordinamento settoriale civile e non può essere disatteso neppure nel caso di obiettiva difficoltà a fornire la prova: l’obiettiva difficoltà in cui si trovi la parte, di fornire la prova del fatto costitutivo del diritto vantato non può condurre ad una diversa ripartizione del relativo onere della prova, che grava, comunque, su di essa; né, d’altro canto, la circostanza che detta prova sia venuta a mancare per fatti imputabili alla parte che ha interesse contrario alla prova stessa, implica che questa debba considerarsi acquisita e la domanda debba essere accolta.

Cass. civ., Sez. V, 17/10/2008, n.25405
L’onere della prova della tempestività della notificazione degli atti e, conseguentemente, dell’esercizio dell’azione di accertamento incombe sull’Amministrazione finanziaria.

Trib. Ferrara, 17/10/2008
La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e quella implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.

Trib. Milano, Sez. X, 16/10/2008
In tema di inadempimento dell’obbligazione derivante dalla stipula del contratto di commissione pubblicitaria, la convenuta, che assume l’onere di inserire il nominativo dell’attrice nell’elenco interessato, risponde dell’inadempimento relativo a tale prestazione e potrà liberarsi solo provando il caso fortuito. Difatti, come previsto dall’art. 1218 c.c., è il debitore che, per liberarsi dalla responsabilità, ha l’onere di provare, in caso di inadempimento o di ritardo, che l’impossibilità della prestazione è dovuta a causa a lui non imputabile, non essendo sufficiente a dimostrare l’assenza di colpa la generica prova della sua diligenza.

Trib. Milano, Sez. X, 14/10/2008
Secondo il disposto dell’art. 2051 c.c., la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, presuppone la dimostrazione che il danno derivi dal dinamismo intrinseco della cosa non essendo sufficiente, a tal fine, che la cosa abbia svolto un ruolo meramente passivo nella causalità dell’evento, così da costituire mero tramite del danno in effetti provocato da una causa ad essa estranea, che ben può essere integrata dallo stesso comportamento del danneggiato. In tali ipotesi, in capo al danneggiato grava l’onere della prova. (Cass. Civ., nn. 584/01, 3808/04)

App. Roma, Sez. III, 07/10/2008
Sotto il profilo dell’onere probatorio in tema di pagamento, quando il debitore abbia dimostrato di aver corrisposto somme idonee ad estinguere in tutto od in parte il debito, incombe al creditore che pretenda di imputare l’adempimento ad altro credito l’onere della prova delle condizioni di una diversa imputazione ai sensi dell’art. 1193 cod. civ.

App. Potenza, 31/07/2008
In materia di prestazioni contrattuali a carattere corrispettivo, il creditore che agisca in giudizio al fine di ottenere l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno derivante dal mancato adempimento del contratto, deve solo dimostrare la fonte (negoziale o legale) del proprio diritto e la sua esigibilità, gravando sul debitore l’onere di provare il proprio corretto adempimento, ovvero la sopravvenienza di fatti estintivi od impeditivi dell’altrui pretesa. Pur tuttavia, il debitore convenuto per l’adempimento che ai sensi dell’art. 1460 c.c. si avvalga dell’exceptio inadempleti contractus può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento, sicché in tale evenienza sarà il creditore che agisce a dover dimostrare il proprio esatto adempimento o la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione.

 

Sull’onere della prova nel rapporto di lavoro

Trib. Genova, Sez. lavoro, 17/10/2008
In materia di lavoro, ai fini del riparto degli oneri probatori, il lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, ha l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno anche la riconducibilità dello stesso all’ambiente di lavoro, specificamente individuando la violazione da parte del datore di lavoro di obblighi comportamentali imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica o dalla scienza medica; il datore di lavoro, ove tale prova venga fornita, ha, invece, l’onere di provare l’avvenuta adozione di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno alla salute dei propri dipendenti.

Cass. civ., Sez. lavoro, 25/07/2008, n.20484
La ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio – riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all’imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l’onere della prova negativa (nel caso di specie, relativo al riconoscimento del premio di produttività in relazione ai positivi risultati economici dell’impresa, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva valutato che l’andamento dell’azienda rientrava tra gli elementi suscettibili di conoscenza solo da parte dell’imprenditore, sul quale, pertanto, incombeva il relativo onere probatorio). (Rigetta, App. Roma, 27 aprile 2004)

Trib. Ariano Irpino, 23/07/2008
Il contratto di lavoro è suscettibile di risoluzione consensuale in base alle disposizioni del codice civile applicabili ai contratti in generale; la fattispecie negoziale può essere riscontrata anche in presenza non di dichiarazioni, ma di comportamenti significativi tenuti dalle parti ed in particolare di quei comportamenti coerenti alla situazione giuridica di inesistenza del rapporto. Il principio è stato più volte affermato proprio in relazione alla frequente ipotesi della scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, con cessazione della funzionalità di fatto del rapporto per una durata e con modalità tali da evidenziare il loro completo disinteresse alla sua attuazione e, quindi, il mutuo consenso in ordine alla cessazione di esso. È onere di colui che invoca l’effetto estintivo dare la prova della sussistenza degli elementi che inducono a ritenere perfezionata la fattispecie del mutuo consenso. La lunghezza dell’intervallo trascorso dalla scadenza del contratto alla contestazione della legittimità dell’estromissione dall’azienda non è elemento da solo sufficiente ad integrare la risoluzione consensuale del rapporto in assenza di altri elementi significativi.

Trib. Ariano Irpino, 14/10/2008
Il lavoratore che agisca in giudizio al fine di vedersi riconosciute delle maggiorazioni retributive, ovvero al fine di ottenere il pagamento di retribuzioni corrisposte solo parzialmente, è tenuto, ai sensi dell’art. 2697 c.c., unicamente a provare il fatto costitutivo della pretesa azionata, gravando sul datore di lavoro l’onere di provare il fatto estintivo o modificativo del diritto fatto valere.

Trib. Ariano Irpino, 13/10/2008
Il risarcimento del danno conseguente ad un comportamento illegittimo del datore di lavoro può consistere sia nel danno patrimoniale, derivante dall’impoverimento delle capacità professionali acquisite dal lavoratore, dalla mancata acquisizione di maggiori capacità, dal pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione (danno non patrimoniale in senso ampio). A causa, quindi, delle molteplici forme che tale danno può assumere si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore che deve precisare quale tra questi danni ritenga di aver subito e fornire tutte le precisazioni necessarie al fine di pervenire alla prova del danno. Per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale danno non va confinato nell’ambito del danno morale, del patema d’animo o pretium doloris, ma si fonda su un pregiudizio oggettivamente accertabile, attraverso la prova di scelte diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. Il danno esistenziale, essendo imprescindibilmente collegato alla persona, necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può dare. All’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi forniti dall’ordinamento processuale: deposito di documentazione, prova testimoniale. Quanto poi al ricorso alla prova per presunzioni, certamente la stessa opera ampiamente poiché il pregiudizio attiene ad un bene immateriale e si verte anche nell’ambito della prova di stati soggettivi rispetto ai quali la prova diretta è difficile; pur tuttavia per l’operatività della presunzione e, quindi, per poter risalire al fatto ignoto (danno) attraverso l’esame dei fatti noti, è sempre necessario che tali ultimi fatti vengano allegati in relazione alla fattispecie concreta e non facendo richiamo a circostanze e formule del tutto astratte e, quindi, di stile.

Cons. Stato, Sez. V, 07/10/2008, n.4881
Qualora il mancato godimento delle ferie sia imputabile all’Amministrazione, poiché il compenso sostitutivo ha natura risarcitoria, l’onere della prova si deve ritenere incomba su chi sostiene il “fatto” costitutivo del suo diritto, non essendo sufficiente provare di non aver usufruito delle ferie, ma occorrendo che il “fatto” sia ascrivibile all’Amministrazione e non all’inerzia del dipendente.

Trib. Benevento, Sez. lavoro, 30/09/2008
Il diritto al compenso per lavoro supplementare e/o straordinario è configurabile quando ne siano provati l’effettivo svolgimento e la relativa consistenza, essendo ammissibile il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 432 c.p.c., solo per determinare la somma spettante per prestazioni lavorative di cui sia stata accertata l’esecuzione e non anche per colmare le deficienze della prova concernenti l’esecuzione di tali prestazioni. La relativa prova in base alla generale regola di ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. grava sul lavoratore e deve rigorosamente riguardare sia l’orario normale di lavoro, ove diverso da quello legale, sia la prestazione di lavoro asseritamente eccedente quella ordinaria nonché la misura relativa, quanto meno in termini sufficientemente concreti e realistici senza possibilità per il giudice di determinarla equitativamente, ma soltanto con sua facoltà di utilizzare, con prudente apprezzamento, presunzioni semplici. Detta prova deve essere tanto più specifica e rigorosa allorquando si deduce un numero di ore di straordinario di così rilevante consistenza, con l’ulteriore precisazione che il dipendente deve anche provare di avere espletato l’orario normale di lavoro oltre che di avere proseguito l’attività lavorativa oltre il suddetto orario.

Trib. L’Aquila, 26/09/2008
In materia previdenziale spetta all’Inail provare gli elementi di fatto posti a base delle pretese volte ad ottenere il versamento dei premi che si assumono omessi, ancorché tali pretese siano state azionate con cartelle esattoriali, tale che nel relativo giudizio di fronte al giudice del lavoro il medesimo istituto è la parte sostanziale attrice sulla quale grava l’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. (nel caso in oggetto tale prova non è stata sufficientemente raggiunta).

Cass. civ., Sez. lavoro, 09/09/2008, n.22873
In tema di contributi previdenziali, nel regime giuridico precedente l’entrata in vigore dell’art. 25 della legge n. 223 del 1991, l’onere della prova dell’esistenza del diritto del lavoratore ad un credito verso il datore, per differenze retributive per un inquadramento diverso da quello pattuito, grava sull’INPS -che vi ha interesse in relazione alla sua pretesa di differenze contributive verso il datore-, senza che la richiesta di avviamento al lavoro presentata dal datore di lavoro possa far presumere il diverso inquadramento invocato rilevando al mero fine di ottenere l’avviamento nominativo dei lavoratori da assumere in luogo di quello numerico. (Nella specie, la sentenza impugnata aveva attribuito rilevanza determinante al contenuto del rapporto desumibile dalla richiesta di avviamento, dalla quale si desumeva che il rapporto dei lavoratori, occupati quali impiegati d’ordine, era in realtà relativo ad impiego di concetto; la S.C., nell’affermare il principio su esteso, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata). (Cassa con rinvio, App. Bologna, 30 marzo 2005)

Trib. Genova, Sez. III, 09/09/2008
In materia di prove, l’onere del convenuto, previsto dall’art. 416 c.p.c. per il rito del lavoro, e dall’art. 167 c.p.c. per il rito ordinario, di prendere posizione, nell’atto di costituzione, sui fatti allegati dall’attore a fondamento della domanda, comporta che il difetto dì contestazione implica l’ammissione in giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituisce argomento dì prova ai sensi dell’art 116, comma 2, c.p.c..

App. Potenza, 27/08/2008
Ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001 grava sul datore di lavoro che voglia fare ricorso alla stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato non solo l’onere di indicare specificamente le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustifichino il ricorso a siffatta fattispecie contrattuale, bensì anche e soprattutto quello di provare in giudizio l’effettiva e reale sussistenza di siffatto ordine di ragioni. Nella specie, se può dirsi soddisfatto il primo onere probatorio (avendo egli ricollegato la necessità del contratto a tempo determinato all’assenza dal servizio dell’addetto a recapito postale del Comune, in quanto assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro), lo stesso non può dirsi con riferimento all’onere probatorio in giudizio. Invero, non sono state provate le esigenze sostitutive come indicate in contratto, né la necessità di assumere a termine personale per far fronte all’esigenza di espletamento dal servizio in relazione ad assenze programmate, ovvero, le ragioni giustificatrici del ricorso al rapporto a termine nella loro effettiva temporaneità. Il difetto di prova in ordine a siffatte ragioni comporta l’illegittimità del ricorso al contratto a termine, con conseguente trasformazione dell’interrotto rapporto a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Cass. civ., Sez. lavoro, 13/08/2008, n.21586
In tema di rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze della P.A. il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione, il che lo differenzia dal recesso assoggettato al regime della legge n. 604 del 1996, fermo restando che l’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, che consiste nel consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca convenienza. Ne consegue che non sarebbero configurabili un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell’esperimento non risultassero adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova ovvero risultasse il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite, incombendo, comunque, sul lavoratore, l’onere di dimostrare la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento medesimo. (Rigetta, App. Trieste, 26 aprile 2005)

 

Onere della prova in tema di licenziamento

App. Potenza, Sez. lavoro, 11/07/2008
In materia di risoluzione di un rapporto di lavoro di tipo subordinato, laddove insorga una controversia in ordine alle concrete modalità di cessazione del rapporto medesimo (licenziamento o dimissioni) grava sul lavoratore unicamente la prova della sua estromissione dal rapporto lavorativo, mentre incombe sul datore provare le dimissioni del lavoratore. Ne deriva, pertanto, in ossequio al principio di cui all’art. 2697 c.c., che in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere di provare il requisito della forma scritta del licenziamento – siccome prescritto dalla legge a pena di nullità – resta a carico del datore di lavoro, atteso che nel quadro complessivo della normativa limitativa dei licenziamenti la prova gravante sul lavoratore concerne solo ed esclusivamente la intervenuta cessazione del rapporto lavorativo.

Trib. Milano, 01/07/2008
In tema di requisiti di legittimità del recesso spetta al datore di lavoro la dimostrazione che tutti i posti residui equivalenti a quello del lavoratore, dipendente licenziato, sono stabilmente occupati da altri lavoratori; non è comunque possibile gravare il datore di lavoro di una prova diabolica o negativa ed impossibile in forza del principio di creazione giurisprudenziale, non esistente nella legge ed informato al concetto estrema ratio del licenziamento, che per quanto giustificato dalla tutela costituzionale del lavoro e del singolo lavoratore trova un limite nella tutela anche della libertà d’impresa. Quindi tale onere inerente alla rigorosa prova dell’impossibilità di una diversa allocazione del licenziato va temperato con il richiedere che anche il lavoratore indichi circostanze di fatto utili a dimostrare o anche a far presumere l’esistenza, nell’ambito dell’azienda, di posti di lavoro cui poter essere adibito.

Cass. civ., Sez. lavoro, 19/02/2008, n.4068
Ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento, l’onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nell’ambito della organizzazione aziendale – concernendo un fatto negativo – deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi. Detto onere deve comunque essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sicché esso può considerarsi assolto mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva o indiziaria, con l’ulteriore precisazione che il lavoratore, pur non essendo gravato dalla relativa incombenza probatoria, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, a fronte del licenziamento del lavoratore preposto alla gestione della filiale della società in Genova, ha accertato – come tempestivamente dedotto dal lavoratore – che il datore di lavoro aveva provveduto ad assumere altro dipendente nella sede di Milano con la stessa qualifica del licenziato subito dopo il licenziamento e che altra assunzione, sempre per lo svolgimento delle medesime mansioni, era stata disposta nel periodo in cui la società aveva già programmato la chiusura della sede genovese). (Rigetta, App. Genova, 22 Giugno 2005)

Trib. Milano, 08/12/2007
In merito ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è onere del ricorrente di fornire la prova in ordine alla situazione di vulnus alla vita famigliare e di relazione temibile nell’arco della durata del giudizio ordinario. Inoltre è preferibile perché più conforme alla ratio dell’art. 700 c.p.c., l’orientamento secondo cui deve escludersi che in caso di licenziamento illegittimo il “periculum in mora” sussista “in re ipsa”.

App. Milano, 31/01/2007
Nell’ipotesi di controversia in ordine alla modalità di risoluzione del rapporto – nella quale il lavoratore assume di essere stato licenziato oralmente, mentre il datore di lavoro eccepisce che lo stesso ha dato le dimissioni – ai sensi dell’art. 2697 c.c., la mancanza di prova certa sulle dimissioni non può sopperire alla assoluta mancanza di prova del licenziamento verbale, poiché, altrimenti, si verificherebbe una sorta di inversione dell’onere della prova, dato che quella sull’avvenuto licenziamento incombe sul lavoratore.

Cass. civ., Sez. lavoro, 13/09/2006, n.19558
Il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, salvo che la motivazione sia imposta, a tutela del lavoratore, dalla contrattazione collettiva. Tuttavia, in nessun caso lo stesso obbligo di motivazione può comportare la configurabilità dell’onere del datore di lavoro di provare la giustificazione del proprio recesso dal rapporto di lavoro in prova, in quanto ne risulterebbe la omologazione integrale al rapporto di lavoro definitivo, in palese contrasto con il sistema normativo costituito dall’art. 2096 cod. civ. e dagli artt. 5 e 10 della legge n. 604 del 1966. (Rigetta, App. Brescia, 2 Maggio 2003)

Trib. Milano, 06/05/2006
Il licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza per esito negativo della prova non è illegittimo in relazione alla recente normativa sulla tutela della maternità e paternità (da ultimo, art. 54, D.Lgs. n. 151/2001) che ha introdotto, tra le deroghe al divieto di licenziamento della lavoratrice madre, l’esito negativo della prova, pur facendo salve le disposizioni sul divieto di discriminazione con particolare riferimento all’art. 4 della legge n. 125/1991. Il richiamo di tali ultime disposizioni, infatti, conferma che non è sufficiente un collegamento meramente cronologico tra maternità e licenziamento a fondare la tesi della discriminazione, ma occorre invece che il lavoratore che assume di essere stato discriminato fornisca elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico relativi ai vari atti di competenza del datore di lavoro – idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza della discriminazione, scaricando, così, sul datore di lavoro l’onere di provare che discriminazione non c’è.

Cass. civ., Sez. lavoro, 19/04/2006, n.9056
Il dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 cod. civ., si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall’art. 2598 cod. civ. . Nell’ipotesi di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per assunta violazione del suddetto dovere di fedeltà, incombe al datore di lavoro l’onere di riscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzata l’infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta di inaffidabilità tale da legittimare la sanzione del licenziamento. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata accolta l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di un medico dipendente di una struttura sanitaria privata, sul presupposto del sistematico sviamento della clientela della struttura medesima presso altri laboratori per indagini soprattutto sugli allergeni, senza che, però, fosse emersa un’idonea prova, incombente sulla datrice di lavoro, sui singoli casi comportanti la violazione ripetuta dell’obbligo di fedeltà, anche in considerazione della circostanza che l’avviamento di pazienti presso altri istituti privati poteva essere in ipotesi giustificato dalla inidoneità del laboratorio appartenente all’azienda da cui dipendeva il lavoratore ad effettuare particolari complessi tipi di analisi e dalla necessità di osservare tempi più brevi per lo sviluppo di altre indagini). (Rigetta, App. Roma, 9 Febbraio 2004)

Cass. civ., Sez. Unite, 10/01/2006, n.141
Nel giudizio di impugnazione del licenziamento di lavoratore subordinato, il lavoratore è tenuto a provare soltanto i fatti costitutivi del proprio diritto alla reintegrazione, vale a dire l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo. Laddove invece sia controversa l’applicabilità dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e in particolare sia controverso il requisito quantitativo del personale del datore di lavoro, di cui al comma 1 di tale norma (nel testo modificato dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108), l’onere di provare la sussistenza del detto requisito grava in ogni caso sul datore di lavoro, a prescindere dalla di lui posizione processuale (di attore o di convenuto); tale ripartizione dell’onere della prova si ricava in via interpretativa dal rapporto regola-eccezione che intercorre sul piano sostanziale tra risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente, regola che, valida sul piano generale, serve a maggior ragione nel diritto del lavoro non solo perché qualsiasi normativa settoriale non deve derogare al sistema generale senza necessità, ma anche perché il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale limitazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma.

Cass. civ., Sez. lavoro, 14/07/2005, n.14816
Nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso;in particolare, ai fini dell’accertamento dell’intento ritorsivo del licenziamento, non è sufficiente la deduzione dell’appartenenza del lavoratore ad un sindacato, o la sua partecipazione attiva ad attività sindacali, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escludersi la finalità ritorsiva del licenziamento.