Contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (CTC)

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Questa voce è stata curata da Alexander Bell

 

Scheda sintetica

Il 7 marzo 2015 è entrato in vigore il Decreto legislativo n. 23/2015, attuativo del c.d. Jobs Act (Legge n. 183 del 2014), riguardante il “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” (C.T.C.).

A dispetto del nome, il decreto in parola non introduce una nuova tipologia contrattuale , bensì un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato a sostituire la disciplina prevista dall’art. 18 della Legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori); detto regime non avrà valenza generale, ma verrà applicato ai soli lavoratori che verranno assunti a tempo indeterminato, come operai, impiegati e quadri, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 aprile 2015).

Rispetto alle tutele offerte dall’art. 18, peraltro già fortemente depotenziate dalla riforma del 2012 (c.d. Legge Fornero) – che, com’è noto, ha introdotto quattro diversi regimi di tutela, graduati in base al tipo di vizio che affligge il licenziamento –, la nuova disciplina restringe ulteriormente le ipotesi di reintegrazione del lavoratore, individuando nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo.
L’espressione “tutele crescenti” fa in particolare riferimento alle modalità di calcolo di detta indennità, il cui ammontare è parametrato all’anzianità di servizio maturata dal dipendente al momento del licenziamento.
Sul punto è recentemente intervenuto il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. in l. 9 agosto 2018, n. 96, che, pur lasciando inalterato l’impianto del regime sanzionatorio, ha innalzato la misura dell’indennità da corrispondere ai lavoratori.

In base alla nuova disciplina attualmente vigente, la reintegrazione resta solo per:

  • i licenziamenti discriminatori;
  • i licenziamenti nulli per espressa previsione di legge;
  • i licenziamenti orali;
  • i licenziamenti in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore;
  • i licenziamenti disciplinari in relazione ai quali sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

Il decreto si occupa anche dei dipendenti dei datori di lavoro che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18, introducendo un sistema di tutele che, rispetto a quello applicato ai lavoratori delle imprese di maggiori dimensioni, esclude la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e prevede un’indennità risarcitoria dimezzata.
Tra le novità introdotte dal decreto c’è anche una nuova procedura conciliativa , che ha l’obiettivo di rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, e che prevede l’immediato pagamento, da parte del datore di lavoro, di un indennizzo in una misura compresa tra 3 e 27 mensilità. Per favorire questo tipo di soluzione, il legislatore ha peraltro previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.
Ancora sotto il profilo procedurale, il decreto stabilisce che ai nuovi assunti non si applica la preventiva procedura di conciliazione davanti all’Ispettorato territoriale del lavoro , introdotta dalla riforma del 2012 per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Infine, il decreto prevede altresì che ai licenziamenti intimati nel nuovo regime non si applica il c.d. rito Fornero, introdotto anch’esso dalla Legge 92 del 2012, che tanti problemi interpretativi e pratici ha posto e pone tuttora ai giudici e alle parti.

 

Cosa prevede la nuova disciplina

Con il decreto legislativo n. 23/2015, sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, il Governo ha cominciato a dare attuazione al c.d. Jobs Act (Legge n. 183 del 2014), introducendo un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato dapprima ad affiancare e quindi a sostituire il sistema di tutele previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
In base alla nuova disciplina, il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto, nella maggior parte dei casi, a percepire esclusivamente un indennizzo economico; la tutela reintegratoria viene invece limitata a poche e residuali ipotesi.

 

Le ipotesi di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro

Il decreto legislativo 23/2015 stabilisce che il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nei soli casi di:

  • licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della Legge n. 300 del 1970 (art. 2, co. 1);
  • licenziamento nullo per espressa previsione di legge (art. 2, co. 1);
  • licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (art. 2, co. 1, ult. parte);
  • licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, co. 4);
  • licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2).

Nelle prime quattro ipotesi (licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore ), il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore, anche al pagamento di un’ indennità a favore di quest’ultimo e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali .
L’indennità è commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrisponde al periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso, l’indennità non può essere inferiore a cinque mensilità .
Fermo restando il diritto a percepire la suddetta indennità, al lavoratore è attribuita la facoltà di sostituire la reintegrazione nel posto di lavoro con un ulteriore indennizzo economico , pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, purché effettui la relativa richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. L’indennità sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa , rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’ insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali , e il dipendente ha diritto di percepire un’ indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. A tale indennità, tuttavia, andrà dedotto non solo l’ aliunde perceptum, ma anche le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). Inoltre, l’indennità non potrà essere superiore a dodici mensilità (mentre non è prevista un’entità minima, come invece stabilito per le altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace).

 

Le ipotesi in cui al lavoratore spetta il solo indennizzo economico

Fuori delle suddette ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 6 e le 36 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).
Più in particolare, l’art. 3, co. 1, del decreto stabilisce che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per giustificato motivo soggettivo¬ o per giusta causa, allorché il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).
In ogni caso, l’indennità non potrà essere inferiore a 6 mensilità, né potrà superare le 36 mensilità.
Ai sensi dell’art. 10, il medesimo regime sanzionatorio (indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, comunque ricompresa tra 6 e 36 mensilità) trova applicazione anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (in particolare, le procedure richiamate all’art. 4, co. 12, Legge 223 del 1991) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, co. 1, Legge 223 del 1991).
Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione del requisito della motivazione (art. 2, co. 2, legge 604 del 1966) o per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori .
In questi casi, tuttavia, l’indennità risulta dimezzata : sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.

 

Le novità relative ai dipendenti dei datori di lavoro che non soddisfano i requisiti dimensionali dell’art. 18 della Legge 300 del 1970

Il decreto sul contratto a tutele crescenti si occupa anche dei dipendenti presso strutture che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18.
In particolare, l’art. 9 del decreto legislativo 23 del 2015 prevede che, nei confronti di tali lavoratori, trovi applicazione il medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Vale a dire che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore occupato presso un datore di lavoro minore, la reintegrazione varrà solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore .
Negli altri casi, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico, pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio e con un limite massimo di 6 mensilità .

 

A chi si applica la nuova disciplina

Per espressa indicazione del legislatore, il nuovo regime non avrà valenza generale, ma verrà applicato ai soli lavoratori che verranno assunti a tempo indeterminato, come operai, impiegati e quadri, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).
Dalla nuova disciplina sono dunque esclusi i dirigenti.
Nei confronti dei lavoratori già assunti prima del 7 marzo 2015, presso strutture che rientrano nelle soglie numeriche previste dalla legge (vale a dire, 15 dipendenti nell’unità produttiva, 5 se si tratta di imprenditori agricoli, o 60 nell’intera impresa), continuerà invece a trovare applicazione il regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della Legge 300 del 1970.
Per quanto riguarda le piccole imprese , il decreto prevede che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore di detto decreto, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti , e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento ingiusto (art. 1, co. 3).
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione , successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato (art. 1, co. 2).
Infine, del nuovo regime di tutela introdotto dal decreto sul contratto a tutele crescenti potranno avvalersi anche i lavoratori delle organizzazioni di tendenza , vale a dire i dipendenti dei “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione e di culto”(secondo la definizione dettata dall’art. 4 della legge n. 108 del 1990, testualmente riproposta dal secondo comma dell’art. 9 del decreto legislativo 23/2015).
Peraltro, i lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, ben potranno esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.

 

L’offerta di conciliazione

Il decreto legislativo 23/2015 introduce una nuova procedura conciliativa , finalizzata a rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, che prevede l’immediato pagamento di un indennizzo da parte del datore di lavoro.
In particolare, l’art. 6 del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76 del decreto legislativo 276 del 2003, e offrirgli un assegno circolare di importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 3 mensilità e non superiore a 27 mensilità.
Per incentivare questo tipo di soluzione, il legislatore ha previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale .
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’ estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti

  1. Confligge col divieto comunitario di discriminazione dei lavoratori assunti a tempo determinato la disciplina dell’art. 1 comma 2 del d.lgs. 23/2015, che applica le disposizioni del contratto di lavoro a tutele crescenti anche ai rapporti di lavoro instaurati a tempo determinato prima del 7 marzo 2015, successivamente convertiti in contratti di lavoro a tempo indeterminato. (Trib. Milano 5/8/2019, ord., Est. Pazienza, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G. Burragato, “Licenziamenti collettivi e tutele crescenti: il Tribunale di Milano rinvia alla Corte di Giustizia”, 533)
  2. Non è conforme ai principi comunitari di parità di trattamento e adeguata tutela avverso i licenziamenti ingiustificati la disciplina dell’art. 10 del d.lgs. 23/2015, che prevede nei confronti dei lavoratori con contratto a tutele crescenti licenziati per riduzione di personale in violazione dei criteri legali o contrattuali di selezione dei lavoratori in esubero una compensazione esclusivamente pecuniaria e soggetta a massimale. (Trib. Milano 5/8/2019, ord., Est. Pazienza, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G. Burragato, “Licenziamenti collettivi e tutele crescenti: il Tribunale di Milano rinvia alla Corte di Giustizia”, 533)
  3. Ai fini della pronuncia di cui all’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto il caso in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare (nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva applicato la tutela indennitaria ex art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, seppure la condotta tenuta dalla lavoratrice, che era stata licenziata per essersi brevemente allontanata dal posto di lavoro per andare a consumare uno spuntino veloce al bar di fronte, fosse di modesta gravità disciplinare). (Cass. 9/5/2019 n. 12365, Pres. Di Cerbo Rel. Boghetich, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di R. Del Punta, “Ancora sul regime del licenziamento disciplinare ingiustificato: le nuove messe a punto della Cassazione”, 494)
  4. Nella quantificazione dell’indennità collegata al licenziamento ingiustificato, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, va riconosciuto valore preminente al dato dell’anzianità di servizio, non potendosi risolvere l’indicazione della Consulta in un danno per il lavoratore. (Trib. Cosenza 20/2/2019 n. 234, Est. Ferrentino, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di M. Verzaro, “Limiti alla discrezionalità pratica: nulla poena sine lege”, 481)
  5. Nell’ipotesi di licenziamento ingiustificato per insussistenza del fatto contestato nelle imprese con meno di quindici dipendenti, l’indennità di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 23/2015, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 194 del 2018, va determinata a partire dall’anzianità di servizio del lavoratore tenuto conto degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dalla disciplina limitativa dei licenziamenti. (Trib. Cosenza 20/2/2019 n. 234, Est. Ferrentino, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di M. Verzaro, “Limiti alla discrezionalità pratica: nulla poena sine lege”, 481)
  6. Se il licenziamento intimato dal datore di lavoro che non raggiunge i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, della legge n. 300 del 1970 è privo di giustificato motivo oggettivo, l’entità dell’indennizzo dovuto al lavoratore in applicazione dell’art. 9, co. 1, d.lgs. n. 23/2015, deve essere determinata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, interpretando il riferimento all’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/1015 in relazione a tutti i criteri risarcitori indicati dalla predetta sentenza, tenendo altresì conto che nel caso del citato art. 9, comma 1, il limite dettato dal legislatore, dimezzato per il datore di lavoro che non raggiunge i suddetti requisiti dimensionali, è soltanto massimo. (Trib. Genova 21/11/2018, ord., Est. Basilico, in Riv. It. Dir. Lav. 2019, con nota di P. Albi, “Giudici, legislatori e piccole imprese dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018”, 168)
  7. Contro il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, il legislatore ordinario è libero di scegliere tra un apparato sanzionatorio centrato sul ripristino del rapporto e uno centrato sull’indennizzo monetario. (Corte Cost. 26/9/2018 n. 194, Pres. Lattanzi Est. Sciarra, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di P. Ichino, “Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta”, e M.T. Carinci, “La Corte Costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema”, 1031)
  8. La misura massima dell’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato, stabilita originariamente in 24 mensilità dal d.lgs. 23/2015, art. 3, c. 1, è adeguata e ragionevole in relazione alla finalità di un adeguato ristoro del danno prodotto dal licenziamento ingiustificato e di un adeguato effetto dissuasivo contro questo comportamento datoriale antigiuridico; a maggior ragione lo è il limite massimo aumentato a 36 mensilità dal decreto-legge n. 87/2018. (Corte Cost. 26/9/2018 n. 194, Pres. Lattanzi Est. Sciarra, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di P. Ichino, “Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta”, e M.T. Carinci, “La Corte Costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema”, 1031)
  9. Al legislatore ordinario non è consentito determinare l’indennizzo dovuto dal datore per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato in una misura che varia rigidamente in funzione della sola anzianità di servizio del lavoratore, come è previsto dal d.lgs. n. 23/2015, art. 3, c. 1, perché in questo modo si finisce per trattare allo stesso modo situazioni diverse, in relazione alle dimensioni dell’azienda, al comportamento delle parti, alle loro condizioni economiche e anche ad altre circostanze rilevanti per la quantificazione del pregiudizio sofferto dalla persona licenziata in concreto, al quale deve essere commisurato l’indennizzo. (Corte Cost. 26/9/2018 n. 194, Pres. Lattanzi Est. Sciarra, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di P. Ichino, “Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta”, e M.T. Carinci, “La Corte Costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema”, 1031)
  10. Non è adeguata né ragionevole la misura minimo dell’indennizzo stabilita originariamente in 4 mensilità dal d.lgs. n. 23/2015, art. 3, c. 1; e non lo è neppure la misura minima aumentata a 6 mensilità dal decreto-legge n. 87/2018. (Corte Cost. 26/9/2018 n. 194, Pres. Lattanzi Est. Sciarra, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di P. Ichino, “Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta”, e M.T. Carinci, “La Corte Costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema”, 1031)
  11. Non è incostituzionale la differenziazione della disciplina dei licenziamenti a seconda che il recesso venga intimato prima dell’entrata in vigore della nuova norma o dopo. (Corte Cost. 26/9/2018 n. 194, Pres. Lattanzi Est. Sciarra, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di P. Ichino, “Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta”, e M.T. Carinci, “La Corte Costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema”, 1031)
  12. Possono ritenersi ricomprese nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 in materia di contratto a tutele crescenti solo le ipotesi che possono considerarsi realmente nuove assunzioni, o le ipotesi di contratto a tempo determinato stipulati prima del 7 marzo 2015, ma che subiscano una “conversione” in senso tecnico in data successiva, per via giudiziale o stragiudiziale. (Trib. Roma 6/8/2018, Est. Rossi, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di L. Ratti, “Considerazioni critiche sul concetto di ‘conversione’ nel discrimine temporale del regime a tutele crescenti”, 71)
  13. È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 7, lett. g, legge n. 183/2014 e degli artt. 2, 3, 4 del d.lgs. n. 23/2015, per contrasto con gli artt. 3, 4, 76 e 117, co. 1 Cost., letti autonomamente e anche in correlazione fra loro. (Trib. Roma 26/7/2017, ord., in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di G. Proia, “Sulla questione di costituzionalità del contratto a tutele crescenti”, 768)
  14. La disposizione di cui all’art. 3, c. 2, del d.lgs. n. 23/2015 presenta elementi di irrazionalità, dal momento che addossare al lavoratore la prova diretta di un fatto negativo contrasta con il principio di vicinanza della prova e con l’art. 5 della l. n. 604/1966. Pertanto, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, il lavoratore può avvalersi della prova presuntiva e indiretta, e la mancata prova del fatto positivo allegato da parte del datore di lavoro a fondamento del licenziamento equivale alla dimostrazione in giudizio del fatto negativo (onere di per sé talmente gravoso da rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto alla reintegra). (Trib. Milano 14/3/2017, Est. Cassia, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di G. Negri, “L’insussistenza del fatto materiale e la ripartizione dell’onere probatorio: un’interpretazione costituzionalmente orientata”, 617)

 

 

Le segnalazioni della Newsletter di Wikilabour in tema di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti

  1. Tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo per motivo illecito determinante anche nei rapporti di lavoro a tutele crescenti.
    Il Tribunale accerta la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., a fronte delle prove presuntive allegate da un lavoratore il quale, pochi giorni dopo la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, aveva iniziato un periodo di malattia a causa di un infortunio sul lavoro. Il Giudice accerta come il reale motivo del recesso adottato dal datore di lavoro a seguito di tali assenze, e motivato formalmente da una presunta insubordinazione del lavoratore, fosse da individuarsi nel preteso “tradimento” che la società riteneva di avere subito sull’affidamento riposto nel lavoro del dipendente per il quale aveva deciso di confermare il rapporto a tempo indeterminato. Accertata la natura ritorsiva di tale recesso, il Giudice condanna il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 23/2015. (Trib. Como 15/7/2020, Giud. Ortore, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2020)
  2. Contratto a tutele crescenti e licenziamento per GMO: rilevanti ai fini della quantificazione dell’indennizzo anche le dimensioni aziendali e il comportamento del datore di lavoro.
    Accertata l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il Tribunale si sofferma sui criteri di quantificazione dell’indennità risarcitoria ex art. 3 D.Lgs. 23/2015. Osserva il Giudice che, a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, il parametro dell’anzianità di servizio del lavoratore rappresenta la base di partenza per la quantificazione dell’indennità risarcitoria. Quest’ultima, tuttavia, può essere elevata alla luce degli ulteriori parametri desumibili dal sistema, ossia la dimensione aziendale e il comportamento tenuto dal datore di lavoro (nel caso viene aumentata del 50% la misura calcolata sulla mera anzianità). (Trib. Roma 19/5/2020, Giud. Pascarella, in Wikilabour, Newsletter n. 11/2020)