Corte di cassazione, sentenza 26 maggio 2016 n. 10950 – 1) La proporzionalità della sanzione disciplinare (nella specie, licenziamento) deve essere valutata dal giudice anche d’ufficio. 2) Inammissibili, se svolte per la prima volta in appello, le argomentazioni difensive in fatto.
La mancata motivazione della sentenza su di una questione di diritto non comporta la sua cassazione se il dispositivo è comunque corretto.
Nel caso esaminato, i giudici dell’appello avevano dichiarato di non procedere alla valutazione circa la proporzionalità o non del licenziamento rispetto agli addebiti, perché il dipendente non ne aveva fatto uno specifico motivo di reclamo/appello. Nel censurare la pronuncia, la Cassazione ribadisce la propria costante giurisprudenza relativamente alla coessenzialità dell’elemento della proporzionalità rispetto alla nozione di giustificatezza del licenziamento o di altra sanzione disciplinare, con la conseguenza che alla relativa valutazione il giudice deve procedere anche se sul punto non vi sia stata una specifica censura da parte del lavoratore.
Quanto alla seconda massima, il ricorrente aveva dedotto, per la prima volta in appello, il fatto che in azienda esisteva una prassi di tolleranza del comportamento a lui contestato. La Corte, pur escludendo che tale deduzione difensiva costituisca un’eccezione in senso stretto, afferma la sua tardività, in quanto deduzione in fatto non svolta già in primo grado.
Sulla terza massima l’orientamento della cassazione è prevalente, riconoscendosi alla Corte medesima comunque il potere di correggere in diritto la motivazione della sentenza impugnata.
Sezione: processuale