Straining

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Questa voce è stata curata da Annalisa Rosiello

Scheda sintetica – Definizione

Benché venga spesso utilizzato il concetto di mobbing quale espressione per definire ogni situazione di malessere e disagio sul luogo di lavoro, nell’ambito clinico e anche – più recentemente – nel panorama giuridico (prevalentemente giurisprudenziale ma anche normativo) si sono con maggiore precisione delineate figure differenti e maggiormente specifiche a descrizione delle varie situazioni di conflittualità lavorativa che danneggiano il lavoratore, ma anche l’organizzazione aziendale così come, in senso più ampio, la collettività.

Una tra queste è lo straining, categoria mutuata anch’essa dalla scienza medica e così sintetizzabile: mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità, lo straining, in via parzialmente coincidente ma in parte diversa, è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante” (Ege, Oltre il mobbing, Straining, Stalking ed altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, pag. 70 e segg.).

Lo straining è stato per la prima volta definito anche in sede giurisprudenziale (Trib. Bergamo, 21 aprile 2005, Bertoncini est.) che, dopo aver disposto una consulenza tecnica nominando il dott. Ege, ha richiamato i principi distintivi sopra riportati ed ha concluso che per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento, di marginalizzazione, o di svuotamento di mansioni).

Fonti normative – Obblighi di prevenzione

In termini civilistici l’incidenza dello straining sul contratto di lavoro deriva essenzialmente dalla violazione dell’art. 2087 c.c. combinata, più di frequente, con l’art. 2103 c.c.

La prima norma, da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza l’obbligo contemplato dalla norma non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, implicando altresì il dovere dell’azienda di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.

Da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento di tal fatta posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa.

Così come accade per il mobbing, anche nel caso dello straining, qualora possa essere ricondotto ad un fattore discriminante (razza, etnia, sesso, religione, orientamento sessuale, handicap, ecc.) sono richiamabili i (D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003 e D.Lgs. 145/2005e d.lgs 198/2006, come modificato dal d.lgs. 5/2010 che descrivono le molestie morali come quei comportamenti indesiderati posti in essere per i fattori discriminanti sopra esemplificati “aventi lo scopo o (anche semplicemente, ndr.) l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo”.

Inoltre, se la condotta marginalizzante che integra lo straining è costituisce l’effetto di uno o più episodi di molestie sessuali, potrà essere invocato il D.Lgs. 145/2005 (v. anche voce Mobbing di genere).

Si segnala infine che, in seguito alle modifiche dell’art. 2103 per mano del c.d. Jobs act e in particolare del d.lgs. 81/2015, chiaramente, non risulta toccato questo istituto che, normalmente, passa dal completo o importante svuotamento di mansioni, sempre e comunque illecito.

E sempre alla luce delle riforme complessivamente introdotte dal Jobs act nel 2014-2015, prevalentemente in tema di disciplina dei licenziamenti, di mansioni e di controlli potrebbe verificarsi che il datore di lavoro utilizzi impropriamente le nuove norme e in particolare l’art. 2103 per compiere “mobbing generazionale” (qui il termine mobbing è utilizzato in senso lato) ovvero per colpire personale più garantito (che magari fruisce dei permessi ex lege 104, oppure dei permessi legati a genitorialità, o sindacali o politici) per far luogo, una volta portata a termine “l’impresa”, a personale meno garantito (ovvero assunto dopo il 7 marzo 2015). Si pensi ad esempio al caso in cui l’azienda assegni al dipendente mansioni equivalenti sul piano formale, ma nell’ambito di un reparto isolato e sgradito. Benché alla luce delle nuove norme l’assegnazione potrebbe risultare valida, il lavoratore potrebbe segnalare – se presenti – eventuali intenzioni ritorsive, vessatorie o altrimenti punitive che – alla luce dell’art. 15 dello statuto dei lavoratori – renderebbero anche oggi e comunque nullo lo spostamento.

Tra le fonti normative a disciplina della materia – e specificamente in tema di prevenzione del fenomeno – merita infine specifico richiamo la Legge 3 agosto 2007, n° 123, ed il D.Lgs. 9 aprile 2008, n° 81 . e la legge 183/2010, che all’art. 21 ha previsto i Comitati Unici di Garanzia atti a garantire pari opportunità, benessere di chi lavora e assenza di discriminazioni delle amministrazioni pubbliche.

Tali disposizioni hanno previsto la valorizzazione di accordi aziendali, territoriali e nazionali nonché, su base volontaria, dei codici di condotta ed etici e delle buone prassi che orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, al fine del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente (Legge 3 agosto 2007, n° 123, art. 1, lett. l); inoltre l’oggetto della valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi (D.Lgs. 9 aprile 2008, n° 81 art. 28).

Il mancato rispetto di tale ultima disposizione espone l’azienda a conseguenze sanzionatorie sia civili che penali.

Infine il 9 giugno 2008 è stato firmato dalle parti sociali l’Accordo interconfederale per il recepimento dell’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004 di cui lo straining è una delle più gravi manifestazioni.

Cosa fare – A chi rivolgersi – Tempi

Anche la vittima di straining può incorrere in serie difficoltà a livello esistenziale fino ad arrivare a disturbi di adattamento e/o patologie di tipo cronico.

Occorre dunque che la stessa affronti un percorso clinico tramite centri specializzati nelle patologie legate allo stress ed alle disfunzionalità organizzative e/o tramite figure professionali quali lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra.

È di estrema importanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo)

Sul piano legale è importante rivolgersi al sindacato o ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di disfunzionalità.

È importante, relativamente ai tempi, affrontare il percorso clinico contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

L’azione risarcitoria si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).

Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente, sia per prevenire l’aggravarsi dei danni, sia per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.

Documenti necessari

Dal punto di vista documentale, è importante acquisire eventuali lettere di contestazione, mail dal contenuto offensivo, ordini di servizio non attinenti al ruolo e ogni documento che possa essere utile per ricostruire la fattispecie.
Con riguardo alla documentazione medica, molto importanti sono i certificati del medico di base (per attestare la data di inizio dei disturbi), i certificati dei clinici (psicologo, psichiatra, CTS, Clinica del lavoro, ecc.) e la perizia medico-legale sul danno biologico.

Richieste sanzionatorie e danni risarcibili

La fattispecie dello straining si realizza ogni qual volta vi siano le condotte marginalizzanti con le caratteristiche sopra definite, a prescindere dal verificarsi di conseguenze dannose.

La prima richiesta sanzionatoria riguarda la condanna dell’azienda a cessare la condotta marginalizzante e discriminatoria nei riguardi del lavoratore e ad adottare ogni misura atta ad evitare il perpetuarsi della situazione.
E’ tuttavia pressoché la norma che situazioni di straining ingenerino danni alla persona oltreché patrimoniali.

Con riguardo ai danni patrimoniali, possono essere esposte le spese mediche affrontate, se in relazione con la situazione di straining, nonché – qualora allo straining consegua la perdita del posto di lavoro per licenziamento o per dimissioni conseguono i relativi danni in base alla legge.

Si precisa che qualora, nel caso di superamento del periodo di comporto, risulti comprovato che le assenze del lavoratore siano derivate dalla situazione di straining non si computano ai fini del comporto.

Passando ad esaminare le distinte poste di danno non patrimoniale, la prima voce risarcitoria che viene normalmente richiesta nei casi in esame è il danno esistenziale o danno alla vita sociale, di relazione (rappresenta il “non fare più” o il “non aver fatto” in conseguenza degli illeciti aziendali) che la giurisprudenza considera pacificamente risarcibile in casi di straining e marginalizzazione.

Al riguardo la pronuncia delle SU 11 novembre 2008, n° 26972 enuncia la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua componente di danno alla vita di relazione (o esistenziale) in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili di portata costituzionale, quali quelli, espressamente richiamati, di violazione dell’art. 2087 c.c..

Il dovere di protezione stabilito da tale articolo, infatti, è fondato sugli artt. artt. 32, 1, 2, 4 e 35 della Costituzione, che tutelano la salute e la dignità personale del lavoratore. Ed è evidente che in casi di straining tali diritti vengono fortemente lesi.

La seconda voce (o sotto-categoria) di danno non patrimoniale di cui si chiede comunemente il ristoro è il danno morale che rappresenta la sofferenza d’animo (il sentire dolore) conseguente agli illeciti aziendali.

Fino ad un certo momento, la Suprema Corte ha affermato che il risarcimento del danno morale dovesse riconoscersi in favore del soggetto danneggiato per lesione del valore della persona umana costituzionalmente garantito, a prescindere dall’accertamento di un reato in suo danno (per tutte Cass. 21 giugno 2006, n° 14302).Un passaggio della sentenza delle SU del 2008, al contrario, parrebbe ancorarlo al fatto di reato, anche se non appaiono pienamente chiare le intenzioni (“viene in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale”).

Si sottolinea peraltro che in molte ipotesi di disfunzionalità organizzativa è possibile individuare delle ipotesi delittuose ed anche la giurisprudenza penale comincia ad intervenire in maniera significativa per la repressione di tali condotte (v. in proposito Cass. Sez. 6° penale, sentenza 21 settembre 2006, n° 31413, riguardante il mobbing di massa della Palazzina Laf dell’Ilva di Taranto e la condanna di undici manager per i reati di violenza privata e frode processuale, con conseguenze risarcitorie nei confronti delle vittime, tutte iscritte al sindacato, ed anche nei confronti del sindacato costituitosi parte civile; v. anche Cass. Pen. 7 ottobre 2015, n° 40320; Cass. Pen. 6 febbraio 2009, n° 26594 che ritengono sussumibili gli atti vessatori, nei casi più gravi, nell’ambito del delitto di maltrattamenti).

Per soddisfare quello che parrebbe dunque il recente mandato delle SU in tema di danno morale, il lavoratore potrebbe in ogni caso chiedere l’accertamento incidentale di tali ipotesi di reato quale premessa per rivendicare il danno morale.

La terza e ultima voce che viene esposta in tali casi è il danno biologico ovvero la lesione dell’integrità psicofisica clinicamente accertabile.

Oneri di allegazione e di prova della fattispecie

Nei casi di straining, consistenti molto di frequente in azioni di completo svuotamento di mansioni e ruoli, il lavoratore ha l’onere di individuare le mansioni di assunzione e le ultime effettivamente svolte nonché allegare l’inadempimento dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 2087 c.c., ovvero l’assegnazione a mansioni dequalificanti, fornendone una descrizione utile ad una comparazione (in negativo).

Spetta invece al datore di lavoro allegare e dimostrare, in base all’art. 1218 c.c. cosa in concreto ha svolto il lavoratore nel periodo oggetto di contestazione nonché di aver garantito, direttamente o tramite fattiva vigilanza e intervento sull’operato dei collaboratori, la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087 c.c.., ovvero la prova dell’esatto adempimento o la non imputabilità dell’inadempimento (v. anche, più diffusamente sul punto, la voce mobbing).

Vi è poi da ricordare che qualora lo straining derivi da un fattore discriminante (razza, etnia, sesso, religione, orientamento sessuale, handicap, ecc.) sono richiamabili il D.Lgs. 215/2003, il D.Lgs. 216/2003 e il D.Lgs. 198/2006 che descrivono le molestie morali come quei comportamenti indesiderati posti in essere per i fattori discriminanti sopra esemplificati “aventi lo scopo o (anche semplicemente, ndr) l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo”.

In tali casi, infatti, il lavoratore deve allegare le circostanze indicatrici della discriminazione ma è aiutato da un regime di prova agevolato, dato che i D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003 e il D.Lgs. 198/2006 introducono una parziale inversione dell’onere della prova.

 

Oneri di allegazione e di prova dei danni

Si veda il paragrafo “Oneri di allegazione e di prova dei danni” alla voce Mobbing.

 

Rinvio ad altre voci per approfondimenti

Si vedano per riferimenti specifici anche le voci: