No alla riduzione della retribuzione dei magistrati
Corte costituzionale, sentenza 28 luglio 2025 n. 135
Col D.L. n. 201 del 2011 venne stabilito, per i dipendenti pubblici, un massimale retributivo, rapportato allo stipendio complessivo del primo presidente della cassazione (circa 311.000 euro annui). Successivamente, con D.L. n. 66 del 2014, tale importo massimo venne ridotto a 240.000 euro. Sospettate di incostituzionalità, le due norme vennero rimesse alla Corte costituzionale nel giudizio promosso da un presidente di sezione del Consiglio di Stato che si era visto ridurre per gli anni 2014 e 2015 i propri compensi, che superavano il tetto indicato perché comprendevano anche l’indennità per la carica di membri dell’organo di autogoverno ricoperta dall’interessato. Con la sentenza in commento, la Corte ha ritenuto non fondate le questioni di costituzionalità delle due disposizioni in riferimento all’art. 104, quarto comma Cost. Ha viceversa ritenuto fondata, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, la questione relativa alla norma del decreto n. 66/2014, in riferimento all’art. 108, secondo comma Cost. e al principio di indipendenza della magistratura di cui agli artt. 101, secondo comma e 104, primo comma Cost. Il secondo intervento legislativo incide infatti, riducendola, sulla retribuzione del magistrato, alla quale va riconosciuta la funzione di garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura, espressione della divisione dei poteri, costituente l’architrave dello Stato di diritto. Come tale, l’intangibilità della retribuzione sopporta unicamente deroghe temporanee e per casi eccezionali. La dichiarazione di incostituzionalità, nei termini indicati, consegue quindi al venir meno della temporaneità dell’intervento derogatorio, operativo da oltre dieci anni.