Corte d’Appello di Firenze, 7 luglio 2015
Le condotte aggressive e le pressioni della superiore della lavoratrice, successivamente al rientro dalla maternità, costituiscono discriminazioni di genere che vanno accertate tenendo conto anche della versione della lavoratrice interessata, da valutare nel quadro degli elementi probatori raccolti. Il datore di lavoro e l’autrice della condotta discriminatoria vanno condannati al risarcimento del danno non patrimoniale, suscettibile di liquidazione in via equitativa.
La sentenza segnalata si diffonde in una attenta ricostruzione dei fatti prodottisi a danno di una lavoratrice che aveva partorito due gemelli e, al rientro in azienda, aveva subito pesanti condotte di discriminazione da parte della propria superiore gerarchica, miranti a fare in modo che si dimettesse. La pronuncia appare apprezzabile soprattutto per lo sforzo di ricostruzione del quadro probatorio, terreno che rappresenta sempre la maggiore difficoltà per chi vuol far valere in giudizio condotte discriminatore (come nello stesso caso qui giudicato, che aveva visto la lavoratrice soccombente in primo grado). Osserva giustamente la Corte che la lavoratrice madre, soprattutto nel settore privato, si trova a dover spesso ricontrattare con il datore i tempi del lavoro, per farli coincidere con le esigenze di cura familiare: una condizione di particolare debolezza negoziale e psicologica, che merita anche in sede giudiziaria un approfondimento particolarmente attento.