Dequalificazione nel pubblico impiego contrattualizzato

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Questa voce è stata curata da Giorgio Albani

 

 

Scheda sintetica

Anche il lavoratore pubblico privatizzato ha il diritto di essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto o equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive.

 

Fonti normative

  • D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (art. 52 come modificato dal D.Lgs. 150/2009)
  • Contrattazione collettiva

 

 

Cosa fare – Tempi

La giurisdizione relativa alla dequalificazione spetta al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro.
Sarà pertanto necessario rivolgersi con la documentazione utile e con una descrizione dettagliata dei compiti e delle funzioni svolte al sindacato o ad un avvocato giuslavorista.
Va tenuto presente che ai fini della valutazione della dequalificazione la stessa deve protrarsi per un periodo di tempo significativo (almeno qualche mese).

 

Scheda di approfondimento

L’art. 62 del D.Lgs. 150 del 27 ottobre 2009 ha approntato modifiche alla disciplina (già contenuta nel D.Lgs. 29/1993 e, da ultimo, all’articolo 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) relativa alle mansioni dei pubblici dipendenti.
L’art. 52 del D.Lgs. 165 come modificato dal D.Lgs. 150/2009 stabilisce infatti che “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a)”.

Diversamente da quanto previsto per il settore privato, ove il parametro dell’equivalenza (intesa come insieme delle abilità, capacità ed esperienze professionali acquisite nello svolgimento del lavoro) è costituito anche dalle ultime mansioni effettivamente svolte (art. 2103 c.c.), nel lavoro pubblico queste non hanno rilievo di per sé, sicché il parametro resta quello delle mansioni di assunzione o di quelle equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento, ovvero di quelle corrispondenti alla qualifica superiore successivamente acquisita a seguito di procedure selettive.
Va peraltro notato che nella versione dell’art. 52 modificata dal D.Lgs. 150/2009 è stato eliminato, con riferimento alle mansioni, il participio “considerate” equivalenti dalla contrattazione collettiva, circostanza che la prevalente giurisprudenza aveva ritenuto un limite alla possibilità per il giudice di valutare le mansioni a confronto qualora fossero relative alla medesima area professionale, ritenendosi, altresì, che la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici non abbia fatto venire meno la peculiarità del datore di lavoro pubblico e che il riferimento all’aspetto soggettivo del concetto di professionalità “mal si concilii con le esigenze di certezza di corrispondenza tra mansioni e posto in organico alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico”.

L’affermazione contenuta nella contrattazione collettiva secondo la quale “sono esigibili tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti” è stata, infatti, interpretata dalla prevalente giurisprudenza come impossibilità di sindacare l’equivalenza delle mansioni ove relative alla medesima area funzionale previste dalla maggior parte dei contratti in numero massimo di quattro.
La nozione di equivalenza che si applica nel pubblico impiego resta, pertanto, di tipo formale.
Ciò non impedisce, tuttavia, di agire in giudizio nel caso di palese violazione del principio di equivalenza (pur con i limiti sopra indicati), sia qualora il lavoratore sia assegnato allo svolgimento di mansioni appartenenti ad un’area differente da quella di inquadramento sia, soprattutto, allorché il dipendente sia destinato a mansioni comportanti uno svuotamento sostanziale dell’attività lavorativa.
In questa seconda ipotesi, infatti, come rilevato anche dalla giurisprudenza della S.C. (ad. esempio Cass. 21 maggio 2009 n. 11835) si esula dalle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale, e quindi rilevante, delle funzioni da svolgere, certamente vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (cfr. ad esempio cass. 11 maggio 2010 n. 11405).

Altra ipotesi affrontata dalla giurisprudenza è quella relativa alla revoca degli incarichi dirigenziali ampiamente disciplinati dall’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 (anch’esso riscritto dal D.Lgs. 150/2009) il quale procedimentalizza l’esercizio del potere di conferimento degli incarichi, obbligando l’amministrazione a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte.
Poiché il datore di lavoro pubblico è tenuto ad esercitare il potere di conferire incarichi osservando regole di correttezza e buona fede, la condotta contraria dell’amministrazione integra gli estremi di un inadempimento contrattuale e di una dequalificazione professionale produttivi di un danno risarcibile (Cass. 30 dicembre 2009 n. 27888).

 

Rilievi critici rispetto alla impostazione giurisprudenziale fino ad ora prevalsa

L’impostazione sopra riferita, fedele al dato normativo che invoca una comparazione esclusivamente formale/oggettiva, ci sembra tuttavia ormai anacronistica e per nulla in linea con lo spirito e gli scopi delle recenti, profonde, mutazioni verificatesi nell’ambito della disciplina del pubblico impiego.
Si fa in primo luogo riferimento allo stesso D.Lgs. 165/2011, art. 1 e al D.Lgs. 150/2009 che hanno come principali scopi il razionale utilizzo delle risorse umane visto come funzionale al buon andamento della pubblica amministrazione, nonché la “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e l’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”.
Ebbene, per fare solo un rapidissimo excursus di esemplificazioni, in un rapporto in cui è oggi sempre più ritenuto necessario assicurare “elevati standard qualitativi ed economici del servizio tramite la valorizzazione dei risultati e della performance organizzativa e individuale” (art. 2, D.Lgs. 150/2009), “la massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione delle performance” (art. 11), in cui si intende valorizzare il merito e la qualità della prestazione lavorativa” (art. 17) in cui si favorisce “la crescita professionale e la responsabilizzazione dei dipendenti pubblici ai fini del continuo miglioramento dei processi e dei servizi offerti” (art. 25) non sembra esserci più spazio per spostamenti e modifiche di mansioni che non siano rispettose, oltreché del dato formale/oggettivo, anche del dato sostanziale/soggettivo.
Sarebbe infatti molto incoerente sostenere da un lato le ragioni dell’efficienza, ottimizzazione, trasparenza e produttività e poi modificare le mansioni del lavoratore dipendente pubblico senza valorizzarne il bagaglio professionale, l’esperienza maturata e la professionalità concretamente acquisita.

A tali considerazioni va anche ad aggiungersi che, sempre negli ultimi anni, sono intervenute significative disposizioni in tema di benessere organizzativo nell’ambito della pubblica amministrazione.
Si fa in primo luogo riferimento alla direttiva 24 marzo 2004, emanata dal Dipartimento della Funzione Pubblica che punta alla realizzazione ed al mantenimento del “benessere fisico e psicologico delle persone, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e delle prestazioni”. In tale direttiva si afferma che per lo sviluppo e l’efficienza delle amministrazioni, le condizioni emotive dell’ambiente in cui si lavora, la sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la creatività e l’apprendimento, l’ergonomia – oltre che la sicurezza – degli ambienti di lavoro, costituiscano elementi di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo e dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche. Ed ancora si dice che “per migliorare le prestazioni e gli effetti delle politiche pubbliche, è importante offrire agli operatori la possibilità di lavorare in contesti organizzativi che favoriscono gli scambi, la trasparenza e la visibilità dei risultati del lavoro, in ambienti dove esiste un’adeguata attenzione agli spazi architettonici, ai rapporti tra le persone e allo sviluppo professionale”.
Analogamente, l’art. 21 della L. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) stabilisce l’istituzione dei Comitati Unici di Garanzia atti a garantire pari opportunità, il benessere di chi lavora e l’assenza di discriminazioni nelle amministrazioni pubbliche.
Alla luce delle considerazioni e le innovazioni normative brevemente richiamate, non si vede come la trasparenza, l’efficienza, la produttività del lavoro pubblico da una parte e il benessere organizzativo dall’altra, affinché non restino solo proclamati sulla carta, possano prescindere dalla valorizzazione dell’esperienza maturata dal dipendente pubblico sul piano sostanziale/soggettivo.

 

Sul danno professionale

L’accertata violazione dell’art. 52 del D.Lgs. 165/2001 comporterà la condanna dell’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nella posizione precedente o in altra ad essa equivalente, nonché al risarcimento del danno professionale provocato dall’illegittimo demansionamento subito sia sotto il profilo patrimoniale del lucro cessante (ad esempio perché la nuova posizione non ha consentito al dipendente di percepire retribuzioni che invece gli sarebbero state corrisposte in quella precedentemente occupata) sia sotto il profilo non patrimoniale.
In relazione a tale seconda voce di danno la più recente giurisprudenza della S.C. (cfr. Cass. Sez. Un. 26972/2008) ha ritenuto che il danno non può ritenersi implicito nella dequalificazione, ma che sia onere del lavoratore allegare e provare in maniera rigorosa, utilizzando tutti i mezzi di prova consentiti (e, quindi, anche attraverso il ricorso alle presunzioni) il pregiudizio derivante dall’impoverimento della propria capacità professionale e come tutto ciò abbia inciso in senso negativo sulla sfera del lavoratore alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita.

 

Approfondimenti – Voci correlate

Per approfondimenti specifici si rinvia alle seguenti voci:

 

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di dequalificazione

Si veda la parte specifica relativa al pubblico impiego contenuta nella voce Dequalificazione