Corte di cassazione, ordinanza 20 novembre 2017 n. 27444
Quando la deduzione di mobbing si rivolge contro il dipendente.
Come è noto, la figura giuridica del mobbing lavorativo non è disciplinata dalla legge, ma costituisce il frutto di una elaborazione giurisprudenziale – sulla scia di acquisizioni da parte di altre scienze – con la finalità di ricomprendere tra i fatti illeciti che possono recar danno al lavoratore anche comportamenti datoriali altrimenti legittimi, quando questi siano legati ad altri dall’elemento unificatore dell’intento persecutorio, che il dipendente deve provare in giudizio. Non sempre però viene fatto buon uso di tale istituto, come dimostra la vicenda in esame. Un dipendente lamentava di essere stato lasciato ripetutamente inattivo per lunghi periodi e chiedeva pertanto la condanna del datore di lavoro ai danni patrimoniali e non subiti. Qualificati i fatti costitutivi della domanda come mobbing, i giudici l’hanno respinta, affermando, per quello che qui interessa, che comunque il dipendente non aveva provato l’intento persecutorio. Ebbene, se nella situazione data la domanda fosse stata correttamente qualificata come inadempimento agli obblighi di cui all’art. 2087 cod. civ., sarebbe stato viceversa il datore a dover provare di avere adottato tutte le misure necessarie e possibili per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, in ipotesi lese dai lunghi periodi di inattività in servizio.
Sezione: rapporto di lavoro pubblico e privato