Licenziamento collettivo

Tu sei qui:
In questo articolo

Questa voce è stata aggiornata da Alexander Bell

 

Scheda sintetica

Con il termine procedura di mobilità oggi si indica il licenziamento collettivo, che l’imprenditore può adottare in presenza delle due seguenti condizioni, previste dalla Legge 223/1991:

  1. la prima ricorre allorquando l’imprenditore, che ha già in atto sospensioni dal lavoro con intervento della Cassa integrazione guadagni straordinaria, ritenga di non poter attuare il risanamento o la ristrutturazione necessari al superamento della Cassa;
  2. la seconda si verifica allorquando l’imprenditore, che occupi più di 15 dipendenti, intenda licenziare almeno 5 lavoratori, nell’arco di 120 giorni, in conseguenza di una riduzione o di una trasformazione di attività o di lavoro, o quando lo stesso intenda cessare l’attività.

In entrambi i casi, l’imprenditore deve seguire una specifica procedura prevista dalla legge, informando preventivamente le Rappresentanze sindacali aziendali e i Sindacati maggiormente rappresentativi.

L’informazione deve riguardare i motivi che impediscono l’adozione di strumenti alternativi al licenziamento e le misure eventualmente programmate per ridurne l’impatto sociale.
A richiesta del sindacato, all’informazione dovrà seguire un esame congiunto, all’esito del quale le parti possono raggiungere un accordo, che individui – tra l’altro – i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare in maniera diversa da quelli indicati dalla legge (carichi di famiglia, anzianità, esigenze aziendali).

Tali criteri rappresentano un aspetto di estrema rilevanza e la loro concreta applicazione è stata oggetto di controversie giudiziarie che hanno stabilito precisi limiti nella cd. determinazione pattizia (vedi infra) tra datore di lavoro e sindacato per la loro definizione.

Importante sottolineare altresì come la giurisprudenza abbia definito anche ulteriori aspetti procedurali, quali la mancata segnalazione all’UPLMO dei criteri di scelta applicati, che generano la nullità dei licenziamenti.
Tale obbligo è stato confermato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, la quale ha, inoltre, precisato che la comunicazione deve essere inviata entro sette giorni dai licenziamenti.
Peraltro, la stessa legge ha previsto la possibilità che gli eventuali vizi della comunicazione possano sanati ad ogni effetto di legge nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo.

Un altro tema oggetto di controversia riguarda la scelta dei lavoratori da porre in mobilità e, più specificamente, quale riferimento produttivo debba essere preso in considerazione nel caso di chiusura di uno stabilimento di una società con diverse sedi.

Altra questione che ha più volte sollecitato azioni giudiziarie riguarda l’individuazione della soglia prevista dalla Legge per l’applicabilità della procedura di mobilità, cioè in quale modo e con quale riferimento temporale si debba calcolare il numero dei dipendenti dell’impresa.

La legge e la giurisprudenza hanno definito anche particolari forme di tutela per le lavoratrici donne, così come specifiche condizioni che possono determinare la riassunzione del lavoratore posto in mobilità (vedi infra).

A seguito della messa in mobilità, il lavoratore viene iscritto in un’apposita lista, che gli garantisce un accesso al lavoro agevolato.
Inoltre, il datore di lavoro ha la possibilità di assumere a termine, per non più di 12 mesi, i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità.

Il lavoratore in mobilità ha il diritto di percepire l’indennità di mobilità, a condizione che abbia almeno 12 mesi di anzianità aziendale (di cui 6 di lavoro effettivamente prestato), e sempre che il suo datore di lavoro rientri nel campo di applicazione della Cassa integrazione guadagni straordinaria.

Il regime sanzionatorio applicabile in caso di licenziamento collettivo illegittimo (per violazione delle procedure previste dalla legge o dei criteri di scelta ovvero perché intimato senza l’osservanza della forma scritta) è stato oggetto di profonde modifiche negli ultimi quattro anni: la riforma del 2012, prima, e il c.d. Jobs Act, poi, hanno significativamente diminuito le tutele offerte ai lavoratori licenziati, attraverso la sostanziale riduzione delle ipotesi in cui al datore di lavoro è fatto obbligo di reintegrare il dipendente licenziato nell’ambito di una procedura collettiva che non abbia rispettato la disciplina dettata dal legislatore. Similmente a quanto sta accadendo per i licenziamenti individuali, dunque, anche in materia di licenziamenti collettivi la tutela reintegratoria sta progressivamente cedendo il passo alla più blanda tutela risarcitoria.

Va segnalato, inoltre, che recentemente il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. dalla l. 9 agosto 2018, n. 96, ha modificato l’assetto sanzionatorio originariamente previsto dal Jobs Act, aumentato l’importo delle indennità economiche dovute in caso di licenziamento ingiustificato (si veda il paragrafo dedicato).

 

Normativa di riferimento

  • Legge 23 luglio 1991, n. 223
  • Legge 19 luglio 1993, n. 236
  • Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
  • Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183
  • Decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, conv. con modif. Legge 9 agosto 2018 n. 96

 

 

Cosa fare – Tempi – A chi rivolgersi

In caso di dubbi sulla violazione dei criteri di scelta è opportuno rivolgersi tempestivamente a:

  • Ufficio vertenze sindacale
  • Studio legale specializzato in diritto del lavoro

 

 

Applicazione concreta dei criteri di scelta

Una sentenza del Tribunale di Milano, depositata il 20/1/99, ha fatto il punto sulle modalità applicative dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, peraltro ribadendo un principio su cui si è ormai formata una giurisprudenza costante.
La concreta applicazione dei criteri di scelta ha dato luogo a un contenzioso piuttosto frequente.
Per esempio, in alcune occasioni il datore di lavoro applica i criteri di scelta indicati dalla legge conferendo ad uno di essi un peso eccessivo rispetto agli altri: in casi come questo, la giurisprudenza ha sempre affermato (peraltro conformemente alla lettera della legge) che i criteri di scelta devono essere utilizzati in concorso tra loro, quindi senza che il datore di lavoro abbia la facoltà di assegnare a ciascuno di essi un peso diverso, così da alterare arbitrariamente il risultato della scelta.

Un altro problema interpretativo riguarda, appunto, l’ambito dei lavoratori da prendere in considerazione e ai quali applicare i criteri di scelta.
Molto spesso, infatti, il datore di lavoro applica i criteri di scelta solo tra i lavoratori appartenenti al reparto o all’ufficio che deve subire la riduzione del personale.
Si tratta all’evidenza di un procedimento ingiusto che può portare a risultati arbitrari.
Infatti, per questa via il datore di lavoro esclude a priori che certi lavoratori possano essere coinvolti dalla mobilità; inoltre, se fosse legittima quella modalità di applicazione dei criteri di scelta, il datore di lavoro potrebbe addirittura salvare alcuni dipendenti, adibendoli – qualche mese prima del licenziamento – a reparti che non saranno interessati alla riduzione del personale.

La citata sentenza del Tribunale di Milano ha fatto giustizia di simili tecniche applicative dei criteri di scelta, affermando che la scelta dei lavoratori da licenziare deve riguardare l’intero complesso organizzativo e produttivo dell’azienda, e non può essere limitata solo ai reparti o agli uffici interessati alla riduzione del personale.
In altre parole, nel caso in cui in altri reparti o uffici della stessa unità produttiva vi siano lavoratori che svolgono mansioni professionalmente simili a quelle interessate alla riduzione, i criteri di scelta devono essere applicati anche nei loro confronti.
Lo stesso vale nel caso in cui lavoratori che svolgano mansioni fungibili siano addetti ad altre unità produttive o ad altri stabilimenti dello stesso datore di lavoro: anche questi lavoratori dovranno essere tenuti in considerazione nella scelta del personale da licenziare.

 

Limiti nella determinazione pattizia (tra datore di lavoro e sindacato) dei criteri di scelta

Recentemente, la Corte di cassazione ha fatto il punto sulla questione, tracciando i limiti posti dall’ordinamento alla facoltà delle parti di individuare i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità.
Più precisamente, la sentenza n. 4666 dell’11 maggio 1999 ha ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 268/94, aveva già affermato che i criteri di scelta previsti dagli accordi sindacali devono rispettare, in primo luogo, il principio di non discriminazione (sindacale, politica, religiosa, razziale, sessuale, linguistica) sancito dall’art. 15 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), nonché il principio di razionalità: in altre parole, i criteri concordati devono possedere i caratteri dell’obiettività e della generalità, oltre a dover essere coerenti con il provvedimento della mobilità.

Con la citata sentenza, la Corte di cassazione, oltre a ribadire i principi già espressi dalla Corte costituzionale, ha anche affermato che la non discriminatorietà e la ragionevolezza dei criteri definiti in sede sindacale sono soggette al controllo del giudice.
Più precisamente, se il controllo di non discriminazione coinvolge il principio enunciato dal già citato art. 15 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il controllo di ragionevolezza attiene invece al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Costituzione, di per sé non operante nei rapporti tra soggetti privati.

In altre parole, poiché il criterio di scelta comporta di per sé un trattamento differenziato tra i lavoratori, il giudice deve verificare se tale differenziazione sia, o non sia, giustificata.
Per questa via, il controllo di ragionevolezza finisce per implicare anche un controllo di coerenza dei criteri concordati con le ragioni poste a fondamento e giustificazione della riduzione del personale.
In altre parole, le parti sindacali, stipulando l’accordo sui criteri di scelta, non possono perdere di vista quelle ragioni, individuando criteri di scelta del tutto disancorati dal motivo che ha indotto il datore di lavoro a ridurre il personale.
Un criterio di questo tipo sarebbe del tutto irragionevole, come pure sarebbe illegittimo che le parti, nell’accordo sindacale, indicassero per nome le persone da licenziare: in un simile caso, mancherebbe radicalmente qualunque criterio selettivo e oggettivo, cui è subordinata la legittimità del licenziamento collettivo.

 

Conseguenza della mancata indicazione all’UPLMO delle modalità applicative dei criteri di scelta

Ai sensi dell’art. 4 c. 9 Legge 223/1991, al termine della procedura di informazione e consultazione con il sindacato, e contestualmente all’invio delle lettere di licenziamento, il datore di lavoro deve inviare, ai sindacati e all’UPLMO, una comunicazione in cui siano riportati i nominativi dei lavoratori licenziati, con relativi dati anagrafici, nonché, in modo puntuale, le modalità di applicazione dei criteri di scelta.
Come visto, secondo la riforma del 2012, la comunicazione deve essere inviata entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi e gli eventuali vizi di essa possono essere sanati nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo.
La giurisprudenza ha precisato che la norma in questione prevede che il datore di lavoro indichi le ragioni per cui, applicando i criteri previsti (dall’accordo sindacale o, in mancanza, dalla legge), la scelta sia caduta proprio su quei lavoratori e non su altri, eventualmente fornendo un quadro comparativo di tutte le posizioni lavorative presenti in azienda.
La conseguenza del mancato rispetto di tale obbligo è assai rilevante.
Infatti, come la Cassazione ha ribadito in una recente sentenza (14 novembre 1998 n. 11480), l’adempimento degli obblighi procedurali posti a carico del datore di lavoro, ed in particolare di quello relativo alla comunicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, è finalizzato ad una tutela dei diritti del singolo lavoratore, esposto alla perdita del posto di lavoro ed al quale deve essere consentito di verificare le ragioni che hanno giustificato il suo licenziamento.

 

Chiusura di stabilimento di una società con diverse sedi

L’art. 5 c. 1 della Legge 223/1991 (che disciplina la procedura di mobilità) prevede che “l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri …”.
Stante la formulazione di tale disposizione, la giurisprudenza è giunta in modo prevalente alla conclusione che l’ambito di scelta dei lavoratori non può essere limitato alla singola sede o unità produttiva eventualmente interessata dalla riduzione di personale, facendo la norma chiaro riferimento al complesso aziendale.
Ciò significa, in buona sostanza, che, al fine di scegliere i lavoratori da collocare in mobilità, si deve tener conto non solo degli addetti alla singola unità produttiva in cui l’attività sia stata ridotta o soppressa, ma, quanto meno, di quelli addetti alle unità produttive omogenee (ovvero in cui si svolgono attività similari) collocate in un ambito territoriale delimitato.
In tal senso, spetterà al Giudice del Lavoro valutare ed identificare l’ambito territoriale entro il quale dovrà essere esteso il confronto tra le singole posizioni lavorative.
Secondo un certo orientamento della giurisprudenza (ad onor del vero minoritario), sarebbe necessario estendere la comparazione tra tutti i lavoratori operanti nell’ambito dell’intero complesso aziendale su base nazionale in caso di accertata fungibilità tra le professionalità coinvolte dal recesso.

 

Individuazione della soglia prevista dalla legge per l’applicabilità della procedura di mobilità

Tra i diversi problemi posti dall’art. 24 Legge 223/1991 vi è quello del computo dei dipendenti necessari per l’applicabilità della procedura.
E’ noto che la norma si riferisce alle imprese che occupino più di 15 dipendenti; il problema è se questa soglia debba essere raggiunta nel momento in cui si apre la procedura, o se siano applicabili altre tecniche per individuare il raggiungimento della soglia minima prevista dalla legge.
Un problema analogo si era posto per il licenziamento individuale: infatti, l’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) attribuisce la tutela reintegratoria, nel caso di licenziamento illegittimo, a condizione (in particolare) che il datore di lavoro che aveva intimato il licenziamento occupi, nell’ambito dell’unità produttiva, più di 15 dipendenti, ovvero più di 60 complessivamente.
Ebbene, con riferimento a questa ipotesi, la giurisprudenza aveva già avuto modo di chiarire che non tanto rileva il numero dei dipendenti al momento del licenziamento, quanto piuttosto il numero medio dei dipendenti nel periodo antecedente il recesso, quale risulta dall’organigramma aziendale e senza tener conto di contingenti ed occasionali riduzioni di personale.
La sentenza n. 13796, pronunciata dalla Corte di cassazione il 9 dicembre 1999, ha applicato questi stessi principi anche al caso della mobilità.
Più precisamente, la Corte ha ritenuto che l’accertamento del superamento della soglia numerica di cui all’art. 24 della Legge 223/1991 deve essere compiuto avendo riguardo non al numero dei dipendenti all’atto della messa in mobilità o della apertura della relativa procedura.
Al contrario, si deve tener conto dei normali livelli occupazionali nel semestre antecedente la messa in mobilità.
Al fine di compiere questo accertamento, dunque, è decisivo il libro paga e matricola (dove sono indicati tutti i dipendenti di un certo datore di lavoro, con indicazione della data di inizio e di cessazione del rapporto di lavoro), mentre sono irrilevanti eventuali licenziamenti, effettuati per motivi contingenti, che abbiano momentaneamente portato il numero dei dipendenti al di sotto della soglia prevista dalla legge.
Il principio enunciato dalla Corte è sicuramente importante, giacché previene la possibilità che un datore di lavoro modifichi artificiosamente il numero dei propri dipendenti in vista di una riduzione del personale, e ciò evidentemente al fine di eludere la normativa vigente in materia e le conseguenti garanzie offerte nei confronti dei lavoratori.

 

Il regime sanzionatorio in caso di licenziamento collettivo intimato in violazione della disciplina stabilita dalla legge

La legge 92/2012 (c.d. legge Fornero) e il decreto legislativo 23/2015 (attuativo della legge delega 183/2014, c.d. Jobs Act) hanno introdotto significative novità in materia di sanzioni applicabili in caso di licenziamento collettivo illegittimo; novità che hanno quale comun denominatore il progressivo abbandono del meccanismo sanzionatorio della reintegrazione nel posto di lavoro (che costituiva il baricentro del sistema di tutele previsto dalla legge 223/1991) a favore del versamento di una mera indennità risarcitoria al lavoratore licenziato.
In particolare, la riforma del 2012 ha introdotto un regime sanzionatorio così articolato:

  • la tutela reintegratoria trova applicazione nelle sole ipotesi di licenziamento intimato senza la forma scritta e in violazione dei criteri di scelta; in particolare:
    • nel caso di licenziamenti intimati senza l’osservanza della forma scritta, si applica la tutela reintegratoria piena (che prevede il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro e il pagamento da parte del datore di lavoro di un’indennità pari a tutte le mensilità che il dipendente avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento fino a quella dell’effettivo reintegro, e in ogni caso non inferiore a 5 mensilità, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative; in alternativa alla reintegrazione, il lavoratore può chiedere il pagamento di un’indennità sostitutiva);
    • nel caso di licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta, si applica la tutela reintegratoria attenuata (che prevede il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro e il pagamento da parte del datore di lavoro di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione; in ogni caso, l’indennità non può superare le 12 mensilità; in alternativa al reintegro, il lavoratore può chiedere il pagamento di un’indennità sostitutiva);
  • nel caso di violazione delle procedure previste dalla legge, trova invece applicazione la tutela obbligatoria forte (che consiste nel pagamento, da parte del datore di lavoro, di una indennità risarcitoria quantificata fra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti).

Il d.lgs. 23/2015 (che contiene la disciplina del “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”), dal canto suo, ha ulteriormente eroso il campo applicativo della tutela reintegratoria, in particolare escludendo l’obbligo di reintegrazione del lavoratore nel caso di violazione dei criteri di scelta.
In base a quest’ultima novità legislativa – che interessa tutti i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015) –, il meccanismo sanzionatorio dei licenziamenti collettivi è così declinato (art. 10):

  • allorché sia accertata la violazione della procedura prevista dalla legge ovvero dei criteri di scelta, il giudice può riconoscere la sola indennità risarcitoria, in una misura pari a due mensilità per ogni anno di anzianità aziendale maturato dal lavoratore; l’indennità non potrà in ogni caso essere inferiore a 6 mensilità e non potrà superare le 36 mensilità;
  • la reintegrazione nel posto di lavoro rimane per la sola ipotesi di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta. In questo caso, oltre al reintegro, al lavoratore spetta anche una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non inferiore a 5 mensilità, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. Al lavoratore è inoltre riconosciuta la facoltà (da esercitarsi entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore) di sostituire la reintegrazione con un’indennità pari a 15 mensilità, non assoggettata a contribuzione previdenziale.

 

 

Forme particolari di tutela per le lavoratrici donne

Da tempo il legislatore italiano ha avvertito l’esigenza di predisporre particolari forme di tutela a favore delle donne lavoratrici, e ciò a fronte dell’evidente situazione di svantaggio che le stesse si trovano, da sempre, ad affrontare nel mondo del lavoro.
Inizialmente la normativa in materia aveva essenzialmente una funzione di protezione (ad esempio vietando forme di discriminazione per quel che riguarda il salario – art. 37 della Costituzione -, ovvero stabilendo forme di tutela rafforzate in caso di maternità: Legge 1204/1971).
Più recentemente, invece, il legislatore si è attivato al fine conseguire una reale promozione del ruolo della donna nei luoghi di lavoro, non solo reprimendo le discriminazioni, dirette o indirette, ma introducendo anche strumenti di promozione dell’occupazione femminile e dell’eguaglianza sostanziale delle donne nel lavoro. Questa è la finalità che persegue la Legge 125/1991, nota come la legge sulle “azioni positive“.
Tale legge, mentre ha sicuramente sancito principi di particolare importanza, non ha però dato i risultati sperati in sede di applicazione pratica, rendendo dunque necessari ulteriori interventi legislativi, volti a superare tale carenza sul piano concreto. In particolare, si deve ricordare come una disposizione normativa di ancor più recente emanazione abbia riguardato il problema dei licenziamenti collettivi.
Si tratta dell’art. 6 comma 5 bis della Legge 19 luglio 1993 n. 236 che, integrando la normativa vigente in questa materia (disciplinata dalla Legge 223/1991), ha introdotto una disposizione diretta a prevenire forme di discriminazione sessuale nell’ambito – appunto – dei licenziamenti collettivi: “L’impresa non può altresì collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione”.
Ciò significa, per fare un esempio, che se, nella società che ha disposto la mobilità, una certa mansione è svolta da 20 persone di cui 10 donne, la collocazione in mobilità (ovvero il licenziamento), nell’ambito degli addetti a tale mansione, non potrà riguardare una percentuale di lavoratrici di sesso femminile superiore al 50%, ovvero a quella delle donne impiegate nella mansione di riferimento.
In questo caso, dunque, la riduzione di personale dovrà colpire sia uomini che donne, in misura corrispondente alla proporzione esistente tra gli addetti a tale mansione.
Inoltre, nel caso in cui la società abbia sede in Lombardia, si dovrà tenere conto anche di quanto stabilito nella delibera della Commissione Regionale per l’Impiego (CRI) della Lombardia n. 244 del 25.5.1994, in forza della quale il datore di lavoro è tenuto a comunicare alla commissione stessa l’avvenuto rispetto, nella scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, del criterio sopra indicato, consentendo così un controllo pubblico del comportamento aziendale.
Qualora le disposizioni sopra indicate non venissero rispettate, la lavoratrice interessata potrà agire in giudizio per ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, la reintegrazione in servizio ed il risarcimento del danno.

 

Condizioni che possono determinare la riassunzione del lavoratore posto in mobilità

L’art. 8 comma 1 della Legge 223/1991, ovvero la legge che disciplina il licenziamento collettivo, ha esteso ai lavoratori iscritti alla lista di mobilità a seguito, appunto, di licenziamento collettivo, il diritto di prelazione all’assunzione, già contenuto in una norma risalente nel tempo e scarsamente applicata (art. 15 Legge 264/49).
In forza di tale disposizione, nel caso in cui la società che ha collocato lavoratori in mobilità si trovi nella necessità di procedere a nuove assunzioni, deve dare la precedenza ai propri ex dipendenti.
Perché tale diritto di precedenza si applichi devono, peraltro, ricorrere condizioni ben precise.
Innanzitutto, il diritto è riservato a lavoratori ancora iscritti alle liste di mobilità, e dunque che non abbiano già reperito una nuova occupazione.
In secondo luogo, l’assunzione deve avvenire nell’ambito di mansioni fungibili, ovvero deve riguardare attività che il lavoratore collocato in mobilità sia in grado di svolgere, sebbene ciò non significhi che la nuova assunzione debba essere destinata a ricoprire proprio lo stesso posto di lavoro prima occupato dal lavoratore licenziato.
Infine, le nuove assunzioni devono avvenire entro l’anno, questo essendo il termine di durata del diritto di prelazione.
Ciò che non è agevole stabilire sono le conseguenze che discendono dalla violazione di tale obbligo da parte del datore di lavoro, dal momento che la legge non ne parla espressamente.
Di sicuro, se non si riconoscesse al lavoratore il cui diritto di prelazione sia stato violato la possibilità di ottenere un risarcimento del danno, se non addirittura di chiedere al giudice di imporre al datore di lavoro la sua assunzione, la norma resterebbe priva di effetti concreti.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di Licenziamenti collettivi, Procedura di mobilità, Criteri di scelta

 

In genere

 

Conversione mobilità in licenziamento individuale

  1. I licenziamenti collettivi dichiarati inefficaci, a causa dell’avvenuta violazione della procedura prevista dall’art. 4, L. 23/7/91 n. 223, non possono convertirsi in licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo (Trib. Busto Arsizio 10/12/97, pres. Bruni, est. Pattumelli, in D&L 1998, 364)
  2. Il licenziamento collettivo non può essere convertito in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in quanto la procedura di mobilità, di cui alla L. 223/91, va considerata assorbente di qualunque altro motivo di risoluzione del rapporto di lavoro in qualunque modo riconducibile alla riduzione o trasformazione di attività o di lavoro (Pret. Milano 29/5/95, est. Atanasio, in D&L 1996, 108, nota CASAGNI, I criteri di scelta nel licenziamento collettivo)

 

 

Precedenza nell’assunzione

  1. Il diritto di precedenza nell’assunzione per i lavoratori licenziati nell’ambito della procedura di mobilità, di cui all’art. 8, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223, non può essere validamente rinunziato all’atto della risoluzione del rapporto, in quanto non ancora attuale (Trib. Milano 30/5/97, pres. Mannacio, est. Gargiulo, in D&L 1997, 776, n. Borali, Il diritto di precedenza nell’assunzione per i lavoratori collocati in mobilità)

 

 

Mobilità ex art. 4 L. 223/91

  1. In materia di licenziamento per cessazione dell’attività ai sensi dell’art. 24 l. 23 luglio 1991, n. 223, il dipendente che sia stato licenziato oltre il termine di centoventi giorni dalla conclusione della procedura di mobilità può egualmente chiedere direttamente all’ufficio del lavoro competente l’iscrizione nelle liste di mobilità, non essendo l’esercizio di tale facoltà impedito dalla mancata previsione, per fatto imputabile al datore di lavoro, dello slittamento del termine nell’accordo conclusivo della procedura. (Cass. 27/5/2013 n. 13112, Pres. Roselli Est. Ianniello, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Franco Balbi e Roberto Livatino, 913)
  2. In materia di licenziamento per cessazione dell’attività ai sensi dell’art. 24 l. 23 luglio 1991, n. 223, il termine di sessanta giorni dal licenziamento, che l’art. 4 comma 1 d.l. 20 maggio 1993, n. 148, conv. In l. 19 luglio 1993, n. 236, stabilisce per l’esercizio, da parte del dipendente licenziato, del potere di chiedere l’iscrizione nelle liste di mobilità, ha carattere ordinario e può, pertanto, essere prorogato anche dopo la scadenza dello stesso, in presenza di adeguate giustificazioni del ritardo. (Cass. 27/5/2013 n. 13112, Pres. Roselli Est. Ianniello, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Franco Balbi e Roberto Livatino, 913)
  3. L’impresa che abbia fatto ricorso alla Cigs e non sia in grado di riammettere al lavoro tutti i dipendenti sospesi, può procedere alla messa in mobilità del personale esuberante, nel rispetto della procedura di legge, senza essere vincolata al requisito numerico-temporale stabilito dall’art. 24, L. 23/7/91 n. 223 (cinque licenziamenti in 120 giorni), come previsto dall’art. 4, 1° comma, della citata legge, che rappresenta una normativa di carattere eccezionale, non estensibile in via analogica ai licenziamenti per riduzione del personale ex art. 24. (Cass. 8/2/2010 n. 2734, Pres. Roselli Est. Di Nubila, in D&L 2010, con nota di Ferdinando Perone, “Le due tipologie di licenziamento nell’ambito della procedura di mobilità”, 567)
  4. La procedura di mobilità regolata dagli artt. 4 e 5 della l. n. 223/1991 si applica anche nell’ipotesi in cui l’impresa ammessa all’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni non possa utilmente ricollocare in tutto o in parte i lavoratori sospesi al termine del trattamento, indipendentemente dal numero dei licenziamenti che per tale motivo vengano posti in essere, configurandosi in tal caso una fattispecie di licenziamento collettivo diversa da quella definita dall’art. 24 della stessa legge. (Cass. 17/10/2002, n. 14736, Pres. Senese, Est. D’Agostino, in Riv. it. dir. lav. 2003, 133, con nota di Pietro Ichino, Due questioni in materia d’estensione del campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi).
  5. Nel caso in cui il datore di lavoro, al termine del periodo di Cigs, non possa reimpiegare tutti i lavoratori sospesi, è tenuto ad avviare la procedura di mobilità di cui all’art. 4, L.23/7/91 n. 223, indipendentemente dal numero dei lavoratori da collocare in mobilità (Pret. Trieste 8/8/98, est. Sonego, in D&L 1998, 937)

 

 

Impugnazione del licenziamento

  1. Il termine di sessanta giorni ex art. 5, 3° comma, L.23/7/91 n. 223 per l’impugnazione del licenziamento collettivo non ha natura decadenziale e può decorrere anche da un giorno successivo a quello della comunicazione del recesso, qualora solo successivamente venga scoperta una situazione di fatto diversa da quella posta a base del licenziamento (nella fattispecie si trattava di un licenziamento collettivo che prevedeva come criterio di scelta l’essere in possesso dei requisiti per la pensione; la lavoratrice solo tre anni dopo la comunicazione aveva potuto avere conoscenza di non essere in possesso di tali requisiti) (Pret. Milano 28/7/98, est. Negri della Torre, in D&L 1998, 944. In senso conforme, v. Trib. Milano 18 settembre 1999, pres. Mannacio, est. Accardo, in D&L 2000, 135)

 

 

Onere della prova

  1. In tema di licenziamento collettivo, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi, dello stato familiare, dell’anzianità e delle mansioni, incombe, invece, sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o legittimamente realizzata. (Cass. 24/8/2017, n. 20335, Pres. Mammone Est. Calafiore, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, con nota di A. Ingrao, “Criteri di scelta e onus probandi ‘ripartito’: la sezione lavoro contraddice le Sezioni unite del 2001?”, 69)
  2. In ogni caso, ai fini della legittimità del licenziamento collettivo, deve escludersi che il datore di lavoro debba dimostrare (non solo di avere seguito la procedura di legge e che esistesse un nesso di causalità tra il ridimensionamento e il licenziamento stesso, ma) anche che non vi fosse in concreto alcuna possibilità di collocamento dei lavoratori in altre mansioni compatibili in azienda (Cass. 29/11/99, n. 13346, pres. De Tommaso, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 791, con nota di Vallauri, Ambito aziendale interessato dalla riduzione del personale, individuazione dei criteri di scelta applicabili e obbligo di repechage)
  3. Sebbene licenziato nell’ambito di una procedura di riduzione del personale, il lavoratore conserva un diritto individuale alla verifica, in sede giudiziale, delle ragioni che hanno determinato il suo licenziamento, non essendo sufficienti ad assolvere l’onere della prova, sussistente in capo al datore di lavoro, le notizie contenute nella lettera di apertura della procedura, con la conseguenza che, in caso di mancato assolvimento, il licenziamento dovrà ritenersi illegittimo (Pret. Milano 4/7/97, est. Mascarello, in D&L 1998, 95, n. QUADRIO, Licenziamento collettivo e onere della prova)

 

 

Normativa comunitaria

  1. L’art. 1, par. 1, comma 1, lett. a), Dir. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretato nel senso che, al fine di valutare se un licenziamento individuale contestato faccia parte di un licenziamento collettivo, il periodo di riferimento previsto da tale disposizione per determinare l’esistenza di un licenziamento collettivo deve essere calcolato prendendo in considerazione tutti i periodi di 30 o di 90 giorni consecutivi nel corso dei quali tale licenziamento individuale è intervenuto, e durante i quali si è verificato il maggior numero di licenziamenti effettuati dal datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti la persona del lavoratore, ai sensi della stessa disposizione. (Corte di Giustizia UE, 11/11/2020, causa C-300/19, Pres. Bonichot Rel. Safjan, in Lav. nella giur. 2021, con nota di R. Cosio, La nozione di licenziamento collettivo. Le precisazioni della Corte di Giustizia, 502)
  2. Alla luce di una corretta interpretazione dell’art. 1, par. 1, comma 1, lett. a), Dir. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta dal lavoratore medesimo. (Cass. 20/7/2020 n. 15401, Pres. Berrino Est. Patti, in Lav. nella giur. 2021, con nota di F. Nardelli, Licenziamenti collettivi e numero dei posti soppressi:
    un revirement della Cassazione, 163)
  3. L’art. 2, par. 4, co. 1, della direttiva 98/59/Ce del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretato nel senso che la nozione di “impresa che (…) controlla il datore di lavoro” si riferisce a qualsiasi impresa collegata a tale datore di lavoro per mezzo di vincoli di partecipazione al capitale sociale di quest’ultimo o di altri vincoli giuridici che le consentono di esercitare un’influenza determinante sugli organi decisionali del datore di lavoro e di costringerlo a prevedere o a effettuare licenziamenti collettivi. (Corte di Giustizia 7/8/2018 C-61/17, C-62/17 e C-72/17, Pres. De Cruz Vilaҁa Rel. Levits, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di M. C. Degoli, “La nozione di impresa controllante nell’ambito dei licenziamenti collettivi. Rapporto de iure o de facto?”, 16)
  4. L’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 2 della direttiva 98/59 in tema di licenziamenti collettivi devono essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto a procedere alle consultazioni di cui all’articolo 2 qualora preveda di effettuare, a sfavore dei lavoratori, una modifica unilaterale delle condizioni salariali che, in caso di rifiuto da parte di questi ultimi, comporti la cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti in cui siano soddisfatte le condizioni numeriche previste dall’articolo 1, paragrafo 1, di tale direttiva. (Corte di Giustizia 21/9/2017, C-149/16, Rel. Biltgen, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di F. Gadaleta, “Il problema dell’effettività nella Direttiva 98/59/CE e della cd. ‘dimensione comunitaria’ del licenziamento collettivo”, 131)
  5. La direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, in forza della quale un datore di lavoro, in mancanza di accordo con i rappresentanti dei lavoratori su un piano di licenziamento collettivo, può procedere al suddetto licenziamento solo se l’autorità pubblica nazionale competente alla quale tale piano deve essere notificato non adotta, nel termine previsto dalla summenzionata normativa e in esito all’esame del fascicolo e a una valutazione delle condizioni del mercato del lavoro, della situazione dell’impresa nonché dell’interesse dell’economia nazionale, una decisione motivata con la quale è negata l’autorizzazione a realizzare, in tutto o in parte, i licenziamenti prospettati. Diverso è tuttavia il caso qualora risulti – circostanza che spetta, eventualmente, al giudice del rinvio verificare – che, alla luce dei tre criteri di valutazione ai quali tale normativa fa riferimento e dell’applicazione concreta che ne dà la suddetta autorità pubblica, sotto il controllo delle autorità giurisdizionali competenti, la summenzionata normativa ha la conseguenza di privare le disposizioni della direttiva 98/59 del loro effetto utile. (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 21/12/2016, C-201/15, Rel. Prechal, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M.T. Salimbeni, “Dalla Corte di Giustizia un invito all’introduzione di limiti causali al licenziamento collettivo?”, 446, e in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di A, Lo Faro, “Corte di Giustizia, libertà di impresa e discipline nazionali dei licenziamenti: un altro passo verso la limitazione delle tutele del lavoro”, 217)
  6. La libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE comprende anche la libertà di determinare la natura e la portata dell’attività economica che sarà svolta nello Stato membro ospitante, nonché la libertà di ridurre successivamente il volume di tale attività, sicché essa osta a una normativa nazionale come quella controversa, che consenta all’autorità pubblica di ridurre o bloccare i licenziamenti collettivi. (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 21/12/2016, C-201/15, Rel. Prechal, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M.T. Salimbeni, “Dalla Corte di Giustizia un invito all’introduzione di limiti causali al licenziamento collettivo?”, 446)
  7. La nozione di “stabilimento” contenuta nell’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), ii), della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli altri Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, deve essere interpretata allo stesso modo della nozione contenuta nella lettera a), i), del medesimo comma. (Corte Giustizia 30/4/2015, C-80/14, Rel. Juhasz, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Cinzia Carta, “La nozione di stabilimento nella direttiva 98/59/CE. Riflessioni su interpretazione e lessico eurounitario”, 215)
  8. L’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), ii), della direttiva 98/59 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che preveda un obbligo di informazione e consultazione dei lavoratori in caso di licenziamento, nel corso di un periodo di 90 giorni, di almeno 20 lavoratori di un particolare stabilimento di un’impresa, e non quando il numero complessivo di licenziamenti in tuti gli stabilimenti o in taluni stabilimenti di un’impresa nel corso del medesimo periodo raggiunge o supera la soglia di 20 lavoratori. (Corte Giustizia 30/4/2015, C-80/14, Rel. Juhasz, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Cinzia Carta, “La nozione di stabilimento nella direttiva 98/59/CE. Riflessioni su interpretazione e lessico eurounitario”, 215)
  9. Gli artt. 1-3 della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, devono essere interpretati nel senso che si applicano alla cessazione delle attività di un ente di lavoro conseguente a una decisione giurisdizionale che dispone il suo scioglimento e la sua liquidazione per insolvenza, anche qualora la normativa nazionale, nel caso di tale cessazione, preveda la risoluzione con effetto immediato dei contratti di lavoro dei dipendenti. (Corte di Giustizia CE 3/3/2011, Cause riunite da C-235/10 a C-239/10, Pres. Lenaerts Est. Juhàsz, in Orient. Giur. Lav. 2011, 35)
  10. L’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi deve essere interpretato nel senso che l’adozione, nell’ambito di un gruppo di imprese, di decisioni strategiche o di modifiche di attività che costringono il datore di lavoro a prevedere o progettare licenziamenti collettivi fa sorgere per tale datore di lavoro un obbligo di consultazione dei rappresentanti dei lavoratori. (Corte Giustizia 10/9/2009 C-44/08, Rel. Juhàsz, in Riv. It. Dir. Lav. 2010, con nota di Carlo Zoli, “Licenziamenti collettivi e gruppi di imprese: la procedura di informazione e consultazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia”, 517)
  11. L’insorgenza dell’obbligo del datore di lavoro di avviare le consultazioni sui licenziamenti collettivi previsti prescinde dalla circostanza che il medesimo sia già in grado di fornire ai rappresentanti dei lavoratori tutte le informazioni richieste dall’art. 2, n. 3, primo comma, lett. b), della direttiva 98/59. (Corte Giustizia 10/9/2009 C-44/08, Rel. Juhàsz, in Riv. It. Dir. Lav. 2010, con nota di Carlo Zoli, “Licenziamenti collettivi e gruppi di imprese: la procedura di informazione e consultazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia”, 517)
  12. L’art. 2, n. 1, della direttiva 98/59, in combinato disposto con l’art. 2, n. 4, primo comma, della stessa direttiva, deve essere interpretato nel senso che, nel caso di un gruppo di imprese composto da una società controllante e da una o più controllate, l’obbligo di consultazione con i rappresentanti dei lavoratori sorge in capo alla controllata che ha la qualità di datore di lavoro soltanto quando tale controllata, nell’ambito della quale possono essere effettuati licenziamenti collettivi, è stata individuata. (Corte Giustizia 10/9/2009 C-44/08, Rel. Juhàsz, in Riv. It. Dir. Lav. 2010, con nota di Carlo Zoli, “Licenziamenti collettivi e gruppi di imprese: la procedura di informazione e consultazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia”, 517)
  13. L’art. 2, n. 1, della direttiva 98/59, in combinato disposto con l’art. 2, n. 4, della medesima deve essere interpretato nel senso che, nel caso di un gruppo di imprese, la procedura di consultazione deve essere conclusa dalla controllata interessata dai licenziamenti collettivi prima che detta controllata, eventualmente su istruzione diretta della sua società controllante, risolva i contratti dei lavoratori interessati da tali licenziamenti. (Corte Giustizia 10/9/2009 C-44/08, Rel. Juhàsz, in Riv. It. Dir. Lav. 2010, con nota di Carlo Zoli, “Licenziamenti collettivi e gruppi di imprese: la procedura di informazione e consultazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia”, 517)
  14. La direttiva comunitaria in materia di licenziamenti non osta a una normativa nazionale che qualifichi l’ipotesi della cessazione dei rapporti di lavoro in conseguenza del decesso del datore di lavoro, che sia una persona fisica, in termini di estinzione ex lege anziché di licenziamento collettivo e preveda indennità diverse a seconda che i lavoratori abbiano perso il posto di lavoro in seguito al decesso del datore di lavoro o a un licenziamento collettivo. (Corte di Giustizia 10/12/2009 C. 323/08, Pres. Lenaerts Rel. Juhasz, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Orsola Azzolini, “Morte dell’imprenditore (individuale) ed estinzione ex lege dei contratti di lavoro nel diritto spagnolo: conformità rispetto alla nozione comunitaria di licenziamento collettivo”, 502)
  15. Con il termine “stabilimento” di cui all’art. 1, n. 1, lett. a) della direttiva n. 98/59/CE, in materia di licenziamenti collettivi, si deve intendere l’unità alla quale i lavoratori colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni. (Corte di giustizia CE 15/2/2007 n. 270/05, Pres. Jann Rel. Juhasz, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Mariagrazia Lombardi, “La nozione di “stabilimento” e l’ambito di applicazione della normativa sui licenziamenti collettivi, fra suggestioni comunitarie e disciplina interna”, 493)
  16. La deroga contemplata dall’art. 4, n. 4 della direttiva n. 98/59/CE, in riferimento al coinvolgimento dell’autorità pubblica nel caso in cui i licenziamenti collettivi siano determinati dalla cdessione delle attività di uno stabilimento conseguente a decisione giudiziaria, non può essere estesa fino a ricomprendervi casi in cui la cessazione dell’attività di un’impresa o di un’azienda sia dovuta esclusivamente alla volontà del datore di lavoro. (Corte di giustizia CE 15/2/2007 n. 270/05, Pres. Jann Rel. Juhasz, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Mariagrazia Lombardi, “La nozione di “stabilimento” e l’ambito di applicazione della normativa sui licenziamenti collettivi, fra suggestioni comunitarie e disciplina interna”, 493)
  17. Sia l’art. 3 n. 1 della direttiva 11/3/02, 2002/14/Ce – che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nella Comunità europea – sia l’art. 1 n. 1 lett. a) della direttiva 20/7/98, 98/59/Ce, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, devono essere interpretate nel senso che dette norme ostano a una normativa nazionale la quale esclude, ancorchè temporaneamente, una determinata categoaria di lavoratori dal calcolo del numero dei lavoratori impiegati ai sensi di tali norme. (Corte di Giustizia CE 18/1/2007 n. C-385/05, Pres. Timmermans Rel. Schintgen, in D&L 2007, 375)
  18. Gli artt. 2-4 della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, devono essere interpretati nel senso che l’evento qualificabile come licenziamento è rappresentato dalla manifestazione di volontà del datore di lavoro di risolvere il contratto di lavoro. Il datore di lavoro ha il diritto di effettuare licenziamenti collettivi dopo la conclusione della procedura di consultazione di cui all’art. 2 della direttiva 98/59 e dopo la notifica del progetto di licenziamento collettivo prevista dagli artt. 3 e 4 della direttiva stessa. (CGCE 27/1/2005, Causa C-188/03, Pres. Timmermans Est. Gulmann, in Orient. Giur. Lav. 2005, Osservatorio comunitario, 11)
  19. Gli artt. 2-4 direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, devono essere interpretati nel senso che l’evento qualificabile come licenziamento è rappresentato dalla manifestazione di volontà del datore di lavoro di risolvere il contratto di lavoro.Il datore di lavoro ha il diritto di effettuare licenziamenti collettivi dopo la conclusione della procedura di consultazione di cui all’art. 2 della direttiva 98/59 e dopo la notifica del progetto di licenziamento collettivo prevista agli articoli 3 e 4 della direttiva stessa. (Corte Giustizia UE 27/1/2005 causa C-188/03, Pres. Timmermans Rel. Gulmann, in Lav. e prev. oggi 2005, 1753)
  20. La Repubblica italiana, non adottando per i licenziamenti collettivi le disposizioni necessarie relative ai datori di lavoro che nell’ambito della loro attività non perseguono fini di lucro, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. (Corte di Giustizia UE 16/10/2003 n. C-32/02, Pres. Schintgen Rel. Colneric, in Lav. nella giur. 2003, 1121, con commento di Michele Miscione)
  21. Dato che, secondo il diritto italiano, le persone, gli organismi o gli enti pubblici o privati che non perseguono uno scopo di lucro non possono essere inquadrati nella nozione di imprenditore né essere qualificati quali imprese ai fini dell’applicazione della L. n. 223/1991, che richiede specificatamente la ricerca del profitto come corrispettivo del rischio di impresa, la Repubblica italiana va condannata per mancato recepimento con la L. n. 223/1991 sui licenziamenti collettivi, della direttiva del Consiglio 20 luglio 1998, 98/59/CE, che riguarda indistintamente tutti i datori di lavoto; l’interpretazione contraria non sarebbe neanche conforme alla ratio di tale direttiva e creerebbe un’esenzione per i datori di lavoro che non perseguono scopo di lucro, pur occupando centinaia di persone o godendo di grande rilevanza economica (Come la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti-Coldiretti-e la Confederazione nazionale delle imprese di commercio-Confcommercio-, che sono sindacati che occupano centinaia di persone). (Corte di Giustizia UE 16/10/2003 n. C-32/02, Pres. Schintgen Rel. Colneric, in Lav. nella giur. 2003, 1121, con commento di Michele Miscione)

 

 

Questioni varie

  1. La procedura di licenziamento collettivo si applica anche in caso di cessazione di attività di un’impresa appaltatrice, salvo subentro nell’appalto, con riassunzione del personale a parità di condizioni.
    In un caso di impugnazione come collettivo di un licenziamento totale del personale di un’impresa appaltatrice, cui era subentrata nell’appalto altra impresa che aveva assunto parte dei dipendenti, i giudici di merito avevano respinto la domanda, negando la natura di licenziamento collettivo (e quindi la necessaria applicazione della relativa procedura) al caso di cessazione totale di attività. L’assunto della Corte d’appello non supera il vaglio della Cassazione, che, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, osserva che (i) l’art. 24, co. 2, l. 223/91 prevede espressamente il licenziamento collettivo anche nel caso di cessazione totale dell’attività di impresa; (ii) in caso di subentro di un nuovo appaltatore, che acquisisca personale già impiegato nel medesimo appalto, la procedura sui licenziamenti collettivi può essere derogata – ai sensi dell’art. 7, co. 4 bis, dl 248/07 – solo allorché i lavoratori siano riassunti dall’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore; (iii) nel caso di specie, la Corte d’appello non ha compiuto alcun accertamento sull’effettiva rispondenza della proposta di riassunzione formulata dalla società subentrante nell’appalto ai requisiti indicati dall’art. 7, co. 4 bis, dl 248/07. (Cass. 11/4/2023, n. 9650, Pres. Raimondi, Rel. Patti, in Wikilabour, Newsletter n. 8/23)
  2. Quando le dimissioni valgono come licenziamento.
    Nel caso analizzato dalla Corte, un’impresa non aveva considerato, ai fini dell’applicazione della disciplina sul licenziamento collettivo, alcuni dipendenti che avevano aderito a una risoluzione consensuale del rapporto per non aver accettato un trasferimento, disposto nel contesto di una riduzione di personale. Viceversa la Corte, superando una precedente giurisprudenza datata, ribadisce che, alla stregua del diritto comunitario sui licenziamenti collettivi, al fine della verifica del numero minimo dei dipendenti coinvolti che comporta l’applicazione relativa disciplina, rientra nella nozione di licenziamento il fatto che il datore di lavoro proceda a una modifica sostanziale e svantaggiosa degli elementi del contratto di lavoro, da cui consegua la cessazione del rapporto, anche su richiesta del lavoratore medesimo. (Cass. 20/7/2020 n. 15401, ord., Pres. Berrino Rel. Patti, in Wikilabour, Newsletter n. 15/2020)
  3. Non sussiste alcun obbligo a carico del datore di riaprire una procedura di licenziamento collettivo legalmente conclusa all’esito del referendum dei lavoratori. (Trib. Roma 22/4/2017, decr., Est. Quartulli, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di G. Sforza, “Crisi della rappresentatività del sindacato e contrattazione aziendale: riflessioni sollecitate dal caso Almaviva”, 917)
  4. In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. 23 luglio 1991, n. 223, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. (Trib. Firenze 19/7/2016, Giud. Taiti, in Lav. nella giur. 2016; 1133)
  5. Nel licenziamento collettivo per riduzione del personale non è consentito al giudice sindacare sull’an della decisione ma soltanto sul quomodo. Il giudice non può sostituire la sua valutazione, eventualmente difforme, a quella dell’imprenditore, in quanto, con riferimento alla sussistenza o meno di una grave crisi economica, compete all’imprenditore la facoltà di scegliere e attuare la politica imprenditoriale da lui ritenuta più vantaggiosa. (Trib. Caltagirone 1/7/2016, ord., Est. Gasparini, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M. Militello, “Licenziamento collettivo per riduzione del personale. La libertà dell’an e i vincoli del quomodo”, 250)
  6. L’esenzione dal pagamento del contributo di mobilità prevista dall’art. 3, comma 3, della l. n. 223/1991 si applica nella sola ipotesi in cui il licenziamento collettivo sia disposto dagli organi di una procedura concorsuale stante la natura eccezionale e di stretta interpretazione della norma. (Cass. 11/11/2014 n. 23984, Pres. Coletti De Cesare Est. Ghinoy, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Agostino Di Feo, “L’esenzione dal versamento del contributo di accesso alla mobilità e gli accordi di ristrutturazione del debito”, 94)
  7. All’esito delle disposizioni della L. n. 223/1991 il controllo giurisdizionale non riguarda i motivi della riduzione del personale (attesa la devoluzione del controllo sull’iniziativa imprenditoriale alle organizzazioni sindacali, destinatarie di poteri di informazione e consultazione), ma solo la correttezza procedurale della operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni citate dai citati artt. 4 e 5 (e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri controllo) si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. (Trib. Cosenza 20/3/2014, Giud. Maccarrone, in Lav. nella giur. 2014, 614)
  8. In materia di benefici contributivi a favore delle imprese che assumono lavoratori collocati in mobilità, non è configurabile il diritto di fruire delle agevolazioni previste dall’art. 8, comma 4, della legge n. 223 del 1991 in favore di impresa edile che, dopo aver licenziato per fine lavori i propri dipendenti, decida di procedere alla ripresa dell’attività e, entro un anno dal licenziamento (ora sei mesi in virtù della modifica introdotta dell’art. 6, comma quarto, del d.lgs. 19 dicembre 2002, n. 297), riassuma i lavoratori per lo svolgimento delle mansioni precedentemente esercitate. (Cass. 12/11/2012 n. 19647, Pres. Coletti De Cesare Rel. Napoletano, in Riv. It. Dir. Lav. 2013, con nota di Alessia de Concilio, “No alle agevolazioni per le imprese edili che riassumono i dipendenti licenziati per fine lavori”, 464)
  9. Quando un licenziamento collettivo, e l’esito di esso, sono condivisi e approvati dalla rappresentanza sindacale aziendale, con licenziamento di tutti i dipendenti, non vi è motivo di darne specifica comunicazione ai singoli lavoratori. (Cass. 21/9/2011 n. 19233, Pres. Roselli Rel. Tria, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Gianluigi Girardi, 271)
  10. La comunicazione di apertura di una procedura di riduzione del personale deve soddisfare, pena l’inefficacia del licenziamento, un’oggettiva esigenza di trasparenza del processo decisionale in base alla l. n. 223/1991. Non soddisfa una tale esigenza l’aver omesso di indicare, nella lettera di apertura della procedura di mobilità, l’imminente acquisizione di rami di azienda. Una simile operazione è, infatti, tale da poter incidere sugli assetti occupazionali e influenzare la gestione contrattata della crisi da parte delle organizzazioni sindacali. (Cass. 16/9/2011 n. 18943, Pres. De Renzis Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Davide Gallotti ed Emanuela Cosmai, 361)
  11. L’incompletezza di contenuto della comunicazione di avvio della procedura di mobilità invalida la procedura e determina l’inefficacia dei licenziamenti, nonostante la stipulazione di un accordo sindacale di riduzione del personale che contempli un criterio di scelta dei lavoratori da licenziare. (Cass. 2/3/2009 n. 5034, Pres. Ianniruberto Est. Napoletano, in Orient. Giur. Lav. 2009, 220)
  12. In tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla l. 23 luglio 1991 n. 223 ha portata generale ed è obbligatoria anche nelle ipotesi in cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell’attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti (nella specie, la Corte di cassazione ha confermato la sentenza con la quale i Giudici di primo e secondo grado avevano dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato dal curatore del fallimento in ragione del mancato rispetto della procedura di cui all’art. 4, l. 223/91). (Cass. 2/3/2009 n. 5032, Pres. Ianniruberto Est. Napoletano, in Orient. Giur. Lav. 2009, con nota di Alessandro Corrado, “Fallimento, cessazione dell’attività dell’impresa e procedura di licenziamento collettivo: gli obblighi per il curatore fallimentare”, 157)
  13. In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale dalla l. 223/91, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, 3° comma, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, cosicché, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti suddiviso tra i diversi profili professionali contemplati dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, tanto più ove proponga ai sindacati, nella stessa comunicazione e con riferimento alle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, la stipulazione di un accordo, derogatorio dei criteri legali di scelta dei lavoratori da licenziare, che fondi la selezione sul possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. (Cass. 3/2/2009 n. 2610, Pres. Ianniruberto Est. Vidiri, in Orient. Giur. Lav. 2009, 214)
  14. In materia di mobilità volontaria, è adeguata e logicamente coerente secondo i canoni letterali e sistematici – e,quindi, incensurabile in sede di legittimità – l’interpretazione del giudice di merito dell’accordo sindacale del 23 ottobre 2001 per il personale delle poste – secondo il quale i dipendenti in possesso dei requisiti di cui all’art. 33 della legge n. 104 del 1992 inseriti nella graduatoria di mobilità hanno “la precedenza nella scelta della destinazione” – come inteso ad attribuire un trattamento di favore più ampio di quello legale, in quanto rivolto pure nei confronti dei lavoratori che intendano instaurare una situazione di assistenza di un congiunto portatore di handicap, attesa l’inutilità, rispetto a una vicenda di trasferimento geografico, della previsione pattizia ove interpretata come diretta a favorire solo i lavoratori con situazione di assistenza in atto. (Cass. 27/1/2009 n. 1895, Pres. Ianniruberto Est. Picone, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Maria Gallo, 812)
  15. L’esclusione dall’obbligo di osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, prevista dall’art. 24, comma quarto, della legge 23 luglio 1991 n. 223, fra l’altro, per la fine lavoro nelle costruzioni edili, motivata dall’impossibilità assoluta di un’ulteriore utilizzazione dei lavoratori destinatari dei provvedimenti di recesso, opera anche nel caso di esaurimento di una singola fase di lavoro, che abbia richiesto specifiche professionalità, non utilizzabili successivamente; non opera, invece, quando la fase lavorativa non sia ultimata, ma sia in corso di graduale esaurimento, atteso che in tal caso si rende necessaria una scelta fra lavoratori da licenziare e lavoratori da adibire all’ultimazione dei lavori, scelta che deve seguire le regole di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223/1991. (Nel caso di specie la S.C., nel rigettare il ricorso del datore di lavoro avverso la decisione della corte d’appello, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, ha ritenuto che effettivamente non potesse dirsi esaurita alcuna fase dei lavori, posto che all’epoca dei licenziamenti era stato realizzato mediamente poco più del sessanta per cento delle strutture in cemento armato, mentre la forza lavoro era stata ridotta del quaranta per cento, il che evidenziava essere stata operata una scelta, tra i carpentieri addetti al cemento armato, ai fini del licenziamento di alcuni di essi). (Rigetta, App. Roma, 30 settembre 2005). (Cass. 6/2/2008 n. 2782, Pres. Senese Est. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2008, 2153)
  16. In controversia promossa da un lavoratore per la contestazione di un licenziamento collettivo irrogato in violazione delle disposizioni dell’art. 4, commi 3 e 9, e dell’art. 5 della L. 23 luglio 1991 n. 223, il giudice, ove dichiari inefficace il recesso e riscontri che il datore di lavoro abbia cessato l’attività aziendale, non può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno. In questo ambito, anche l’estensione, ai sensi dell’art. 24, comma secondo, della L. n. 223 del 1991, della disciplina prevista in materia di mobilità ai licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo deve essere intesa nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’attività aziendale, e cioè in modo da assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale, in accordo con la ratio della estensione dei detti meccanismi della L. n. 223 del 1991 ai casi di cessazione di attività, sottolineata anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 6 del 21 gennaio 1999. (Cass. 7/6/2007 n. 13297, Pres. Mattone Est. Celentano, in Lav. nella giur. 2008, 85)
  17. Ai fini dell’esclusione dai benefici contributivi previsti dall’art. 8 della L. n. 3 del 1991, per le imprese che, pur riassumendo lavoratori a seguito di procedure di mobilità, abbiano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quella che aveva proceduto ai licenziamenti, è necessario accertare – secondo la sentenza in esame – caso per caso quando ed entro quali limiti si può ritenere che si verifichi la predetta condizione. (Cass. 5/4/2007 n. 8595, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Gianluigi irardi, 1001)
  18. In tema di licenziamento collettivo conseguente all’attivazione delle procedure di mobilità, l’art. 5, comma terzo, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ricollega la sanzione dell’inefficacia alla violazione delle procedure richiamate dal precedente art. 4, comma dodicesimo, e la sanzione dell’annullabilità alla violazione dei criteri di scelta previsti dal primo comma del medesimo art. 5. In particolare, la predetta “inefficacia” è sinonimo di nullità, poichè la mancata produzione di effetti costituisce la conseguenza tipica di questa più grave forma di invalidità, senza che rilevi in senso contrario che il suddetto art. 5, comma terzo, ricolleghi sia all’inefficacia che all’annullabilità del licenziamento gli effetti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. La conseguenza che ne deriva sul piano pratico è che in presenza di un licenziamento nullo può verificarsi l’interruzione di fatto della prestazione lavorativa, ma non l’interruzione del rapporto di lavoro, poichè l’atto di recesso non è in grado di incidere sull’esistenza e permanenza del rapporto. (Cass. 19/12/2006 n. 27101, Pres. Mercurio Est. D’Agostino, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Gianluigi Girardi, 579)
  19. Le pubbliche amministrazioni, nell’ipotesi di esubero inferiore a diecie unità, possono procedere al collocamento in disponibilità per rilevata eccedenza di organico soltanto qualora non sia possibile impiegare diversamente i lavoratori in esubero o qualora gli stessi non abbiano preso servizio presso una diversa pubblica amministrazione disposta a ricollocarli. (Trib. Firenze 30/6/2006, Est. D’Amico, in D&L 2007, con nota di Filippo Pirelli, “Eccedenze di personale nella PA e disciplina applicabile”, 252)
  20. Le dimissioni incentivate non sono equiparabili ai licenziamenti collettivi ai fini del raggiugimento della soglia numerica prevista dall’art. 24, l. n. 223/1991, quand’anche esse siano state proposte all’avvio della procedura di mobilità come soluzione alternativa al recesso datoriale. (Cass. 23/6/2006 n. 14638, Pres. Mattone Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Maddalena Carusone, “Non compatibilità delle dimissioni incentivate ai fini della soglia numerica del licenziamento collettivo”, 425)
  21. Il lavoratore, il quale voglia far valere l’inefficacia o l’annullamento del licenziamento intimatogli, giusta quanto disposto dall’art. 5, terzo comma, e dall’art. 24, primo comma, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di “iter” procedurale per la messa in mobilità o per la riduzione del personale, è tenuto – a fronte dei numerosi adempimenti imposti dalle suddette norme – ad indicare le specifiche omissioni e le specifiche irregolarità addebitate e su cui fonda il “petitum”, in osservanza del disposto dell’art. 414 c.p.c. ed in ragione dei criteri caratterizzanti il processo del lavoro. Solo quando il lavoratore che propone l’impugnativa abbia sufficientemente allegato i fatti costitutivi della pretesa azionata in relazione alla contestazione della mancata osservanza dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità grava sul datore di lavoro l’onere di indicare e provare le circostanze di fatte poste a base dell’applicazione dei suddetti criteri. (Cass. 8/8/2005 n. 16629, Pres. Mileo Rel. Miani Canevari, in Lav. e prev. oggi 2005, 1842)
  22. Nel caso in cui sia stata domandata la declaratoria di illegittimità di un licenziamento collettivo per carenza dei presupposti e violazione delle norme sui criteri di scelta, non è consentito al giudice di esaminare d’ufficio il profilo dell’eventuale nullità dell’atto risolutivo per mancata osservanza, da parte del datore di lavoro, delle regole procedimentali; né l’esame di tale profilo può ritenersi imposto dal principio di cui all’art. 1421 c.c. sulla rilevabilità d’ufficio della nullità del negozio giuridico in ogni stato e grado del giudizio, atteso che tale principio va coordinato con le regole del processo e, segnatamente, con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.), i quali escludono che il giudice possa dichiarare di sua iniziativa una nullità il cui accertamento presupponga l’esercizio di una azione diversa da quella in effetti proposta. (Cass. 22/4/2005 n. 8474, Pres. Ravagnani Rel. Maiorano, in Dir. e prat. lav. 2005, 2336)
  23. Il ridimensionamento dell’attività imprenditoriale che legittima il ricorso alla procedura di mobilità ex art. 4 e 24 l. n. 223 del 1991, non è escluso nè dalla prestazione di lavoro straordinario dei dipendenti rimasti in servizio nè dal mero affidamento a terzi di operazioni o lavorazioni prima svolte direttamente in azienda, e neppure dalla circostanza di nuove assunzioni, ove non risulti la necessità di colmare vuoti di organico originati ingiustificatamente dal processo di ristrutturazione, e ove non si sia in presenza di un ampliamento dell’attività economica dell’impresa non giustificata sulla base delle ragioni che hanno portato alla riduzione del personale. (Cass. 29/4/2004 n. 8269, Pres. Mattone Est. Vidiri, in Giust. civ. 2005, 443)
  24. lavoratore in mobilità ha la facoltà e non l’obbligo di accettare contratti di lavoro subordinato a tempo parziale o determinato, come letteralmente prevede l’art. 8, sesto comma, l. n. 223/1991. (Cass. 6/7/2002, n. 9854, Pres. Trezza, Est. Maiorano, in Riv. it. dir. lav. 2003, 139, con nota di Antonella Occhino, Nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di mobilità).
  25. Non è sufficiente a rendere inoppugnabile il licenziamento per riduzione di personale una “disponibilità” preventiva data dal singolo lavoratore per essere messo in mobilità, posto che questa, visto il meccanismo di funzionamento dell’istituto, resta sempre una modalità di risoluzione del rapporto collegata all’iniziativa unilaterale del datore di lavoro, sicché solo una conciliazione in sede sindacale tra datore di lavoro e singolo lavoratore è mezzo idoneo a porre il datore al riparo da eventuali ripensamenti dei lavoratori interessati. (Trib. Milano 20/3/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 88)
  26. In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, il controllo devoluto al giudice in sede contenziosa non riguarda gli specifici motivi della riduzione del personale ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dagli artt. 4 e 5, l. n. 223/91, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di una indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. Il lavoratore che voglia ottenere la dichiarazione di inefficacia o l’annullamento del licenziamento intimatogli in base alla l. n. 223/91, sull’assunto del mancato rispetto dell’iter procedurale previsto dalla citata legge, è tenuto, a fronte dei numerosi adempimenti imposti, ad indicare nell’atto introduttivo del giudizio le specifiche omissioni ed irregolarità addebitate al datore di lavoro sui cui fonda il petitum, non potendo, inoltre, far valere nel corso del giudizio omissioni o irregolarità diverse o ulteriori rispetto a quelle originariamente denunciate, traducendosi, siffatta condotta processuale, in una mutatio libelli non consentita dall’art.420 c.p.c. (Trib. S. Maria Capua Vetere 22/1/01, pres. e est. Amendola, in Dir. lav. 2001, pag. 374, con nota di Fiata, Sindacato giudiziale e profili probatori nella disciplina dei licenziamenti collettivi)
  27. Nel caso di licenziamento collettivo non è richiesto il rispetto di alcun requisito specifico nella comunicazione del recesso, all’infuori della forma scritta dell’atto; tale licenziamento infatti non è soggetto al controllo giudiziale sulla giustificazione dei motivi, comportando un controllo procedurale preventivo dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento (Cass. 6/7/00, n. 9045, pres. Amiarnte, est. Cataldi, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 573, con nota di Salomone, Licenziamento collettivo: gli obblighi di forma nella comunicazione del recesso al lavoratore e il controllo sulla giustificatezza dei motivi)
  28. La nozione di riduzione o trasformazione di attività o lavoro, di cui all’art. 24 L. 23/7/91 n. 223, include anche l’ipotesi di diversa ripartizione e di più intensa utilizzazione della forza lavoro (Cass. sez. lav. 12 ottobre 1999 n. 11455, pres. De Tommaso, est. Vidiri, in D&L 2000, 123, n. MUGGIA, Licenziamenti collettivi: tutto ai sindacati, niente ai giudici)
  29. Alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per riduzione di personale ex art. 24 L. 223/91 conseguono, nei confronti di società nel frattempo fallita, le pronunce restitutorie compatibili con la limitata competenza del giudice del lavoro, e quindi l’ordine di reintegrazione con esclusione di pronunce di condanna al pagamento di somme (Pret. Milano 14/1/95, est. Frattin, in D&L 1995, 585, nota SCARPELLI, Problemi applicativi della disciplina dei licenziamenti collettivi: criteri di computo dei dipendenti e reintegrazione nei confronti dell’impresa fallita)
  30. L’eventuale consenso prestato da lavoratore ai fini della sua inclusione tra i licenziandi è irrilevante, soprattutto qualora il dipendente si accorga in seguito di violazioni di legge e intenda impugnare il provvedimento di mobilità (Pret. Milano 29/11/94, est. Mascarello, in D&L 1995, 336)
  31. Al lavoratore che, allo spirare del termine di scadenza del periodo di sospensione in CIGS, sia immediatamente collocato in mobilità, compete il preavviso ai sensi dell’art. 4 c. 9 L. 223/91, non essendo ammissibile che il periodo di preavviso decorra in costanza della sospensione in CIGS (Pret. Milano 1/9/94, est. Frattin, in D&L 1995, 168)

 

 

Ambito di applicazione

 

In genere

  1. Va disposta la condanna della Repubblica Italiana la quale, avendo escluso, mediante l’articolo 4, paragrafo 2, della legge del 23 luglio 1991, n. 223, la categoria dei “dirigenti” dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’articolo 2 della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva. (Corte di Giustizia 13/2/2014, C-596/12, Pres. Silva de Lapuerta Rel. Bonichot, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di A. Donini, “Estensione della procedura di licenziamento collettivo ai dirigenti: un vuoto di tutela colmato?”, 366)
  2. Dopo l’entrata in vigore della l. n. 223/1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell’azienda. Ne deriva che, qualora il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro, almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni è tenuto all’osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta irrilevante che il numero dei licenziamenti attuati a conclusione delle procedure medesime sia eventualmente inferiore, così com’è inammissibile la “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale. (Cass. 22/11/2011 n. 24566, Pres. Vidiri Rel. Meliadò, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Roberto Cosio, 476)
  3. Ai fini dell’integrazione del presupposto quantitativo e temporale per la configurabilità di una riduzione di personale assoggettata alla disciplina sui licenziamenti collettivi di cui alla l. n. 223/91, rileva il giorno in cui si sia perfezionato ogni licenziamento, con la sua comunicazione al destinatario, e non quello di conseguimento dell’efficacia dopo il decorso del preavviso, mentre l’arco temporale di centoventi giorni si computa con inclusione del giorno iniziale (cioè del primo licenziamento), stante il chiaro tenore dell’art. 24, primo comma, l. n. 223/91 (da interpretarsi sulla base della direttiva comunitaria n. 75/117, 17/2/75) e la non pertinenza della regola sull’esclusione dal computo del “dies a quo”, dettata dall’art. 155 c.p.c. allo scopo di mantenere integri i termini prescritti per il compimento degli atti del processo (Cass. 30/10/00, n. 14322, pres. De Musis, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1019, con nota di Patanè, Licenziamenti collettivi e sanatoria degli atti viziati)
  4. Sono illegittimi i licenziamenti collettivi comminati, in assenza della procedura di cui all’art. 4 L. 23/7/91 n. 223, in esecuzione di un accordo sindacale che individua come eccedentari tutti i dipendenti che hanno raggiunto la massima contribuzione utile per la pensione di anzianità, non avendo l’art. 59, 6° comma, L. 27/12/97 n. 449 efficacia derogatoria della normativa generale (Trib. Milano 14/9/99, est. Martello, in D&L 1999, 828, n. Franceschinis, Ferrovie dello Stato e licenziamenti collettivi. In senso conforme, v. Pret. Torino 16/4/99, est. Fierro, in D&L 1999, 829; Pret. Torino 20/5/99, est. Peyron, in D&L 1999, 829; Trib. Busto Arsizio 18 ottobre 1999, est. Guadagnino, in D&L 2000, 130; Trib. Genova 24 settembre 1999, est. Scotto, in D&L 2000, 131; Trib. Milano 28 dicembre 1999, pres. Ruiz, est. de Angelis, in D&L 2000, 347; Trib. Milano 28 gennaio 2000, pres. Mannacio, est. Sbordone, in D&L 2000, 347; Trib. Genova 26 gennaio 2000, pres. Russo, est. De Matteis, in D&L 2000, 348)
  5. È manifestamente inammissibile la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 24 L. 23/7/91 n. 223, nella parte in cui escluderebbe dal suo campo di applicazione i dirigenti e funzionari, laddove non venga esplicitato in base a quale assunto dovrebbe giustificarsi la piena equiparazione tra le due categorie (Corte Cost. 18/7/97 n. 258, pres. Granata, rel. Ruperto, in D&L 1998, 64, n. PAGANUZZI)

 

 

Nozione

  1. Sono incompatibili con la direttiva 98/59/Ce, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, le disposizioni di cui agli artt. 4, 15 bis e 24 L. 23/7/91 n. 223 che limitano l’applicabilità della disciplina sui licenziamenti collettivi ai dipendenti di lavoro imprenditori, poiché la direttiva 98/59/Ce si rifersisce anche a datori di lavoro che non perseguono scopi di lucro. (Corte di Giustizia CE 16/10/2003 n. C 32/02, Pres. Schintgen Rel, Colneric, in D&L 2003, 905, con nota di Giovanni Paganuzzi, “Licenziamenti collettivi, nozione di datore di lavoro e rapporto con la normativa comunitaria”)
  2. Il vigente ordinamento ammette la possibilità di un’impresa unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi, senza che ciò comporti necessariamente la negazione della pluralità dei diversi soggetti giuridici; conseguentemente in presenza di determinate circostanze (quali l’unicità della struttura produttiva, l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese, il coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario, l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa) ed indipendentemente dalla liceità o meno del fine perseguito, può sussistere un rapporto di lavoro che vede nella posizione del lavoratore un’unica persona e nella posizione del datore di lavoro più persone fisiche o giuridiche, con conseguente natura solidale dell’obbligazione di quest’ultimi (nella specie la Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva tenuto conto dei dipendenti di tutto il gruppo societario ai fini dell’applicazione dell’art. 4 L. 23/7/91 n. 223). Qualora distinti licenziamenti di almeno cinque dipendenti siano intimati nell’arco di 120 giorni e non siano addebitabili a ragioni inerenti il lavoratore, l’ulteriore requisito (necessario per l’identificazione della fattispecie “licenziamento collettivo”) della riferibilità alla medesima riduzione o trasformazione deve ritenersi oggetto di presunzione in base all’art. 4 L. 23/7/92 n. 223 come interpretato dall’art. 8 L. 19/7/93 n. 236 ed in conformità con la disciplina comunitaria da cui tali disposizioni traggono origine. (Cass. 24/3/2003 n. 4274, Pres. Mileo Est. Foglia, in D&L 2003, 779, con nota di Stefano Muggia, “Il lento cammino della giurisprudenza sul tema del collegamento societario nel diritto del lavoro”)
  3. Ai sensi dell’art. 24, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223, la distinzione tra licenziamento collettivo e licenziamenti individuali plurimi attiene unicamente ai requisiti numerico e temporale (intenzione di procedere ad almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni) e non alla ragione addotta a sostegno della risoluzione del rapporto di lavoro (nella fattispecie, è stato ritenuto collettivo il licenziamento intimato a 3 lavoratori, in quanto originariamente il datore di lavoro intendeva licenziarne 5 e, successivamente, si erano verificate 2 dimissioni che avevano comportato la riduzione del personale licenziato) (Cass. sez. lav. 12 ottobre 1999 n. 11455, pres De Tommaso, est. Vidiri, in D&L 2000, 123, n. MUGGIA, Licenziamenti collettivi: tutto ai sindacati, niente ai giudici)
  4. Ricorre l’ipotesi del licenziamento collettivo in ogni caso in cui un’impresa, che occupi alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori, proceda ad almeno cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni nell’ambito di un disegno di contrazione dell’attività motivata da crisi di mercato, con conseguente obbligo del datore di lavoro di attivare la procedura prevista dagli artt. 4 e 24 L. 23/7/91 n. 223 (Pret. Roma 2/6/97, est. Rossi, in D&L 1998, 377. In senso conforme, v. Cass. 7/11/98 n. 11251, pres. Lanni, est. Vidiri, in D&L 1999, 82, n. Muggia)
  5. Dopo la riforma operata dalla L.23/7/91 n. 223, la nozione di licenziamento collettivo discende necessariamente dalla ricorrenza degli elementi indicati dall’art. 24 legge citata, la cui sussistenza esclude la possibilità di una diversa qualificazione del recesso (Cass. 27/5/97 n. 4685, pres. Trezza, est. Lupi, in D&L 1997, 769)
  6. Il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti e che intenda effettuare, a seguito di cessazione d’attività, il licenziamento di almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni, pone in essere un licenziamento collettivo ex art. 24 L. 223/91 e non un licenziamento individuale plurimo (nel caso di specie, è stata ordinata la reintegrazione dei lavoratori licenziati in violazione della procedura di mobilità) (Pret. Milano 10/1/96, est. Chiavassa, in D&L 1996, 637. In senso conforme, v. Pret. Milano 14/3/95, est. Muntoni, in D&L 1995, 577; Trib. Milano 28/9/96, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 81, nota BORALI, Licenziamento collettivo e cessazione di attività)
  7. Ricorre l’ipotesi del licenziamento collettivo, con conseguente obbligo del datore di lavoro di attivare la procedura prevista dagli artt. 4 e 24 L. 223/91, in ogni caso in cui un’impresa, che occupi alle proprie dipendenze più di 15 lavoratori, intenda procedere ad almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, nell’ambito di un medesimo disegno di riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro, e ciò indipendentemente dal numero finale dei licenziamenti (Trib. Milano 16/12/95, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1996, 391; in senso conf. v. anche Pret. Milano 16/1/96, est. De Angelis, in D&L 1996, 638; Pret. Verona 26/1/95, est. Mancini, in D&L 1995, 879; Trib. Milano 10/6/00, pres. Mannaccio, est. Ruiz, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 502)
  8. A seguito dell’entrata in vigore della L. 223/91, tutti i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati entro 120 giorni dalla conclusione della procedura di mobilità devono avvenire nel rispetto delle procedure di cui alla L. 223/91 (Pret. Milano 13/3/95, est. Atanasio, in D&L 1995, 581)

 

 

Requisito temporale

  1. In caso di licenziamento di un singolo lavoratore effettuato nell’arco di centoventi giorni dall’avvio di una procedura di mobilità, per motivazioni causalmente collegate alla riduzione o trasformazione di attività che aveva determinato il ricorso a quella procedura, ci si trova in presenza di un licenziamento qualificabile come collettivo, e devono quindi essere esperite le procedure ex art. 24, 4 e 5 L. 23/7/91 n. 223 a pena di illegittimità del licenziamento (Trib. Milano 29 settembre 1999, est. Curcio, in D&L 2000, 147)
  2. E’ illegittimo il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo sorretto da identica motivazione addotta nella parallela procedura per riduzione di personale e intimato nell’arco temporale previsto dall’art. 24 L. 23/7/91 n. 223 (Pret. Milano 30/1/99, est. Ianniello, in D&L 1999, 320)
  3. Il licenziamento del dipendente, intimato dopo che sia trascorso il periodo di 120 giorni previsto dall’art. 24 L. 223/91 ma comunque causalmente riconducibile al motivo della riduzione di personale, è nullo (ai sensi dell’art. 1344 c.c.), in quanto mezzo per eludere l’applicazione di norma imperativa, quella appunto prevista dall’art. 24, legge citata, rientrante nell’ambito delle norme di ordine pubblico economico (Pret. Monza, sez. Desio, 7/11/94, est. Barberis, in D&L 1995, 321)

 

 

Requisito dimensionale

  1. L’art. 24, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223 a norma del quale la disciplina vigente in materia di licenziamenti collettivi si applica alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, deve essere interpretato nel senso che il requisito dimensionale, in presenza del quale sorge in capo all’imprenditore l’obbligo di applicare la procedura prevista dalla legge, deve essere riferito non all’impresa nel suo complesso ma all’unità produttiva interessata dai licenziamenti. (Trib. Milano 13/11/2003, Est. Di Ruocco, in D&L 2004, con nota di Andrea Bordone, Sul requisito numerico per l’applicabilità della L. 223/1991″, 153)
  2. Una dipendenza dell’impresa può essere considerata unità produttiva autonoma ai fini dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 SL solo allorchè sia stata connotata da un’organizzazione sufficiente ad esplicare, in tutto o in parte, l’attività di produzione di beni e di servizi dell’impresa. (Trib. Milano 20/12/2001, Est. Ianniello, in D&L 2002, 433, con nota di Andrea Bordone, ” Unità produttiva e regime del licenziamento”)
  3. Il dato numerico sulla consistenza occupazionale dell’impresa, di cui all’art. 24 L. 23/7/91 n. 223, ai fini dell’esperimento della procedura di cui agli artt. 4 e 5, nell’ipotesi di licenziamenti per riduzione di personale, va stimato in relazione al periodo semestrale antecedente la data dei licenziamenti (Cass. sez. lav. 9 dicembre 1999 n. 13796, pres. Santojanni, est. Mazarella, in D&L 2000, 343, n. Muggia, Il requisito numerico per l’applicabilità della L. 223/91 ai licenziamenti collettivi va valutato nell’ambito dell’ultimo semestre)
  4. In tema di licenziamenti collettivi l’art. 24 L. 223/91 che, al fine dell’applicabilità della relativa disciplina, richiede che le imprese “occupino più di quindici dipendenti” deve essere interpretato *- in armonia con i criteri ermeneutici affermatisi in materia di licenziamenti individuali con riferimento agli artt. 18 e 35 della L. 300/70 – nel senso che il predetto requisito dimensionale non deve essere determinato in riferimento al momento della cessazione dell’attività e dei licenziamenti, ma con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre in analogia con quanto espressamente stabilito dall’art. 1 della stessa L. 223/91 ai fini dell’intervento di cassa integrazione guadagni straordinaria. Infatti, la suddetta interpretazione, sistematicamente coordinata nell’ambito della legge considerata, è l’unica che consente di evitare applicazioni artificiose ed elusive delle disposizioni in argomento (Cass. 12/11/99, n. 12592, in Mass. Giur. lav. 2000, pag. 92, con nota di Stanchi, Il requisito dimensionale dell’impresa nei licenziamenti collettivi per riduzione di personale: l’interpretazione della Corte di Cassazione)
  5. E’ illegittimo il licenziamento collettivo intimato senza la procedura di cui alla L. 23/7/91 n. 223, qualora il datore di lavoro non provi di occupare alle proprie dipendenze un numero di lavoratori non superiore a 15 (Trib. Milano 6/7/99 (ord.), est. Peragallo, in D&L 1999, 821)
  6. La disciplina del licenziamento per riduzione di personale ex art. 24 L. 223/91 è applicabile, anche se al momento del licenziamento l’azienda occupa meno di 16 dipendenti, qualora la media ponderata dei dipendenti occupati nel semestre precedente fosse superiore a quindici (anche di una frazione tra quindici e sedici) e comunque tale soglia fosse superata con riferimento all’organico abitualmente utilizzato dall’azienda (Pret. Milano 14/1/95, est. Frattin, in D&L 1995, 585, nota SCARPELLI, Problemi applicativi della disciplina dei licenziamenti collettivi: criteri di computo dei dipendenti e reintegrazione nei confronti dell’impresa fallita)

 

 

Requisito numerico

  1. Le dimissioni di alcuni lavoratori, ancorché agevolate da provvidenze ed incentivi, non possono essere equiparate al licenziamento ai fini del computo dei recessi necessari per il configurarsi del licenziamento collettivo di cui all’art. 24 della l. n. 223/1991. (Cass. 17/10/2002, n. 14736, Pres. Senese, Est. D’Agostino, in Riv. it. dir. lav. 2003, 133, con nota di Pietro Ichino, Due questioni in materia d’estensione del campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi).
  2. In materia di licenziamenti collettivi, l’art.24, l. n. 223/91 deve essere interpretato – anche alla luce del d.lgs. n. 151/97 che, nel dare attuazione alla direttiva comunitaria n. 56/92, ha apportato una serie di modifiche al citato art. 24 – nel senso che nel numero minimo di cinque licenziamenti ivi considerato come già sufficiente ad integrare la fattispecie del licenziamento collettivo non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro. Tali diverse ipotesi, pertanto, restano assoggettate alle procedure di mobilità e ai criteri di scelta stabiliti dagli artt. 4 e 5, l. n. 223/91 solo una volta raggiunto il suddetto numero di cinque licenziamenti (Cass. 6/11/01, n. 13714, pres. Trezza, est. Filadoro, in Lavoro giur. 2002, pag. 759, con nota di Ghera, Riduzioni di personale e ruolo della giurisprudenza)
  3. Nel numero minimo dei licenziamenti di cui alla prima parte del 1° comma dell’art. 24 L. 23/7/91 n. 223, non possono computarsi tutti i tipi di cessazione del rapporto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, come le dimissioni incentivate, che hanno una causa diversa dal licenziamento (Cass. 7/11/98 n. 11251, pres. Lanni, est. Vidiri, in D&L 1999, 82, n. Muggia; in senso conforme, v. Corte Appello Milano 14/4/01, pres. e est. Mannaccio, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 127)
  4. Ai fini dell’obbligatorietà della procedura di cui all’art. 24 L. 223/91, devono computarsi, nella valutazione del numero di licenziamenti effettuati, tutti gli atti risolutivi del rapporto che non siano imputabili alla libera determinazione del lavoratore (Pret. Verona 26/1/95, est. Mancini, in D&L 1995, 879)
  5. Se il processo di riduzione, nonché la procedura di cui all’art. 24 L. 223/91, sfociano nel licenziamento di un solo dipendente, il licenziamento, ab origine collettivo, non si trasforma in individuale (Trib. Milano 31/3/95, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1995, 882, nota NICCOLAI, Licenziamenti individuali e collettivi: lo spazio di scelta dell’imprenditore)

 

 

Casi particolari

  1. L’art. 7, 2° comma, L. 23/7/91, n. 223, laddove prevede il prolungamento del trattamento di mobilità per le aree del Mezzogiorno, trova applicazione a tutti i lavoratori licenziati in dette aree da imprese ivi operanti, restando irrilevante che la sede legale delle stesse possa eventualmente trovarsi al Nord.(Cass. 27/11/2002 n. 16798, Pres. Trezza Est. Capitanio, in D&L 2003, 183)
  2. Nella nozione di “fine lavoro nelle costruzioni edili” – per la quale l’art.24, l. 23/7/91, n. 223 esclude l’applicabilità delle procedure per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, dovendosi applicare invece la disciplina del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo – rientra anche l’esaurimento di una fase dei lavori, in conseguenza del quale possono essere licenziati i dipendenti che siano stati addetti solo a tale fase, qualora sia impossibile il loro impiego in altre mansioni (Cass. 22/6/00, n. 8506, pres. Prestipino, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 377, con nota di Marinelli, Licenziamento per fine lavoro nell’edilizia)
  3. E’ infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 3 e 11 Cost. dell’art. 3, comma 4bis, L. 23/7/91 n. 223 – così come novellato da ultimo dall’art. 7 DL 23/10/96 n. 542, convertito in L. 23/12/96 n. 649 – laddove per i dipendenti di imprese autoferrotranviarie parrebbe imporre l’adozione del procedimento di cui all’art. 24 L. 23/7/91 n. 223 solamente ai lavoratori licenziati da imprese dichiate fallite o poste in liquidità dopo la data del 1/1/93. Infatti tale disposizione deve essere interpretata nel senso che ha inteso estendere agli autoferrotranvieri con tale limitazione soltanto le norme concernenti l’istituto della mobilità, senza toccare la disciplina dei licenziamenti collettivi, che ha carattere e portata generale e che deve ritenersi applicabile anche a questa categoria di lavoratori senza limiti temporali (Corte Cost. 13 giugno 2000 n. 190, pres. Mirabelli, rel. Bile, in D&L 2000, 659)
  4. Ai licenziamenti di lavoratori edili per chiusura del cantiere non si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi bensì quella dell’art. 3 L. 15/7/66 n. 604, con conseguente onere per il datore di lavoro di fornire la prova di non potere impiegare i dipendenti licenziati in altra attività (c.d. onere di repêchage) (Cass. sez. lav. 1 febbraio 2000 n. 1117, pres. Lanni, est. Berni Canani, in D&L 2000, 454, n. Muggia, I licenziamenti collettivi nel settore edile)
  5. Le imprese che gestiscono servizi di pulizia in appalto e che occupano più di quindici dipendenti sono soggette alla disciplina di cui all’art.24, L.23/7/91 n. 223, anche se la riduzione di lavoro derivi dalla cessazione di un appalto con o senza subentro di altra impresa nei lavori eseguiti dalla prima (Cass. 21/5/98 n. 5104, pres. Buccarelli, est. Celentano, in D&L 1998, 942. In senso conforme, v. Trib. Catania 10/6/99, pres. Pagano, est. Zappia, in D&L 1999, 819)
  6. L’art. 24 c. 4 L. 223/91, che esclude l’applicabilità delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi nelle ipotesi di fine lavoro nelle costruzioni edili, si riferisce soltanto ai casi di scadenza fisiologica dei lavori, che non sia connessa a una situazione di crisi per riduzione di attività (Pret. Milano 7/8/96, est. Cincotti, in D&L 1996, 941; in senso conforme, v. Pret. Roma 2/6/97, est. Rossi, in D&L 1998, 377)
  7. In caso di impossibilità di reimpiego dei lavoratori sospesi dal lavoro ai sensi del DL 21/6/93 n.199, convertito in L.9/8/93 n.293, che ha esteso alle imprese di spedizione internazionale, dei magazzini generali e degli spedizionieri doganali la possibilità di usufruire dei benefici della Cigs, il licenziamento deve essere effettuato secondo le procedure di cui all’art. 4 L. 23/7/91 n. 223, pena l’inefficacia dei singoli atti di recesso (Pret. Torino, sez. Moncalieri, 9/12/96, est. Giusta, in D&L 1997, 287, n. Borali, Licenziamento collettivo e imprese di spedizione internazionale
  8. In caso di licenziamento collettivo, l’esonero dal rispetto della procedura ex artt. 4 e 23 L. 223/91, previsto dall’art. 24 c. 4 della stessa legge nel caso di scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e di attività stagionali o saltuarie, non trova applicazione nell’ipotesi di perdita dell’appalto da parte di un’impresa di pulizie (Trib. Milano 16/12/95, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1996, 391. V. in senso conforme Pret. Milano 1/4/98, in D&L 1998, 664; Pret. Milano 27/12/95, est. Canosa, in D&L 1996, 396)
  9. L’art. 24 c. 4 L. 223/91, che esclude l’applicabilità delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi nelle ipotesi di fine lavoro nelle costruzioni edili, si riferisce soltanto ai dipendenti assunti per una commessa determinata, che siano licenziati dopo l’ultimazione della stessa, indipendentemente dalla situazione in cui si trova l’impresa. al contrario, nei confronti dei lavoratori che fanno stabilmente parte dell’organico dell’impresa e vengono licenziati per contrazione dell’attività, pur se alt termine di una commessa, si applicano le procedure di cui agli artt. 4 e 5 della stessa legge (Pret. Milano 6/4/95, est. Curcio, in D&L 1996, 894)

 

 

Procedura sindacale

 

In genere

  1. Incompleta comunicazione ai sindacati e violazione dei criteri di scelta: illegittimo il licenziamento collettivo di 17 magazzinieri.
    La sentenza si segnala primo di tutto per l’ampia motivazione, che ripercorre quasi tutti i problemi giuridici e interpretativi postisi in materia di licenziamenti collettivi ai sensi della legge 223/1991. Il Giudice trentino condanna la società a reintegrare i lavoratori espulsi all’esito della procedura di licenziamento collettivo e a corrispondere loro un’indennità risarcitoria pari alle retribuzioni perse dalla data del recesso. Il Tribunale ritiene che il datore di lavoro, nell’inviare l’informazione preventiva prevista dall’art. 4, commi 2 e 3, L. 223/1991, abbia fornito informazioni non chiare, imprecise e incomplete in ordine all’organizzazione del lavoro, tali da impedire alle organizzazioni sindacali di partecipare efficacemente alla trattativa per la riduzione del personale. Inoltre, prosegue il Giudice, nel caso di specie risultano violati anche i criteri di scelta del personale da licenziare, dato che la società non aveva incluso nella platea dei soggetti interessati dalla procedura anche le posizioni altri dipendenti, impiegati presso diversi punti vendita, oggettivamente fungibili con quelle dei ricorrenti. (Trib. Trento 5/6/2023, Giud. Flaim, in Wikilabour, Newsletter n. 13/2023)
  2. In tema di licenziamenti collettivi, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi a comunicare il numero complessivo dei lavoratori eccedenti senza che occorra l’indicazione, nella comunicazione iniziale, degli uffici o dei reparti con eccedenza. (Cass. 30/9/2015 n. 19457, Pres. Bandini Est. Bronzini, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Vincenzo Del Gaiso, “Brevi note sul licenziamento collettivo finalizzato alla riduzione del costo del lavoro”, 16)
  3. La conclusione di un accordo sindacale al termine della procedura di mobilità, pur non determinando la sanatoria di eventuali vizi della procedura, è elemento sintomatico dell’adeguatezza della precedente comunicazione di avvio. (Cass. 14/4/2015 n. 7490, Pres. Macioce Est. Amendola, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Azzurra de Salvia, “I vizi formali della procedura di licenziamento collettivo tra interpretazioni giurisprudenziali e interventi legislativi sostanzialistici”, 29)
  4. In materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la l. n. 223/91 ha innovato la procedura e, nell’attribuire alle organizzazioni sindacali un incisivo potere di controllo esercitabile mediante richiesta di informazioni e consultazioni, ha ridotto lo spazio di intervento giurisdizionale che non può interessare gli specifici motivi della riduzione del personale, ma solo la correttezza procedurale dell’operazione che dovrà essere quindi misurata alla luce del disposto degli artt. 4 e 5 della stessa legge. (Trib. Milano 3/7/2013, Giud. Moglia, in Lav. nella giur. 2013, 1048)
  5. In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti collettivi per riduzione del personale dalla l. n. 223/1991, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione del personale, sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, nel caso del progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti suddiviso tra i diversi profili professionali contemplati dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. (Cass. 26/4/2011 n. 9348, Pres. Foglia Est. Curzio, in Lav. nella giur. 2011, 737)
  6. In materia di licenziamenti collettivi, la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzxata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, a un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione. I residui spazi di controllo devoluti al giudice non riguardano più gli specifici motivi della riduzione di personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo), ma la correttezza procedurale dell’operazione. (Cass. 14/6/2007 n. 13876, Pres. Senese Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Caffio, “Sui profili causali nei licenziamenti collettivi: rilevanza giuridica e nesso di causalità”, 185)
  7. La comunicazione scritta preventiva di cui al secondo comma dell’art. 4, l. n. 223/1991, che deve essere inviata, a norma del terzo comma dello stesso articolo, dall’impresa che intende procedere a licenziamenti per riduzione del personale alle r.s.a. e alle rispettive associazioni di categoria, deve contenere l’insieme delle informazioni idonee a porre le organizzazioni stesse in grado di esercitare il compito di controllo dei motivi della scelta datoriale, loro spettante per legge, anche quando tale scelta consista nella cessazione dell’attività. La suddetta comunicazione non può pertanto limitarsi ad affermare che la “situazione di eccedenza deriva dalla definitiva cessazione dell’attività commerciale dell’unità produttiva in oggetto con la conseguente impossibilità di fare ricorso a qualsivoglia strumento alternativo per gestire le eccedenze evidenziate”. (Cass. 16/6/2005 n. 12940, Pres. Senese Est. Di Cerbo, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Gaia Giappichelli, “Anche la cessazione di attività imprenditoriale deve essere motivata nella comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo”, 156)
  8. Le informazioni prescritte dall’art. 4, comma 3, L. n. 223/1991 debbono essere tali da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare un effettivo controllo sulla programmata riduzione del personale, previa una cognizione piena sia della forza lavoro complessivamente impiegata, sia del numero e dei profili professionali del personale eccedente, anche al fine di valutare eventuali misure alternative al programma di esubero. (Trib. Grosseto 2/7/2003, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2004, 91)
  9. Non una qualsiasi omissione o carenza nelle informazioni prescritte per le comunicazioni di cui all’art. 4, comma 3, L. n. 223/1991 comporta l’inefficacia dei licenziamenti per riduzione del personale, ma solo quei vizi della comunicazione che possono assumere rilievo ai fini di una compiuta, trasparente e consapevole consultazione sindacale, tanto da compromettere il corretto svolgimento dell’esame congiunto ed incidere quindi sulla correttezza dei provvedimenti finali. Trib. Grosseto 6/3/2003, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2003, 689)
  10. Posto che l’art. 59 comma 6, l. 27/12/97 n. 449 non ha efficacia derogatoria della normativa di cui alla l. 23/7/91, n. 223, sono illegittimi i licenziamenti collettivi comminati in esecuzione di un accordo sindacale che individua come eccedentari tutti i dipendenti che hanno raggiunto la massima contribuzione utile per la pensione di anzianità, in assenza della lettera formale di apertura della mobilità nonché in mancanza di un qualsiasi coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali costituite. (Corte Appello Milano 23/2/01, pres. Mannaccio, est. Ruiz, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 377)
  11. I licenziamenti collettivi disciplinati dalla l. n. 223/91 possono avere validità ed efficacia soltanto nell’osservanza delle norme imperative che ne regolano la procedura e che ne consentono l’adozione nell’obbligatoria osservanza del termine di centoventi giorni dalla conclusione della procedura di cui all’art. 4, commi sesto , settimo e ottavo, della citata l. n. 223/91 (v. art.8, comma quarto, D.L. n. 148/93, convertito nella l. n. 236/93). Pertanto, entro il suddetto termine devono intervenire altresì le comunicazioni alle organizzazioni sindacali e agli uffici del lavoro previste dal comma nono del medesimo art. 4 (dovendo in tal senso essere intesa la contestualità rispetto al recesso che la disposizione stessa espressamente richiede). Ne consegue che, ferma restando la possibilità di porre rimedio alla originaria mancanza o al vizio delle suddette comunicazioni mediante la loro tardiva esecuzione o la loro rinnovazione, si deve ritenere, in mancanza di ulteriori specificazioni legislative, che la suddetta attività di sanatoria possa essere compiuta esclusivamente entro lo stesso ambito temporale e , cioè, nell’immediatezza del licenziamento (Cass. 9/10/00, n. 13457, pres. De Musis, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1015)
  12. La legittimità dei licenziamenti collettivi, disciplinati dalla L. 23/7/91 n. 223 dipende dal regolare svolgimento di una serie di adempimenti formali, tra cui – tra gli altri – vi è l’obbligo, ex art. 4 L. 23/7/91 n. 223, di indicare puntualmente le modalità di applicazione dei criteri di scelta; pertanto, l’inosservanza anche di una sola delle fasi procedurali disciplinate dalla legge, oltre a configurare un’ipotesi di condotta antisindacale ex art. 28 SL, si ripercuote sul provvedimento finale adottato nei confronti del singolo lavoratore, che dunque può agire in giudizio per ottenere l’accertamento di inefficacia del licenziamento (Cass. sez. un. 11 maggio 2000 n. 302, pres. Vela, est. Prestipino, in D&L 2000, 691, n. Muggia; in Riv. Giur. Lav. 2001, pag. 119, con nota di Muggia e Veraldi, Cassa integrazione e licenziamenti collettivi al vaglio delle Sezioni Unite)
  13. Va escluso che i lavoratori coinvolti dalla procedura di mobilità rientrino nel novero dei soggetti destinatari della comunicazione d’avvio della procedura prevista dall’art. 4 L. 223/91 (Cass. 5/4/00, n. 4228, pres. De Tommaso, in Foro it. 2000, pag. 2842)
  14. La procedimentalizzazione della messa in mobilità di cui agli artt. 4 e 5 L. 23/7/91 n. 223, fa sì che l’iniziativa imprenditoriale di ridimensionare l’impresa sia sottoposta a un controllo non più giurisdizionale a posteriori ma sindacale a priori, con l’ulteriore conseguenza che il rispetto delle regole procedurali previste dalla legge, sempre che la procedura si sia conclusa con un accordo sindacale, impedisce di mettere in discussione la realtà della trasformazione e della riduzione dell’attività, nonché l’impossibilità di un utile impiego dei lavoratori licenziati, restando a questo punto al giudice solo il potere di verificare il corretto rispetto dei criteri di scelta, fatta sempre salva la possibilità di provare che la riduzione del personale sia in realtà volta alla sostituzione di una componente della forza lavoro con altra o di attuare discriminazioni inerenti la persona dei singoli lavoratori, o anche la maliziosa esclusione dei poteri di controllo da parte delle organizzazioni sindacali (Cass. sez. lav. 12 ottobre 1999 n. 11455, pres De Tommaso, est. Vidiri, in D&L 2000, 123, n. MUGGIA, Licenziamenti collettivi: tutto ai sindacati, niente ai giudici)

 

 

Art. 4 c. 9 L. 223/91

  1. Nel licenziamento collettivo, la comunicazione prevista dall’art. 4, co. 9, l. n. 223/1991 deve contenere la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori licenziati, così da garantire la necessaria trasparenza della selezione operata dal datore di lavoro. Ne consegue l’illegittimità del licenziamento, per violazione delle procedure, ove non siano state specificate le modalità relative anche a uno solo dei criteri adottati, impedendo così l’esaustivo controllo da parte delle organizzazioni sindacali (nella specie, era stato omesso ogni riferimento all’utilizzo dei cinque sottocriteri utilizzati, nell’ambito del criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, per la valutazione di professionalità. (Cass. 13/12/2016 n. 25554, Pres. Nobile Rel. Boghetich, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di L. Venditti, “Licenziamento collettivo: l’indefettibile trasparenza della selezione”, 129)
  2. In caso di licenziamento collettivo, il vizio procedurale relativo alla genericità della comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991, determina una sanzione meramente indennitaria, mentre la violazione dei criteri di scelta di cui al comma 1 dell’art. 4, cit., comporta l’applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, c. 1, St. lav. (Cass. 19/9/2016 n. 19320, Pres. Nobile Est. Ghinoy, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2017, II, con nota di F. Lamberti, “In tema di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, c. 9, n. 223/1991”, 41)
  3. In tema di mobilità, il datore di lavoro nella comunicazione finale ex art. 4 comma 9 l. 223/91 deve indicare puntualmente le modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori, evidenziando tutti gli elementi che hanno portato all’identificazione dei dipendenti prescelti per la mobilità; in caso di applicazione in concorso dei tre criteri di legge (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive e organizzative), il datore deve anche specificare le modalità con cui gli stessi sono stati fatti interagire. (Cass. 14/4/2015 n. 7490, Pres. Macioce Est. Amendola, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Azzurra de Salvia, “I vizi formali della procedura di licenziamento collettivo tra interpretazioni giurisprudenziali e interventi legislativi sostanzialistici”, 29)
  4. La comunicazione ex art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991 deve fornire una puntuale indicazione dell’applicazione dei criteri di scelta con l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare una specifica graduatoria contenente l’indicazione dei punteggi dei lavoratori licenziati e dei lavoratori mantenuti in servizio. Quindi la comunicazione contenente la graduatoria senza l’indicazione dei relativi punteggi deve ritenersi viziata. Tuttavia si tratta di una violazione essenzialmente formale che non impedisce il raggiungimento dello scopo dell’atto, cioè mettere in condizioni il lavoratore di sapere perché lui, e non altri dipendenti, è destinatario del provvedimento di recesso; non può, pertanto, parlarsi di una violazione dei criteri di scelta e non può trovare applicazione la tutela reintegratoria e indennitaria di cui all’art. 5, comma 3, L. n. 223/1991. (Corte app. Bologna 3-15/9/2014, Pres. Rel. Brusati, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Enrico Gragnoli, 280)
  5. In tema di licenziamento collettivo, la comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, l. 23 luglio 1991, n. 223, nella quale sono indicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, ha la funzione di consentire il controllo del corretto esercizio del potere datoriale e mira a tutelare, oltre agli interessi delle organizzazioni sindacali, quello dei lavoratori alla conservazione del posto. Ne consegue che detta comunicazione non ha carattere integrativo ma attiene al nucleo essenziale della decisione, per cui è onere del datore di lavoro produrla con la costituzione in giudizio, senza che sia possibile una tardiva produzione in appello o una attivazione dei poteri istruttori d’ufficio, che non possono essere esercitati in presenza di una colpevole inerzia della parte interessata o per supplire a una carenza probatoria di quest’ultima. (Cass. 31/7/2013 n. 18366, Pres. Stile Est. Venuti, in Lav. nella giur. 2013, 1041)
  6. Il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991 le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore, di percepire – al momento e sulla base della medesima comunicazione e non già alla stregua di accertamenti da compiersi ex post – perché lui, e non altri dipendenti, sia stato destinatario del collocamento in mobilità e del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva. (Corte app. Roma 12/3/2013, Pres. Gallo Rel. Tucci, in Lav. nella giur. 2013, 621)
  7. In tema di procedura di mobilità, la previsione di cui all’art. 4, co. 9, l. n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con la quale dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato il destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva (nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’illegittimità della procedura sulla base del mero rilievo formale che la comunicazione conteneva l’elenco dei soli lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo e non di tutti i dipendenti fra i quali era stata operata la scelta, senza considerare che la comunicazione indicava specificatamente il criterio di scelta, individuato in sede di accordo sindacale, del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso). (Cass. 6/6/2011 n. 12196, Pres. Miani Canevari Est. Di Cerbo, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di R. Galardi, “Comunicazioni finali nei licenziamenti collettivi: un’ottima sentenza con una cattiva massima”, 323)
  8. Il requisito della contestualità della comunicazione prevista dall’art. 4, comma 9, della l n. 223/1991 alle associazioni di categoria e agli uffici del lavoro rispetto alla comunicazione del recesso ai dipendenti collocati in mobilità, comunicazioni richieste a pena di inefficacia del licenziamento, deve essere valutato in relazione alla finalità complessiva cui risponde tale requisito legale nell’ambito di una procedure le cui sequenze risultano cadenzate, anche dal punto di vista temporale, in modo rigido e predeterminato, nel senso di una necessaria contemporaneità, la cui mancanza vale a escludere la sanzione dell’inefficacia solo se dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva da comprovarsi del datore di lavoro. (Cass. 1/12/2010 n. 24341, Pres. Vidiri Est. Meliadò, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Giorgio Mannacio, 373)
  9. Il requisito della contestualità tra la comunicazione ex art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 n. 223, e l’intimazione dei licenziamenti deve essere interpretato nel senso di una necessaria contemporaneità. La violazione degli obblighi sanciti dall’art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 n. 223 comporta l’inefficacia del recesso. (Trib. Milano 18/3/2010, Est. Perillo, in D&L 2010, 603)
  10. Il contenuto delle comunicazioni di cui ai commi 2 e 9 dell’art. 4, l. 23 luglio 1991, n. 223, deve fare riferimento alle condizioni in cui versa l’impresa, da valutarsi al momento in cui questa decide di instaurare la procedura, e non invece a pregresse situazioni o a processi di riorganizzazione produttiva risalenti nel tempo. Solo un riferimento alla situazione attuale consente, infatti, da un lato un documentato esame congiunto delle parti sociali al fine di valutare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza di persoanle dell’impresa e la possibilità di diversa utilizzazione del persoanle stesso, come voluto dal quinto comma del citato art. 4; e, dall’altro, permette, nella piena osservanza del dictum del nono comma dello stesso art. 4, un compiuto controllo pure da parte dei dipendenti sui criteri di scelta (legali o convenzionali) di quanti vanno collocati in mobilità. (Cass. 13/7/2006 n. 15943, Pres. Mercurio Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Raffaele Galardi, “Sull’obbligo di comunicazione nei licenziamenti collettivi”, 432)
  11. Il tenore letterale, nonchè la ratio dell’art. 4, comma nove, l. n. 223/1991 conducono a ritenere che la prima comunicazione (al singolo lavoratore) e la seconda (agli Uffici del lavoro e alle associazioni di categoria) hanno contenuto e finalità differenti. In particolare, la prima comunicazione – da redigersi in forma scritta – deve contenere solo la notizia del recesso, senza la necessità di alcuna motivazione; la “contestuale” comunicazione all’Ufficio del lavoro, invece, deve includere anche i dati relativi all’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto del nome, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonchè la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta. Conseguentemente, deve escludersi che la “contestualità” richiesta dalla menzionata norma sia prevista in funzione della conoscibilità della motivazione da parte del lavoratore, dovendosi, altresì, intendere non come contemporaneità bensì “come obbligo di immediatezza”, rilevando, oltrettutto, in proposito, non tanto il momento della spedizione quanto quello della ricezione (quale causa di formale conoscenza del contenuto) dell’atto. (Cass. 8/3/2006 n. 4970, Pres. Ciciretti Est. Cuoco, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Tiziana Vettor, “Licenziamento collettivo: ambito della comparazione dei criteri di scelta e requisiti di legittimità delle comunicazioni finali”, 163)
  12. L’omessa puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta previsti dall’art. 5 L. 23/7/91 n. 223 nella comunicazione di cui al 9° comma dell’art. 4, comporta l’inefficacia dei provvedimenti di recesso impugnati. Tale comunicazione ha una sua autonomia rispetto al verbale di accordo sindacale, il quale comunque non può determinare i soggetti destinatari del provvedimento di recesso, ma solo, eventualmente, stabilire, anche in deroga a quelli legali, i criteri da applicare in relazione alla scelta del personale da licenziare, criteri che devono comunque rientrare nei parametri di generalità, obiettività e ragionevolezza. (Trib. Novara 23/4/2004, Est. Mariani, in D&L 2004, 419, con nota di Enrico U. M. Cafiero, “Ancora sulle violazioni formali della procedura di mobilità”)
  13. Nella materia dei licenziamenti collettivi regolati dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura, ai sensi del comma 3 dell’art. 5, la sanzione dell’inefficacia del licenziamento ricorre anche in caso di violazione del comma 9 dell’art. 4, che impone al datore di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e delle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; tale sanzione si applica anche nel caso in cui, in considerazione della inidoneità del criterio adottato e comunicato, non sia possibile individuare le ragioni che hanno indotto al licenziamento dell’uno o dell’altro lavoratore. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., ha ritenuto violato il dovere di comunicazione da parte del datore di lavoro il criterio della prossimità al pensionamento, individuato con le organizzazioni sindacali come unico criterio di scelta dei lavoratori, non consentiva in concreto, stante la pluralità di dipendenti prossimi al pensionamento, di comprendere le ragioni per le quali era stato licenziato un lavoratore piuttosto che un altro). (Cass. 2/9/2003 n. 12781, Pres. Mileo, Rel. Filadoro, in Lav. nella giur. 2004, 121, con commento di Giorgio Mannacio)
  14. La corretta ottemperanza al disposto di cui al nono comma dell’art. 4, l. n. 223/91, richiede che la comunicazione agli uffici competenti e alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare nell’ambito di una procedura di mobilità sia effettuata contestualmente all’intimazione dei licenziamenti stessi. Tale contestualità non può dirsi soddisfatta se la comunicazione avviene con un ritardo di circa due mesi, con la conseguenza che i licenziamenti devono ritenersi inefficaci. (Corte Appello Milano 12/4/01, pres. Mannaccio, est. Accardo, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 135)
  15. La corretta ottemperanza al disposto di cui al nono comma dell’art. 4, l. n. 223/91, che impone la comunicazione agli uffici competenti e alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare nell’ambito di una procedura di mobilità, comporta che la suddetta comunicazione, se non deve necessariamente risolversi in una graduatoria tra i dipendenti, deve però essere in concreto idonea a dar conto delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri selettivi. La violazione di tale prescrizione normativa comporta, ai sensi dell’art. 5, 3° comma, della stessa l. n. 223/91, l’inefficacia dei licenziamenti intimati (Corte Appello Milano 12/4/01, pres. e est. Ruiz, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 130)
  16. La violazione del disposto del 9° comma dell’art. 4 L. 223/91, che impone la comunicazione agli uffici competenti ed alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, comporta, ai sensi dell’art. 5, 3° comma, stessa legge, l’inefficacia dei licenziamenti irrogati (Cass. S.U. 11/5/00 n. 302, in Foro it. 2000, pag. 2156; in D&L 2000, 691, n. Muggia; in Riv. Giur. Lav. 2001, pag. 140, con nota di Ogriseg, Violazione di obblighi procedimentali e illegittimità della Cigs e del licenziamento collettivo; in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 543; in senso conforme, v. Cass. 1/8/01, n. 10507, pres. Spanò, est. Filadoro, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 1604)
  17. Sono illegittimi i licenziamenti collettivi, nel caso in cui la comunicazione inviata all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione di cui all’art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 n. 223 contenga l’indicazione di criteri differenti da quelli concordati con accordo sindacale (Trib. Milano 15 maggio 2000, est. Atanasio, in D&L 2000, 715)
  18. L’inosservanza degli obblighi di comunicazione prescritti dall’art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 n. 223, relativamente alle concrete modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta del personale da espellere nell’ambito di un licenziamento collettivo, comporta l’inefficacia del relativo recesso (Trib. Catania 28 aprile 2000, pres. Branciforti, est. Mazzeo, in D&L 2000, 931)
  19. Poiché la violazione dell’obbligo di comunicazione ex art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 n. 223 non è suscettibile di sanatoria ex post, è illegittimo il licenziamento collettivo inflitto agli stessi lavoratori precedentemente colpiti da altra messa in mobilità, dichiarata illegittima per violazione dell’art. 4, 9° comma, della legge citata, dopo che il datore di lavoro aveva provveduto a rinnovare la comunicazione prevista dalla norma in questione (Trib. Bergamo 22 ottobre 1999, pres. Pesce, est. Mascarino, in D&L 2000, 137, n. Zezza)
  20. Nell’ambito di una procedura di mobilità, la generica comunicazione, da parte del datore di lavoro, di avere individuato i lavoratori da licenziare collettivamente sulla base dei criteri di scelta stabiliti da un accordo sindacale non assolve l’obbligo, imposto dall’art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 n. 223, di comunicare all’Urlmo, alla Commissione regionale per l’impiego e alle OO.SS. le modalità di applicazione di tali criteri di scelta. La conseguente violazione dell’obbligo di comunicazione comporta l’inefficacia dei licenziamenti ai sensi dell’art. 5, 3° comma, della medesima legge (Pret. Milano 27/2/99, est. Marasco, in D&L 1999, 309)
  21. Sono inefficaci i licenziamenti intimati in violazione dell’obbligo, previsto dall’art. 4 c. 9 L. 223/91, di comunicare all’Urlmo e alle OO. SS. la puntuale indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta di cui all’art. 5 c. 1 legge citata (Pret. Milano, sez. Rho, 14/11/95, est. Maupoil, in D&L 1996, 403; in senso conforme v. Cass. 14/11/98 n. 11480, pres. De Tommaso, est. Amoroso, in D&L 1999, 73, n. Muggia, Licenziamenti collettivi e procedure di mobilità: il punto della situazione; Cass. 23/9/98 n. 9541, pres. Lanni, est. Lupi, in D&L 1999, 85; Cass. 17/4/98 n. 3922, pres. Mattone, est. Miani Canevari, in D&L 1998, 655, n. MUGGIA, Licenziamenti collettivi: forma e sostanza; Cass. 17/1/98 n. 419, pres. Fanelli, est. Mazzarella, in D&L 1998, 359; Cass. 27/5/97 n. 4685, pres. Trezza, est. Lupi, in D&L 1997, 769; Cass. 26/7/96 n.6759, pres. Martinelli, est. Miani Canevari, in D&L 1997, 289, n. Muggia; Trib. Milano 15 maggio 2000, est. Atanasio, in D&L 2000, 715; Pret. Milano 9/3/99, est. Atanasio, in D&L 1999, 534; Pret. Roma 4/7/97, est. Falato, in D&L 1998, 371, n. CAPURRO, Licenziamenti collettivi e omessa comunicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta ex art. 4 c. 9 L. 223/91: conseguenze sanzionatorie; Pret. Milano 9/12/98, est. Ianniello, in D&L 1999, 90; Pret. Milano 4/7/97, est. Mascarello, in D&L 1998, 95, n. QUADRIO, Licenziamento collettivo e onere della prova; Pret. Milano 24/7/97, est. Atanasio, in D&L 1998, 99; Pret. Frosinone 17/2/95, est. Cianfrocca, in D&L 1995, 889; Pret. Napoli 24/2/95, est. Di Lella, in D&L 1995, 895; Trib. Napoli 10/4/95, pres. ed est. Marconi, in D&L 1995, 896, nota QUATTROMINI, I vizi formali della procedura di mobilità; Pret. Milano 8/5/95, est. Curcio, in D&L 1995, 901; Pret. Milano 13/3/95, est. Atanasio, in D&L 1995, 581; Pret. Milano 16/12/94, est. Atanasio, in D&L 1995, 327; Pret. Milano 6/8/96, est. Porcelli, in D&L 1997, 88; Pret. Milano 6/4/96, est. Curcio, in D&L 1997, 93; Pret. Milano 4/2/97, est. Negri della Torre, in D&L 1997, 527, nota Borali; Pret. Padova 22/1/97, est. Balletti, in D&L 1997, 529; Pret. Busto Arsizio, sez. Saronno, 16/4/97, est. Perfetti, in D&L 1997, 532; Trib. Busto Arsizio 10/12/97, pres. Bruni, est. Pattumelli, in D&L 1998, 364; Pret. Milano 19/2/98, est. Peragallo, in D&L 1998, 659; Pret. Milano 4/5/98, est. Gerli, in D&L 1998, 939)
  22. E’ illegittimo il licenziamento di un dipendente che sia stato disposto in violazione dell’obbligo di comunicare i criteri di individuazione dei lavoratori prescelti (nel caso di specie la società si era limitata ad affermare che il lavoratore non aveva titoli per restare, inviando al medesimo la mera indicazione delle sue condizioni economico – professionali, ma non il quadro comparativo di tutti i soggetti interessati alla procedura) (Trib. Milano 10/2/95, pres. ed. est. Mannacio, in D&L 1995, 882; in senso conforme v. anche Trib. Milano 31/3/95, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1995, 882, nota NICCOLAI, Licenziamenti individuali e collettivi: lo spazio di scelta dell’imprenditore; Pret. Milano 15/5/95, est. Cecconi, in D&L 1995, 911)

 

 

Comunicazione dei motivi

  1. In tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, c. 3, della legge n. 223 del 1991 rappresenta un atto essenziale per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro. Ne consegue che il lavoratore è legittimato a far valere l’incompletezza della comunicazione quale vizio del licenziamento e che il successivo raggiungimento di un accordo sindacale, pur essendo rilevante ai fini del giudizio retrospettivo sull’adeguatezza della comunicazione, non sana ex se il deficit informativo, atteso che il giudice di merito può accertare che il sindacato ha partecipato alla trattativa, sfociata nell’intesa, senza piena consapevolezza dei dati di fatto. (Cass. 12/11/2013 n. 25394, Pres. Canevari Est. Marotta, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Concetta Lombardo, “Omessa comunicazione ex art. 4, c. 3, L. 223/1991 dei motivi determinanti la riduzione di personale e limiti dell’efficacia sanante dell’accordo”, 243)
  2. In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione del personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione del personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio delle scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione. (Cass. 24/4/2013 n. 10001, Pres. Vidiri Est. Fernandes, in Lav. nella giur. 2013, 740)
  3. Le disposizioni della legge n. 223/1991, in particolare quelle di cui all’art. 4, vanno lette in relazione alla loro ratio e alla funzione di controllo demandata alle organizzazioni sindacali sulla correttezza dell’operato del datore di lavoro. Per la legittimità della procedura è sufficiente, quindi, che la comunicazione iniziale espliciti un progetto di massima – a maggior ragione quando si parla di grandi numeri – che, com’è noto, nel corso della procedura può subire dei radicali cambiamenti proprio in conseguenza della gestione contrattata della crisi. (Trib. Milano 9/12/2005, D.ssa Di Rocco, in Lav. Nella giur. 2006, 919)
  4. La comunicazione preventiva, di cui all’art. 4 L. 23/7/91 n. 223, deve essere completa sì da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero (nella fattispecie l’impresa si era limitata ad enunciare che le cause del ricorso ai licenziamenti traevano origine dalla grave difficoltà del settore del trasporto aereo). (Trib. Busto Arsizio 19/3/2004, ord., Pres. Mazzeo Est. Marchegiani, in D&L 2004, 419)
  5. Nella materia dei licenziamenti collettivi, l’omissione della procedura di cui all’art. 4 L. 23/7/91 n. 223, intesa alla precisazione dei motivi dell’eccedenza di lavoratori ed alla verifica degli esuberi per ciascuna unità produttiva e per profili professionali, non è suscettibile di essere sanata dall’accordo sindacale che determini l’individuazione dei lavoratori da licenziare sulla base della sola anzianità contributiva, trattandosi di un’omissione che compromette l’interesse primario del singolo lavoratore all’individuazione trasparente e verificabile dei dipendenti da licenziare; né gli obblighi procedurali prescritti dalla L. 23/7/91 n. 223 possono ritenersi derogati, in materia di riorganizzazione e risanamento delle Ferrovie dello Stato, dalle previsioni di cui all’art. 59 della L. 27/12/97 n. 449, che, pur prescrivendo che i dipendenti delle Ferrovie dello Stato in esubero possano essere individuati anche in base al criterio dell’anzianità contributiva, non esclude l’applicazione delle procedure di verifica stabilite dalla L. 23/7/91 n. 223, né rimette agli accordi sindacali il potere di stabilire procedure di mobilità in deroga a quelle prescritte dalla legge. (Cass. 15/10/2002 n. 14616, Pres. Carbone Est. Evangelista, in D&L 2003, 155)
  6. La generica comunicazione delle ragioni della crisi aziendale nonché l’omessa indicazione dei motivi ostativi ai rimedi alternativi al licenziamento collettivo costituiscono vizi della comunicazione prevista all’art. 4 L. 23/7/91 n. 223, tali da determinare l’inefficacia – insanabile ex post – del licenziamento comminato al singolo lavoratore, soggetto destinatario delle garanzie procedimentali e legittimato a far valere in giudizio i difetti delle stesse. (Corte d’Appello Napoli 7/9/2001, Est. Villari, in D&L 2002, 704, con nota di Matteo Paulli, “Sui vizi della comunicazione ex art. 4 L. 223/91)
  7. E’ illegittima la messa in mobilità disposta senza preventivamente procedere alle comunicazioni alle associazioni sindacali, disposte dall’art. 4, 2°e 3° comma, L. 23/7/91 n. 223, aventi a oggetto le cause che hanno determinato l’eccedenza del personale e l’impossibilità di un’utilizzazione diversa del personale (Pret. Milano 22/3/99, est. Cecconi, in D&L 1999, 535)
  8. Sono inefficaci i licenziamenti inflitti in violazione dell’obbligo, ex art. 4, 3° comma, L.23/7/91 n. 223, di indicare, nella comunicazione di apertura della procedura alle organizzazioni sindacali, i motivi che determinano la situazione di eccedenza, nonché i motivi per i quali si ritenga di non poter adottare misure alternative al licenziamento (nella fattispecie, è stato ritenuto inidoneo a soddisfare l’obbligo di comunicazione il generico riferimento ai motivi che hanno determinato il ricorso alla Cigs) (Pret. Milano 4/5/98, est. Gerli, in D&L 1998, 939)
  9. Sono inefficaci i licenziamenti intimati in violazione dell’obbligo a carico del datore di lavoro, ex art. 4 c. 3 L. 223/91, di comunicare preventivamente per iscritto, alle Rsa i motivi tecnici, organizzativi e produttivi, che siano ostativi alla adozione di misure alternative alla procedura di mobilità (Pret. Milano 18/11/95, est. Di Ruocco, in D&L 1996, 401; in senso conforme v. Cass. 11/4/2003, n. 5770, Pres. Ciciretti, Est. Lupi, in Foro it. 2003 parte prima, 1381; Pret. Milano 19/2/98, est. Peragallo, in D&L 1998, 659; Pret. Milano 3/5/95, est. Cecconi, in D&L 1995, 892; Pret. Napoli 24/2/95, est. Di Lella, in D&L 1995, 895; Trib. Napoli 10/4/95, pres. ed est. Marconi, in D&L 1995, 896, nota QUATTROMINI, I vizi formali della procedura di mobilità; Pret. Milano 16/12/94, est. Atanasio, in D&L 1995, 327; Pret. Milano 2/7/94, est. Frattin, in D&L 1995, 109; Pret. Milano 17/6/94, est. Frattin, in D&L 1995, 117)
  10. E’ inefficace il recesso disposto dal datore di lavoro che, in sede di comunicazione ex art. 4 c. 3 L. 223/91, abbia solo genericamente indicato i motivi del licenziamento e non abbia indicato le misure a esso alternative, senza che possa supplire a tali omissioni l’informazione resa al sindacato durante l’esame congiunto ai sensi del successivo comma 5 (Pret. Milano 31/1/95, est. Peragallo, in D&L 1995, 583)
  11. Considerato che lo scopo della comunicazione prevista dall’art. 4 L. 223/91 è di rendere il più possibile trasparente il processo decisionale attraverso il quale l’imprenditore è giunto alla determinazione di recedere dai rapporti di lavoro per favorire un’aperta discussione con le OO. SS., una generica e laconica indicazione dei motivi che inducono ad avviare la procedura di mobilità configura violazione degli obblighi di informazione previsti dal comma 3 del citato art. 4, con la conseguenza della illegittimità dei licenziamenti nel frattempo operati e degli effetti di cui all’art. 18 SL, richiamato dal terzo comma dell’art. 5 L. 223/91 (Pret. Nocera Inferiore 22/7/94, est. Scelza, in D&L 1995, 112)

 

 

Altre comunicazioni

  1. In tema di licenziamenti collettivi, la procedimentalizzazione di tali licenziamenti, per come prevista dall’art. 4 della legge n. 223/1991, con particolare riguardo agli adempimenti informativi nei confronti delle organizzazioni sindacali e della pubblica amministrazione, porta a escludere la applicazione analogica dell’onere di comunicazione dei motivi, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 604/1966, al singolo lavoratore che ne faccia richiesta, ben potendo lo stesso ottenere informazioni dagli uffici pubblici destinatari delle comunicazioni predette. Né a conclusioni diverse può giungersi per effetto della modifica apportata a tale ultima norma dalla legge n. 92/2012, posto che, a ogni modo, la previsione opera con esclusivo riferimento all’ipotesi di licenziamento individuale. (Trib. Cosenza 19/3/2014, Giud. Sacco, in Lav. nella giur. 2014, 614)
  2. La indicazione nella comunicazione agli organismi sindacali di avvio della procedura di licenziamento per riduzione di personale, dei profili professionali del personale eccedente, a norma della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, non è validamente integrata dalla sola indicazione delle generiche categorie degli operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti, mentre la conclusione, nell’ambito della procedura di consultazione, di un accordo tra il datore di lavoro e i sindacati sul licenziamento collettivo non può ritenersi idonea a rendere irrilevante, ai fini della legittimità dei licenziamenti, l’indicata carenza della comunicazione iniziale se anche l’accordo non contiene le necessarie indicazioni sui profili professionali dei lavoratori destinatari dei licenziamenti. (Cass. 22/6/2012 n. 10424, Pres. Roselli Est. Toffoli, in Orient. Giur. Lav. 2012, 382)
  3. L’incompletezza della comunicazione di apertura della procedura di mobilità costituisce inadempimento dell’obbligo informativo allorché non consenta all’interlocutore sindacale un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale; ne consegue l’inefficacia dei licenziamenti effettuati, senza che possa attribuirsi alcuna efficacia sanante all’eventuale accordo raggiunto in proposito con le organizzazioni sindacali. (Cass. 23/5/2008 n. 13381, Pres. Mattone Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Maria Teresa Salimbeni, “La Cassazione ribadisce l’acausalità del licenziamento collettivo e una valenza attenuata degli obblighi procedurali ai fini della legittimità del procedimento”, 915)
  4. Nella comunicazione ex art. 4 L. 23/7/91 n. 223 devono sempre essere indicati, a prescindere dalla causa dell’esubero, i motivi che hanno impedito il ricorso a misure alternative al fine di consentire al sindacato di esercitare efficacemente il ruolo di cogestione assegnatogli dalla legge. L’inosservanza della procedura di cui all’art. 4 L. 23/7/91 n. 223 per non avere indicato i motivi che hanno impedito il ricorso a misure alternative ai licenziamenti, non può essere sanata dal successivo raggiungimento di un accordo sindacale. L’art. 5, 3° comma, L. 23/7/91 n. 223 individua espressamente nel lavoratore il soggetto legittimato ad impugnare il provvedimento di recesso reso inefficace dall’inosservanza della procedura prevista dall’art. 4 stessa legge. (Cass. 9/9/2003 n. 13196, Pres. Senese Est. Guglielmucci, in D&L 2004, con nota di Alba Civitelli, “Chiusura di un sito produttivo ed obbligo di comunicazione dei motivi che impediscono misure alternative ai licenziamenti”, 149)
  5. E’ inefficace il licenziamento intimato a lavoratori in C.i.g.s. collocati in mobilità in violazione degli obblighi di informazione e trasparenza che la legge n. 223/91 pone a carico dell’azienda per le varie fasi della procedura di integrazione salariale straordinaria, di messa in mobilità o di licenziamenti collettivi, in quanto tutte le garanzie procedimentali che essa dispone assolvono una duplice funzione: per un verso, porre le organizzazioni sindacali in grado di concordare la scelta dei lavoratori da sospendere; per altro verso, assicurare la tutela degli interessi dei lavoratori. Stante tale duplice funzione prevista dal legislatore, la violazione dell’obbligo della comunicazione (e del pari l’esistenza di vizi inerenti al contenuto di tale obbligo), investendo un elemento essenziale (non meramente formale o marginale) della complessa fattispecie, è causa diretta di illegittimità del provvedimento finale, da far valere nel rispetto del termine di 60 giorni, perché preclude la verifica del corretto esercizio del potere del datore e impedisce il perseguimento dello scopo che la legge si prefigge. A tale vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o mediante la rinnovazione dell’atto viziato (Cass. S.U. 27/6/00, n. 461, pres. Vela, est. Prestipino, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 144, con nota di Papaleoni, Le S.U. ritornano su mobilità e obblighi di comunicazione)
  6. L’omissione della preventiva comunicazione alle organizzazioni sindacali prescritta dall’art. 4, 2° comma, L. 23/7/91 n. 223 da parte dell’impresa che intende avviare la relativa procedura di mobilità non determina vizio di nullità, ove di fatto l’individuazione delle procedure e dei criteri di scelta dei lavoratori eccedenti sia stata operata d’accordo con le OO.SS. (Pret. Milano 22/3/99, est. Sala, in D&L 1999, 541)
  7. L’indicazione da parte del datore di lavoro, nella lettera di apertura della procedura di mobilità, dell’appartenenza del personale eccedente alla categoria operaia e dell’assegnazione dello stesso a due dei tre stabilimenti aziendali nonché il semplice richiamo alla mancata attivazione degli strumenti di reimpiego del personale previsti da un precedente accordo sindacale non sono sufficienti ad assolvere gli obblighi, stabiliti dall’art. 4, 2° e 3° comma, L. 23/7/91 n. 223, di preventiva comunicazione dei profili professionali e della collocazione aziendale di tale personale e di indicazione dei motivi ostativi all’adozione di misure alternative al licenziamento. Ne consegue l’inefficacia del licenziamento collettivo disposto a seguito di una procedura così viziata (Pret. Milano 27/2/99, est. Marasco, in D&L 1999, 309)
  8. Non adempie l’obbligo di informazione ex art.4, 3° comma, L.23/7/91 n. 223 il datore di lavoro che si limiti a comunicare i nomi dei licenziandi con le relative qualifiche e che richiami precedenti incontri sindacali, né tale omissione può essere sanata nella successiva fase dell’esame congiunto (Cass. 30/10/97 n. 10716, pres. Mattone, est. Roselli, in D&L 1998, 366)

 

 

Criteri di scelta

 

In genere

  1. Violazione dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo: rimessa (di nuovo) alla Corte costituzionale una questione di legittimità sul regime sanzionatorio del D. Lgs. 23/2015.
    La Corte d’Appello di Napoli torna a rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità degli artt. 3, 1° comma e 10 del d.lgs. 23/2015 in materia di regime sanzionatorio del licenziamento per riduzione del personale di una lavoratrice, risultato illegittimo per violazione dei criteri di scelta. Nella stessa controversia, il Collegio napoletano aveva già rimesso plurime questioni sia alla Corte di Giustizia europea (dichiaratasi poi non competente sulla materia) sia alla Corte costituzionale. Quest’ultima aveva ritenuto inammissibile la prima questione per carenze di formulazione delle diverse questioni: la Corte d’appello prosegue il dialogo con la Consulta formulando meglio i propri rilievi sulla illegittimità della disposizione introdotta dal “Jobs Act” del 2015, soprattutto con riferimento alla irragionevolezza, nel caso dei licenziamenti collettivi, della differenza di regime sanzionatorio nei casi di violazione dei criteri di scelta tra lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (destinatari della reintegrazione) e lavoratori assunti successivamente, destinatari di un mero indennizzo. (Corte app. Napoli 22/3/2023, Pres. Papa Rel. de Marchis Gómez, in Wikilabour, Newsletter n. 8/23)
  2. In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a un determinato reparto solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l’oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più stretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata; con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella degli addetti ad altre realtà organizzative. (Cass. 7/1/2020, n. 118, Pres. Nobile, Est. Cinque, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di S. Bertocco, “Licenziamenti collettivi e criteri di scelta convenzionali: l‘ambito di selezione del lavoratore e la verifica di fungibilità quali elementi qualificanti dell’accordo sindacale”, 250)
  3. In materia di licenziamenti collettivi, tra imprenditore e sindacati può intercorrere, secondo quanto indicato dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991, un accordo inteso a disciplinare l’esercizio del potere di collocare in mobilità i lavoratori in esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità, proprio perché l’accordo adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge. (Cass. 7/1/2020, n. 118, Pres. Nobile, Est. Cinque, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di S. Bertocco, “Licenziamenti collettivi e criteri di scelta convenzionali: ‘ambito di selezione del lavoratore e la verifica di fungibilità quali elementi qualificanti dell’accordo sindacale”, 250)
  4. Nel licenziamento collettivo, il termine “concorso” riferito alle modalità di applicazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della legge n. 223/1991 deve essere interpretato nel senso di prevalenza dell’uno sull’altro, purché tale concorso non determini discriminazioni vietate dall’art. 15 della legge n. 300/1970 e rispetti il principio di razionalità. (Trib. Caltagirone 24/10/2016, ord., in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M. Militello, “Licenziamento collettivo per riduzione del personale. La libertà dell’an e i vincoli del quomodo”, 250)
  5. È illegittimo il licenziamento collettivo fondato sull’unico criterio di scelta della chiusura dello stabilimento e del licenziamento di tutti i dipendenti, allorché una parte di essi, pur essendo impiegati presso la medesima sede, risultino in realtà ricollocati presso un’altra società del Gruppo, configurandosi in tal modo un criterio non corrispondente a quello dichiarato nella comunicazione ex art. 4, c. 9, legge n. 223/1991. (Trib. Latina 27/9/2016, ord., Giud. Gatani, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di F. Milli, “Licenziamento collettivo per chiusura di stabilimento e ricollocazione presso altra società del gruppo”, 302)
  6. In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale l’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità può essere ristretta in ambito più limitato rispetto al “complesso aziendale” cui fa riferimento l’art. 5 l. n. 223 del 1991. (Trib. Caltagirone 1/7/2016, ord., Est. Gasparini, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M. Militello, “Licenziamento collettivo per riduzione del personale. La libertà dell’an e i vincoli del quomodo”, 250)
  7. Non è ravvisabile il vizio di ultrapetizione nel caso in cui, impugnato da parte del lavoratore un licenziamento collettivo o una procedura di mobilità anche sotto il profilo del mancato rispetto dei criteri di scelta e posta in dubbio, da parte sua, anche la rituale osservanza del procedimento di cui alla l. n. 223 del 1991, art. 4 – e, in particolare, l’esecuzione delle previste preventive comunicazioni scritte ai sindacati da parte del datore di lavoro – il giudice dichiari l’inefficacia del licenziamento per la mancata comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di scelta adottati per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, facendo corretta applicazione del principio secondo cui l’inefficacia del licenziamento, prevista dall’art. 5 della legge citata per il caso di inosservanza delle procedure di cui all’art. 4, ricorre anche nel caso di violazione della disposizione dell’art. 4, c. 9 (sulla comunicazione ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta), essendo da escludere che l’accordo tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali faccia perdere rilevanza al mancato espletamento o al radicale stravolgimento della procedura medesima. (Cass. 15/7/2014 n. 16134, Pres. Lamorgese Est. Tria, in Lav. nella giur. 2014, 1025)
  8. In materia di licenziamenti collettivi, ove il datore di lavoro che proceda alla riduzione del personale intenda sopprimere un reparto della sua impresa, lo stesso non può limitare la scelta dei lavoratori da licenziare ai soli dipendenti addetti a tale reparto se questi risultano idonei – per esperienze lavorative e professionalità acquisite – a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti. Pertanto, nel caso in cui il personale impiegato dall’azienda risulti tendenzialmente omogeneo per professionalità, tutte le posizioni lavorative sono da considerare equivalenti e tutti i lavoratori sono licenziabili. (Cass. 17/3/2014 n. 6112, Pres. Miani Canevari Est. D’Antonio, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Francesco Rotondi, 897)
  9. Nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, l’individuazione dei lavoratori da estromettere deve di norma essere compiuta con riguardo all’intero complesso dell’impresa, potendo – viceversa – riguardare un solo reparto laddove il datore di lavoro dimostri si la specificità delle mansioni svolte dagli addetti a quel reparto sia la loro infungibilità rispetto ai colleghi addetti ad altre funzioni. La possibilità di dare disdetta al contratto collettivo sino a quel momento applicato spetta non già al singolo datore di lavoro, il quale non può quindi operare un recesso unilaterale, ma solamente alle associazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori che lo abbiano sottoscritto. (Cass. 31/10/2013 n. 24575, Pres. Maisano Rel. Garri, in Lav. nella giur. 2014, 182, e in Lav. nella giur. 2014, con commento di Gianluigi Girardi, 779)
  10. L’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2, L. n. 223/91 ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive e organizzative. Pertanto, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative. (Cass. 11/7/2013 n. 17177, Pres. Vidiri Est. Blasutto, in Lav. nella giur. 2013, 953)
  11. La violazione dei criteri di scelta previsti dall’art. 5 l. n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi, ed estensibili ai licenziamenti individuali in applicazione delle regole di buona fede e correttezza, non determina la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. La tutela applicabile in questi casi è quella di tipo indennitario prevista dal comma 5 dell’art. 18 Stat. Lav. (Trib. Modena 26/6/2013, Giud. Vaccari, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Maria Giovanna Greco, 805)
  12. Nell’individuazione dei criteri di scelta per i lavoratori da collocare in mobilità ai sensi della l. n. 223/1991 la contrattazione sindacale non è del tutto libera, ma deve partorire criteri oggettivi, verificabili e accertabili, tali da consentire la formazione di una graduatoria. Ove invece i criteri partoriti dalla contrattazione sindacale non rispettino tali presupposti e offrano al datore di lavoro elevati margini di discrezionalità debbono considerarsi invalidi, con conseguente nullità di tutti i licenziamenti collettivi irrogati e diritto dei lavoratori alla reintegrazione nel posto di lavoro. (Trib. Campobasso 27/4/2013, Giud. Calabria, in Lav. nella giur. 2013, 852)
  13. In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale l’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità può essere ristretta in ambito più limitato rispetto al “complesso aziendale” cui fa riferimento l’art. 5 della l. n. 223/1991; ciò tuttavia può avvenire non in base a una determinazione unilaterale del datore di lavoro, bensì esclusivamente se la predeterminazione del campo di selezione (reparto, stabilimento, ecc., e/o singole lavorazioni o settori produttivi) sia giustificata dalle esigenze tecnico-produttive e organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale. (Cass. 16/2/2012 n. 2255, Pres. Amoroso Est. Berrino, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Matteo Borzaga, “Sull’ambito spaziale di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità in caso di licenziamento collettivo”, 789)
  14. La delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità a un solo settore o reparto aziendale è consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive e organizzative che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, 3° comma, L. 23/7/91 n. 223, quando cioè gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per le quali esso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori ai quali applicare i criteri di scelta concordati o legali. Ogni delimitazione dell’area di scelta è perciò soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico produttive e organizzative che la giustificano. (Cass. 2/12/2009 n. 25353, Pres. Vidiri Est. Picone, in D&L 2009, con nota di Franco Bernini, “Licenziamento collettivo e ambito di applicazione dei criteri di scelta, 1046, e in Riv. giur. lav. e prev. 2010, con nota di Barbara Caponetti, “Licenziamento collettivo e ambito aziendale interessato”, 266, e in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Daniela Comandè, “L’ambito di applicazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi: il criterio topografico, da solo, non ‘spezza’ l’unità del complesso aziendale lungo l’asse Roma-Milano”, 771)
  15. In sede di messa in mobilità dei lavoratori a seguito di ristrutturazioni o riconversioni aziendali, dovendo la riduzione del personale seguire un “iter” procedimentale, non è consentito determinare un mutamento dei criteri di scelta del personale da sospendere, con l’abbandono dei criteri inizialmente previsti nel programma e la contestuale adozione di altri criteri diversi che lascino più ampi spazi di discrezionalità all’imprenditore, e che per di più siano suscettibili di determinare per il loro contenuto il pericolo di diversità di trattamento o illegittime forme di discriminazione tra i lavoratori, potendosi operare un mutamento dei criteri selettivi solo a seguito di ulteriore decreto di proroga (che accerti la compatibilità del cambiamento di programma già autorizzato) o distinta domanda di integrazione salariale che contempli i diversi criteri. Ne consegue che è illegittimo il licenziamento, intimato nell’ambito della procedura in applicazione dei nuovi criteri, in difetto delle indicate condizioni. (Cass. 7/1/2009 n. 81, Pres. Ianniruberto Est. Vidiri, in Lav. nella giur. 2009, 517)
  16. In caso di mancato accordo tra le Organizzazioni sindacali, i criteri di scelta indicati dalla norma (anzianità, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive) devono essere applicati in concorso tra lor, a pena di illegittimità del recesso. L’indicazione dei criteri di scelta deve essere effettuata in modo chiaro e trasparente, talché sia possibile fin dall’inizio della procedura individuare chi sarà espulso e chi rimarrà al lavoro. (Cass. 5/8/2008 n. 21138, Pres. Mattone Est. Di NUbila, in D&L 2008, 1024, e in Lav. nella giur. 2008, 1274)
  17. La comunicazione conclusiva della procedura, infatti, deve consentire di risalire alle concrete modalità di applicazione dei criteri nei confronti di ciascun destinatario della procedura (e cioè nei confronti di tutto il personale in organico) e non solo nei confronti dei lavoratori licenziati: il lavoratore deve cioè essere in grado eventualmente di contestare che, in base al criterio prescelto e alla sua concreta applicazione, non lui ma altro lavoratore avrebbe dovuto essere licenziato. (Trib. Milano 23/2/2008, D.ssa Tanara, in Lav. nella giur. 2008, 1065)
  18. Il riferimento al “complesso aziendale” di cui all’art. 5, comma 1, della L. n. 223/1991 non è ricondotto alla individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, bensì è riconducibile alle esigenze tecnico produttive e organizzative riferite al complesso aziendale stesso. Il fine cui mira l’art. 5 in questione nel dettare i criteri di scelta è quello di evitare che vi sia una scelta unilaterale e interessata del datore di lavoro tale da creare ingiustificate discriminazione e preferenze. La scelta invece di licenziare tutti i dipendenti addetti a uno stabilimento che chiude, con la conseguente cessazione di tutte le relative operazioni, è invece improntata ad assoluta oggettività e ragionevolezza ed esclude qualsiasi sospetto di discriminazione. (Trib. Milano 2/10/2007, D.ssa Sala, in Lav. nella giur. 2008, 202)
  19. Il criterio selettivo delle esigenze tecnico-produttive e organizzative posto a base della scelta dei lavoratori licenziati a esito di una procedura di mobilità ex art. L. 23/7/91 n. 22, anche se concordato con le organizzazioni sindacali, non sopporta formulazioni generiche, tali da non consentire un controllo effettivo e oggettivo delle singole posizioni lavorative e una loro comparazione al fine di una scelta improntata a razionalità e non a, sempre possibili, condotte discriminatorie o prive di qualsiasi sostegno logico-giuridico. Ne consegue che anche quando il criterio prescelto sia unico, nella comunicazione ex art. 4, 9° comma, della medesima legge, il datore di lavoro deve provvedere a specificare le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perchè lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo, al fine eventuale di contestare l’illegittimità della misura espulsiva. (Cass. 8/11/2007 n. 23275, Pres. Mattone Est. Vidiri, in D&L 2008, con nota di Ferdinando Perone, “Il licenziamento collettivo non ammette margini di discrezionalità nell’applicazione dei criteri di scelta”, 276)
  20. In ipotesi di licenziamento collettivo, a tutela del bene giuridico della trasparenza della procedura, in conformità allo scopo e al tenore letterale della norma, la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, 1° comma, prevista dall’art. 4, 9° comma, non può limitarsi a una mera enunciazione del criterio adottato, ma deve essere tale da porre i lavoratori interessati, le organizzazioni sindacali e gli organi amministrativi in condizione di controllare la correttezza dell’operazione e la rispondenza degli eventuali accordi raggiunti. (Trib. Milano 25/6/2007, Est. Di Leo, in D&L 2007, con nota di Matteo Paulli, “Oneri formali e tempestività delle comunicazioni ex art. 4 L. 223/91”, 1225)
  21. La riduzione di personale deve, in linea generale, investire l’intero complesso aziendale, potendo essere limitata a specifici rami aziendali soltanto se essi siano caratterizzati da autonomia e specificità della professionalità utilizzate, infungibili rispetto ad altre. (Cass. 14/6/2007 n. 13876, Pres. Senese Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Caffio, “Sui profili causali nei licenziamenti collettivi: rilevanza giuridica e nesso di causalità”, 185)
  22. La nozione di contestualità della comunicazione di cui all’art. 4, 9° comma, L. 23/7/91 deve essere intesa in senso proprio e rigoroso di sostanziale contemporaneità dell’esecuzione dei relativi adempimenti da parte del datore di lavoro. (Trib. Milano 14/6/2007, Est. Sala, in D&L 2007, con nota di Matteo Paulli, “Oneri formali e tempestività delle comunicazioni ex art. 4 L. 223/91”, 1225)
  23. I licenziamenti per riduzione di personale effettuati ai sensi dell’art. 4 legge n. 223 del 1991, sono inefficaci qualora siano intimati in violazione delle procedure previste dal medesimo articolo, che impone – tralaltro – la comunicazione dei criteri di scelta (predeterminati legislativamente e/o contrattualmente pattuiti) dei lavoratori coinvolti dai provvedimenti risolutivi, onde permettere il controllo della loro corretta applicazione da parte del datore di lavoro. La comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, corredato dalla puntuale indicazione delle modalità con le quali essi sono stati applicati, dunque, assume un’importanza decisiva per il controllo dell’esercizio dei poteri datoriali con riferimento alla motivazione del dingolo licenziamento. La mera indicazione, da parte del datore di lavoro, dei criteri di scelta del personale, senza l’ineludibile disamina sulla comparazione tra gli stessi e sulla loro applicabilità ai lavoratori interessati, anche in ragione della diversa anzianità di servizio e della differente situazione familiare, non soddisfa tale esigenza di verifica. Invero, non si può dare prevalenza a uno dei criteri a discapito di altri, poiché tutti devono essere presi in considerazione per formare la graduatoria dei lavoratori da licenziare. (Trib. Napoli 28/3/2007, Giud. Luparelli, in ADL 2008, con commento di Valentina Aniballi, “Criterio della pensionabilità e discrezionalità del datore di lavoro nel collocamento in mobilità”, 229)
  24. Ai fini della scelta dei lavoratori da collocare in cassa integrazione guadagni straordinaria ai sensi della legge n. 416 del 1981, è legittimo, e razionalmente giustificato, quanto affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 268 del 1994), il criterio, adottato in sede di accordo collettivo, della maggiore anzianità anagrafica e contributiva, in quanto esso consente di formare una graduatoria rigida e di essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità per il datore di lavoro (fattispecie relativa all’accordo relativo ai giornalisti professionisti dipendenti del quotidiano Il Mattino). (Cass. 26/6/2006 n. 14728, Pres. Mattone Est. MIani Canevari, in Lav. nella giur. 2007, 83)
  25. Il datore di lavoro, che proceda a una riduzione di personale motivata dalla decisione di sopprimere un reparto aziendale, non può limitare la scelta dei lavoratori da licenziare a quelli addetti al reparto stesso, ma deve prendere in considerazione la posizione di un più esteso numero di dipendenti, dando rilievo, anche in base ai criteri di correttezza e buona fede, alla possibilità di adibire detti lavoratori ad altre mansioni presso altri reparti. (Cass. 3/5/2006 n. 10198, Pres. Ianniruberto Est. De Luca, in D&L 2006, con nota di Andrea Bordone, “L. 223/91 e criteri di scelta in caso di soppressione del reparto”, 589)
  26. La scelta dei lavoratori in ipotesi di licenziamento collettivo può ben essere applicata a un solo reparto/unità dell’azienda senza doversi confrontare i criteri di cui all’accordo aziendale con gli altri lavoratori esterni al reparto da “ristrutturare”. (Cass. 8/3/2006 n. 4970, Pres. Ciciretti Rel. Cuoco, in Lav. Nella giur. 2006, 816)
  27. Con riferimento ai licenziamenti collettivi e ai criteri di scelta dei lavoratori da avviare alla mobilità, pur essendo pacifico il principio della non necessaria coincidenza tra collocandi in mobilità e lavoratori sospesi in cassa integrazione guadagni straordinaria, va precisato che, ai sensi del primo comma dell’art. 4, legge n. 223 del 1991, la procedura di mobilità opera innanzitutto per i lavoratori sospesi, atteso che la non coincidenza tra lavoratori sospesi in c.i.g.s. e destinatari della mobilità è condizionata al verificarsi di sopravvenienze rispetto alle situazioni che determinarono l’esubero del personale sospeso e alla presenza di dipendenti rimasti in servizio con mansioni fungibili rispetto alle professionalità dei cassintegrati. (Cass. 19/5/2005 n. 10591, Pres. Mattone Est. Picone, in Orient. Giur. Lav. 2005, 413)
  28. In tema di procedura di mobilità e di licenziamento collettivo, sebbene dalle disposizioni che regolano la materia non sia ricavabile un onere per l’impresa di formare una graduatoria di tutti i dipendenti, tuttavia l’indicazione delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta deve essere tale da consentire l’identificazione “fotografica” dei dipendenti prescelti per la mobilità; conseguentemente, il richiamo, come nella specie, alla necessità di “ridurre il numero degli addetti all’officina e la connesso magazzino” non consente di identificare, tra i tanti che si trovano nella stessa posizione, quelli da collocare in mobilità, inoltre, pur ammettendo che l’enunciazione, nella comunicazione, del solo criterio delle esigenze tecnico-produttive, possa intendersi come indicazione di prevalenza di tale criterio sugli altri, ciò non varrebbe comunque a soddisfare l’esigenza di corretta comunicazione delle modalità applicative ai sensi del 9° comma dell’art. 4, l. n. 223 del 1991; infatti, l’adozione del solo criterio delle esigenze tecnico-produttive è “autoapplicativo” (nel senso che ad esso non può conseguire che una e una sola modalità di applicazione, idonea all’identificazione dei dipendenti da licenziare, senza necessità di alcuna comparazione), solo in talune ipotesi, ove, ad esempio, le menzionate esigenze comportino la soppressione di mansioni infungibili svolte da un unico lavoratore. (Cass. 29/12/2004 n. 24116, Pres. Ravagnani, Est. Battimiello, in Orient. Giur. Lav. 2005, 128)
  29. Le comunicazioni alle organizzazioni sindacali e agli uffici amministrativi di cui all’art. 4, comma 9, L. n. 223/1991 devono essere fatte contestualmente alla comunicazione del licenziamento a ciascun lavoratore (nella specie è stata ritenuta tardiva la comunicazione al Centro per l’impiego effettuata quattro giorni dopo la comunicazione del licenziamento) e devono contenere non solo l’indicazione dei criteri di scelta applicati per la selezione, ma anche l’indicazione delle modalità di applicazione degli stessi. (Corte d’appello Milano 31/8/2004, Pres. De Angelis Rel. Trogni, in Lav. nella giur. 2005, 292)
  30. In tema di procedura di mobilità, la previsione di cui al nono comma dell’art. 4 della legge n. 223/1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con cui dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori – e non lui – avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o licenziati. (In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inefficace un licenziamento con collocamento in mobilità, nel presupposto dell’inadeguatezza di una comunicazione nella quale il datore di lavoro si era limitato ad indicare unicamente il criterio selettivo convenuto nell’accordo aziendale ed individuato nelle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. (Cass. 9/8/2004 n. 15377, Pres. Mileo Rel. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2005, 129)
  31. Deve ritenersi legittima la definizione dei criteri di scelta per i licenziamenti collettivi mediante accordo aziendale intervenuto nel corso delle trattative ex art. 4 L. 23/7/91 n. 223, essendo anzi a tal fine maggiormente coerente e consequenziale un accordo appositamente concluso nel corso della trattativa di mobilità rispetto ad un precedente, ancorchè legittimo, contratto nazionale di natura generale ed a carattere normativo. (Corte d’Appello Firenze 11/1/2002, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2002, 695, con nota di Irene Romoli, “Licenziamenti per riduzione di personale e criteri di scelta dei lavoratori”)
  32. Nell’ambito di una procedura di mobilità conclusa da un accordo sindacale che stabilisce come criteri di scelta dei lavoratori l’accompagnamento alla pensione e la volontarietà e che prevede la possibile diminuzione del numero degli esuberi in relazione all’eventuale trasformazione a part-time di rapporti di lavoro a tempo pieno, è illegittimo il licenziamento di una lavoratrice in base al solo criterio delle esigenze tecnico-produttive in relazione al rifiuto della stessa alla trasformazione a part-time del proprio rapporto di lavoro, anche qualora un accordo sindacale coevo, ma distinto rispetto a quello conclusivo della procedura di mobilità, preveda che il numero complessivo degli esuberi aziendali sarebbe stato aumentato in proporzione al numero dei lavoratori che avrebbero rifiutato la trasformazione del posto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. (Trib. Busto Arsizio 5/12/2001, Est. Guadagnino, in D&L 2002, 431)
  33. In tema di impugnativa di licenziamento collettivo per riduzione di personale, grava sul datore di lavoro, a fronte della mera contestazione del lavoratore ricorrente, l’onere di provare la puntuale osservanza dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, con la specificazione della valutazioni comparative compiute (Cass. 15/2/01, n. 2188, pres. Amirante, est. De Matteis, in Foro it. 2001, pag. 1566)
  34. L’assenza di una reale predeterminazione di criteri di carattere generale e astratto per la scelta del personale da licenziare collettivamente comporta l’illegittimità del licenziamento intimato al termine della relativa procedura di mobilità (Trib. Catania 28 aprile 2000, pres. Branciforti, est. Mazzeo, in D&L 2000, 931)
  35. È illegittimo il licenziamento collettivo intimato applicando criteri di scelta che avevano portato all’individuazione di un numero di lavoratori superiore a quello dichiarato esuberante (Trib. Milano 26/4/97, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 772, n. Summa, Licenziamento collettivo e criteri di scelta: una fattispecie particolare)

 

 

Comparazione dei lavoratori

  1. Ancora sulla comparazione, nel licenziamento collettivo, tra dipendenti di un solo reparto.
    In un giudizio in cui una lavoratrice, licenziata nell’ambito di una riduzione di personale, aveva lamentato che la comparazione per individuare il personale da avviare a mobilità era stata limitata nei suoi confronti ai soli colleghi del suo reparto, nonostante che ella vantasse precedenti esperienze lavorative in altri uffici dell’azienda, la Cassazione, accogliendo il ricorso per violazione dei criteri di scelta, ribadisce la propria giurisprudenza, alla stregua della quale se la riduzione investe un unico reparto aziendale è lecito limitare la scelta ai dipendenti di tale unità, salvo che questi dimostrino pregresse esperienze in altri reparti, nel qual caso la comparazione va effettuata coinvolgendo anche gli addetti ad essi, di pari livello professionale. (Cass. 31/3/2023 n. 9128, Pres. Esposito Rel. Michelini, in Wikilabour, Newsletter n. 7/23)
  2. La comparazione dei lavoratori, al fine della scelta di quelli che devono essere licenziati per riduzione del personale e avviati alla procedura di mobilità, può essere effettuata avendo riguardo soltanto ai lavoratori addetti al settore o al ramo interessato dalla chiusura o dalla ristrutturazione, qualora si accerti che queste riguardino effettivamente in via esclusiva detto settore o ramo d’azienda ed esauriscano in tale ambito i loro effetti. (Cass. 23/5/2008 n. 13381, Pres. Mattone Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Maria Teresa Salimbeni, “La Cassazione ribadisce l’acausalità del licenziamento collettivo e una valenza attenuata degli obblighi procedurali ai fini della legittimità del procedimento”, 915)
  3. In tema di licenziamento per riduzione del personale disposto in applicazione dell’art. 5, L. 23/7/91 n. 223, l’imprenditore che abbia attribuito a ogni dipendente un identico punteggio di professionalità, con ciò ritenendo tutti i lavoratori ugualmente necessari, non può successivamente effettuare comparazioni in modo da sottrarre alla scelta i lavoratori di un reparto piuttosto che un altro, senza violare la regola di buona fede e tenuto conto che le esigenze tecnico-produttive e organizzative richiamate dalla suddetta norma – da un lato ai fini dell’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità in relazione al complesso aziendale e dall’altro quale criterio di scelta alternativo in mancanza di contratti collettivi stipulati con i sindacati – restano sempre le stesse, sia in caso di accordo con le Organizzazioni sindacali, sia in caso contrario. In ogni caso, l’onere di provare la corretta applicazione dei criteri di scelta grava sul datore di lavoro. (Cass. 20/11/2007 n. 24044, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in D&L 2008, con nota di Ferdinando Perone, “Il licenziamento collettivo non ammette margini di discrezionalità nell’applicazione dei criteri di scelta”, 276)
  4. L’art. 4, 3° comma, L. 23/7/91 n. 223, prevede che il datore di lavoro indichi, per le posizioni lavorative in esubero, quali siano i “profili professionali”, rendendo, così, esplicito come la comparazione tra i dipendenti eccedenti non debba essere attuata tanto con riguardo all’inquadramento, quanto in relazione alla fungibilità delle mansioni svolte in relazione al profilo professionale reputato in esubero. (Trib. Milano 25/6/2007, Est. Di Leo, in D&L 2007, con nota di Matteo Paulli, “Oneri formali e tempestività delle comunicazioni ex art. 4 L. 223/91”, 1225)
  5. Nel licenziamento per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, non deve interessare necessariamente l’intera azienda, ma può essere effettuata, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale. (Cass. 8/3/2006 n. 4970 Pres. Ciciretti Est. Cuoco, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Tiziana Vettor, “Licenziamento collettivo: ambito della comparazione dei criteri di scelta e requisiti di legittimità delle comunicazioni finali”, 163)
  6. In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a una unità produttiva o a uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire nell’ambito della singola unità produttiva ovvero dei settori interessato alla ristrutturazione; all’interno dell’unità o settori suddetti assume rilievo non la categoria di inquadramento – la quale constando di più profili scarsamente significativa della reale organizzazione del lavoro – ma il profilo professionale, come si deduce dall’art. 4 della l. n. 223 del 1991. (Cass. 19/5/2005 n. 10590, Pres. Mattone Est. Picone, in Orient. Giur. Lav. 2005, 408)
  7. In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale l’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità può essere ristretta in ambito più limitato rispetto al “complesso aziendale” cui fa riferimento l’art. 5 della l. n. 223 del 1991, ma ciò può avvenire non in base ad una determinazione unilaterale del datore di lavoro bensì esclusivamente se la predeterminazione del campo di selezione (reparto, stabilimento ecc., e/o singole lavorazioni o settori produttivi) sia giustificata dall’esigenze tecnico produttive ed organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale. (Cass. 24/1/2002, n. 809, Pres. Genghini, Rel. La Terza , in Giur. italiana 2003, 1155, con nota di Mariangela Vizioli, Sulla determinazione dell’ambito aziendale interessato alla riduzione di personale)
  8. Ai fini della determinazione dell’ambito di attuazione del licenziamento collettivo per riduzione del personale e ai fini dell’individuazione dei licenziandi, in linea di principio deve tenersi conto di tutti i lavoratori dell’azienda (salvo che questa risulti ripartita in singole unità produttive), in modo da comparare tra di loro le posizioni di lavoratori di analoga professionalità e di simile livello; tuttavia, quando le parti abbiano concordato a livello sindacale di attribuire un peso predominante alle esigenze tecnico-produttive, ai fini della scelta del personale da collocare in mobilità, a norma della L. 223/91, è solo a questo (e non agli altri criteri stabiliti dalla legge) che deve farsi riferimento per determinare l’ambito di valutazione delle posizioni dei lavoratori. Tale principio si applica anche nella particolare ipotesi in cui i compiti già attribuiti al lavoratore licenziato siano frazionati e distribuiti tra più dipendenti (e svolti durante l’orario normale o straordinario di lavoro) (Cass. 29/11/99 n. 13346, pres. De Tommaso, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 791, con nota di Vallauri, Ambito aziendale interessato dalla riduzione del personale, individuazione dei criteri di scelta applicabili e obbligo di repechage)
  9. Ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 L. 23/7/91 n. 223, allorché sia riscontrabile una fungibilità tra le professionalità coinvolte dal denunciato esubero di personale e quelle presenti in altre sedi dell’azienda, la comparazione deve avvenire tra tutti i lavoratori operanti nell’ambito dell’intero complesso aziendale su base nazionale (nel caso di specie, a seguito della soppressione di alcuni servizi di wagon-lits il denunciato conseguente esubero era stato attribuito alla sola sede di partenza e non anche alle sedi di destinazione dislocate sul territorio nazionale) (Trib. Milano 3/9/99, est. Frattin, in D&L 1999, 823)
  10. In caso di licenziamento collettivo, la comparazione, ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 L. 23/7/91 n. 223, deve avvenire tra tutti i lavoratori con analoghe professionalità operanti nell’ambito dell’intero complesso aziendale, e non solo tra i lavoratori del reparto che debba eventualmente essere soppresso (Trib. Milano 20 gennaio 1999, pres. Mannacio, est. Sbordone, in D&L 1999, 318)
  11. La comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità deve avvenire nell’ambito dell’intero complesso organizzativo o produttivo, e in modo che concorrano lavoratori di analoghe professionalità e di similare livello di specializzazione (Cass. 4/11/97 n. 10832, pres. Pontrandolfi, est. Mazzarella, in D&L 1998, 366. In senso conforme, v. Pret. Milano 24/7/97, est. Atanasio, in D&L 1998, 99)

 

 

Applicazione dei criteri legali

  1. È illegittima la messa in mobilità disposta omettendo l’esame comparativo dei criteri di scelta ex art. 5, 1° comma, L.23/7/91 n.223 in concorso tra loro e attribuendo rilevanza al solo criterio delle esigenze tecnico-organizzative (Pret. Milano 24/7/97, est. Atanasio, in D&L 1998, 99)
  2. Ove l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità avvenga alla stregua dei criteri indicati dall’art. 5 c. 1 L. 223/91, il datore di lavoro non può arbitrariamente – a pena di nullità dei licenziamenti – valorizzare eccessivamente le esigenze tecnico – produttive e l’anzianità a discapito dei carichi di famiglia che, a differenza dei primi due, rientranti nella sfera degli interessi del datore di lavoro, intende attenuare l’impatto sociale che il licenziamento può avere nei confronti dei soggetti deboli della società (Pret. Milano 24/4/96, est. Atanasio, in D&L 1997, 91)
  3. In assenza di criteri in sede sindacale, il datore di lavoro che intenda procedere a un licenziamento collettivo deve applicare, per l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, i criteri previsti dall’art. 5 c. 1 L. 223/91, in concorso tra di loro; sono illegittimi i singoli licenziamenti intimati senza la concorrente applicazione dei criteri concernenti i carichi di famiglia e l’anzianità di servizio, con conseguente emanazione delle pronunce previste dall’art. 18 SL (Pret. Milano 8/1/96, est. Negri della Torre, in D&L 1996, 393. V. in senso conforme Pret. Milano 12/7/94, est. Canosa, in D&L 1995, 117)
  4. Il datore di lavoro che intenda procedere a riduzione del personale mediante procedura di mobilità ai sensi degli artt. 4 e 24 L. 223/91, deve applicare, a pena di inefficacia dei licenziamenti, i criteri di cui al primo comma dell’art. 5 L. 223/91 per la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, qualora l’accordo sindacale raggiunto si limiti a indicare il numero complessivo dei lavoratori in esubero (Pret. Milano 29/11/94, est. Mascarello, in D&L 1995, 336)

 

 

Accordo sui criteri

  1. Va riconosciuta la legittimità dell’accordo sindacale che dia rilievo ai fini dell’individuazione dei lavoratori da licenziare alle sole esigenze tecnico-produttive senza considerare i criteri del carico di famiglia e dell’anzianità di servizio, così limitando la scelta dei lavoratori ad una categoria di dipendenti o prevedendo che la scelta debba essere effettuata reparto per reparto o limitatamente a un solo settore e non con riferimento a tutti i dipendenti in servizio in azienda. (Trib. Milano 4/4/2014, Giud. Di Lorenzo, in Lav. nella giur. 2014, 824)
  2. Non è legittima l’adozione, nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali relativo all’attuazione di licenziamenti per riduzione di personale, dell’unico criterio di scelta consistente nella prossimità al pensionamento, se lo stesso non permetta l’esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento, in modo da poter essere applicato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro. (Cass. 22/6/2012 n. 10424, Pres. Roselli Est. Toffoli, in Orient. Giur. Lav. 2012, 382)
  3. Gli accordi collettivi che individuano i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare debbono rispettare oltre i principi costituzionali, le norme imperative e il principio di non discriminazione, anche il principio di razionalità alla stregua del quale i criteri di scelta debbono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità (nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto non ragionevole il criterio di scelta dell’acquisizione del lavoratore licenziando del diritto a pensione di vecchiaia o di anzianità) (Cass. 24/4/99, n. 4097, in Dir. Lav. 2000, pag. 78)
  4. Tramite accordo aziendale, a seguito dell’esame congiunto ex art. 4 L. 223/91 e col consenso dei sindacati, possono essere fissati criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità diversi da quelli indicati dall’art. 5 della stessa legge, purché i criteri concordati non sovvertano le priorità di quelli legali, e sempre che non siano del tutto generici (nel caso di specie, è stato ritenuto che illegittimamente era stato individuato il criterio del conseguimento della pensione durante la mobilità e che era generico il criterio riguardante le “specificità individuali”) (Pret. Monza, sez. Desio, 30/7/94, est. Milone, in D&L 1995, 107)

 

 

Criterio della pensionabilità

  1. Il criterio di scelta (dei lavoratori) dell’accesso alla pensione, adottato tramite accordo sindacale nell’ambito di un licenziamento collettivo diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, è applicabile a tutti i dipendenti dell’impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali riferiti dal datore nella comunicazione di avvio della procedura. (Cass. 30/9/2015 n. 19457, Pres. Bandini Est. Bronzini, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Vincenzo Del Gaiso, “Brevi note sul licenziamento collettivo finalizzato alla riduzione del costo del lavoro”, 16)
  2. La collocazione in mobilità fondata sull’unico criterio della prossimità al pensionamento viola il 2°, 3° e 9° comma dell’art. 4 L. 23/7/91 n. 223. (Corte app. Firenze 27/3/2006, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2006, con nota di Laura Calafà, “Licenziamenti collettivi alle Poste e discriminazioni in base all’età: la prima applicazione nazionale della sentenza Mangold”, 910)
  3. Sussiste una discriminazione in base all’età ai sensi del D.Lgs. 9/7/03 n. 216 nell’accordo sindacale che individui la possibilità del lavoratore di accedere al pensionamento come unico criterio in base al quale collocare in mobilità i lavoratori. (Corte app. Firenze 27/3/2006, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2006, con nota di Laura Calafà, “Licenziamenti collettivi alle Poste e discriminazioni in base all’età: la prima applicazione nazionale della sentenza Mangold”, 910)
  4. In materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali può anche essere unico e consistere nella vicinanza al pensionamento, in quanto esso permette di formare una graduatoria rigida e può essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro. Tuttavia, ove quello della vicinanza al pensionamento sia l’unico criterio prescelto e lo stesso, applicato alla realtà, si riveli insufficiente ad individuare i dipendenti da licenziare, esso diviene automaticamente illegittimo se non combinato con un altro criterio di selezione interna. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., ha ritenuto insufficiente il criterio della prossimità al pensionamento, in quanto, con accertamento in fatto, era emerso che erano in possesso dei requisiti per accedere al prepensionamento quindici dipendenti, dei quali solo cinque erano stati collocati in mobilità, e tra questi vi era un altro dipendente del medesimo livello del lavoratore licenziato, sicchè non era possibile operare il controllo sulle ragioni che avevano indotto al licenziamento dell’uno in luogo dell’altro). (Cass. 2/9/2003 n. 12781, Pres. Mileo, Rel. Filadoro, in Lav. nella giur. 2004, 121, con commento di Giorgio Mannacio)
  5. In materia di collocamenti in mobilità e di licenziamenti collettivi, ove il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali abbiano contrattualmente convenuto un unico criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, costituito dalla possibilità di accedere al prepensionamento, e si rendesse possibile il mantenimento in servizio di alcuni lavoratori prepensionabili, tale fatto non implica automaticamente la pretestuosità e l’illegittimità del criterio di scelta concordato, ma occorrerà valutare che il margine di discrezionalità del datore di lavoro nella scelta dei lavoratori prepensionabili da licenziare non sia utilizzato a mero scopo discriminatorio in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Ne consegue che nelle ipotesi in cui il criterio di scelta concordato sia insufficiente, ancorché legittimo, l’accertamento non deve più essere indirizzato all’individuazione del criterio di scelta, ma solamente alla fase attuativa della concreta applicazione di quello concordato, secondo il principio generale di correttezza o buona fede nell’esecuzione del contratto (con applicazione quindi di criteri di razionalità, obiettività e non discriminazione nei confronti del lavoratore prescelto). (Cass. 19/9/2002, n. 13393, Pres. Dell’Anno, Rel. Mazzarella, in Lav. nella giur. 2003, 552, con commento di Gianluigi Girardi)
  6. Posto che l’art. 59, comma 6, l. 27/12/97, n. 449 non ha efficacia derogatoria della normativa di cui alla l. 23/7/91, n. 223, sono illegittimi i licenziamenti collettivi comminati in esecuzione di un accordo sindacale che individua come eccedentari tutti i dipendenti che hanno raggiunto la massima contribuzione utile per la pensione di anzianità, in assenza della precisa e analitica determinazione delle eccedenze effettive e in assenza dell’individuazione dell’ambito organizzativo entro il quale deve operare il criterio di selezione concordato ai sensi dell’art. 5, l. 23/7/91, n. 223, in quanto viene a mancare la coerenza tra il licenziamento e le esigenze tecnico – produttive e organizzative del complesso aziendale (Corte Appello Milano 23/2/01, pres. Mannaccio, est. Ruiz, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 137)
  7. Ove il datore di lavoro e le Oo. Ss. abbiano contrattualmente convenuto un unico criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, costituito dalla possibilità di accedere al prepensionamento, e il datore di lavoro abbia mantenuto in servizio alcuni lavoratori prepensionabili, tale fatto non implica necessariamente la pretestuosità e illegittimità del criterio di scelta concordato, ma il giudice del merito dovrà valutare l’esecuzione del contratto a norma dell’art. 1375 c.c., tenendo presenti la dinamica della vita aziendale e il criterio stabilito dall’art. 5, 1° comma, l. n. 223/91, secondo cui l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, in attuazione dei criteri di scelta contrattuali, deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale. (Cass. 28/7/00, n. 9956, pres. Genghini, est. Coletti, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 579, con nota di Caro, Ammissibilità e tecnica di applicazione del criterio del prepensionamento per la scelta dei lavoratori da porre in mobilità)
  8. L’individuazione, anche mediante accordo sindacale, del numero del personale eccedente coinvolto da una procedura di mobilità unicamente sulla base del possesso di un determinato requisito di anzianità contributiva da parte dei dipendenti, contrasta con la norma di cui all’art. 5 della L. 23/7/91 n. 223, in quanto svincola la decisione di riduzione del personale e delle dimensioni di tale riduzione da obiettive esigenze riorganizzative dell’impresa (Pret. Milano 22/3/99, est. Sala, in D&L 1999, 541)
  9. È illegittimo l’accordo collettivo stipulato ex art. 5, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223, nella parte in cui prevede quale unico criterio di scelta quello della c.d. “pensionabilità” (consistente cioè nell’individuazione dei licenziandi in base alla loro possibilità di accedere al trattamento pensionistico, con totale pretermissione della valutazione delle altre concrete situazioni personali, contributive e familiari), in ragione delle seguenti considerazioni: a. l’applicazione di quell’unico criterio, senza la ponderazione dello stesso con altri criteri “sociali”, si traduce nella violazione del principio di ragionevolezza (cui i criteri contrattuali devono sottostare anche alla luce della sentenza n. 268/94 della Corte Cost.), conducendo, in particolare, a esiti incongrui con il sistema legislativo in materia di mobilità (sistema nel quale i criteri legali di scelta sono dettati in attuazione di un principio solidaristico di ordine costituzionale); b. l’applicazione di quel criterio, prevedendo o consentendo di fare riferimento per il personale femminile a un’età inferiore a quella del personale maschile, viola il principio di parità di trattamento sancito dalla L.10/4/91 n. 125 (e ribadito specificamente dall’art. 8 della L.19/7/93 n.236); c. a maggior ragione sarebbe violato il principio di ragionevolezza e congruità qualora, come nel caso di specie, la scelta dei lavoratori da licenziare fosse attuata non sulla base dell’anzianità contributiva effettiva (quella cioè risultante dai dati reperiti dagli istituti previdenziali), ma sulla base dell’anzianità contributiva risultante dalla documentazione in possesso dell’azienda (Pret. Milano 28/11/96, est. Muntoni, in D&L 1997, 377)
  10. Il criterio di scelta individuato dall’accordo collettivo, ex art. 5 L. 223/91, relativo alla possibilità del lavoratore di accedere direttamente alla pensione nel corso o al termine della mobilità, deve considerarsi irragionevole e indeterminato qualora comporti il rischio di un’incontrollabile discrezionalità del datore di lavoro nella fase di concreta individuazione del lavoratore da licenziare, per l’assenza di meccanismi correttivi o integrativi che consentano di far fronte con criteri oggettivi alla necessità di operare un’ulteriore selezione tra i lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici (Pret. Milano 26/3/96, est. Mascarello, in D&L 1996, 1029, nota Scarpelli)
  11. Il criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, concordato sindacalmente, basato sul raggiungimento dei requisiti per il collocamento in quiescenza, è in via di principio legittimo, essendo criterio oggettivo e non irrazionale; diviene generico e irragionevole in concreto – con conseguente illegittimità dei licenziamenti irrogati e ordine di reintegrazione in servizio -, qualora dalla sua applicazione derivi un numero di lavoratori superiore a quelli in esubero, in quanto in tal caso non residua un criterio prestabilito e certo con il quale effettuare la seconda selezione, essendo i criteri legali applicabili solo in mancanza di un accordi sindacale e non in via suppletiva alle carenze dello stesso (Pret. Milano 26/7/95, est. Vitali, in D&L 1996, 105, nota FRANCESCHINIS, In tema di criteri di scelta nella procedura di mobilità)
  12. In tema di licenziamento collettivo, è legittimo, e prevalente sui criteri legali, il criterio convenzionale di scelta dei lavoratori aventi diritto a un trattamento di quiescenza (Pret. Napoli, sez. Pozzuoli, 4/10/95, est. Giordano, in D&L 1996, 786, nota PERRINO, Autonomia collettiva e determinazione dei criteri di scelta. In senso conforme, v. Pret. Milano 22/11/94, est. Muntoni, in D&L 1995, 310)

 

 

Criterio della preventiva sospensione in CIG

  1. E’ illegittima la messa in mobilità in base al criterio della precedente collocazione in Cigs che sia stata annullata per decisione giudiziale (Trib. Catania 10 luglio 2000, est. Meliadò, in D&L 2000, 936)
  2. E’ illegittimo il criterio di scelta, adottato ai fini dell’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, che sia unicamente fondato sulla preventiva collocazione in Cigs dei lavoratori (Trib. Catania 10 luglio 2000, est. Meliadò, in D&L 2000, 936)
  3. E’ illegittima la messa in mobilità disposta in riferimento alla preventiva collocazione in Cigs e alla mancanza di un impiego in altre attività, laddove nel periodo di sospensione vi siano state scelte unilaterali dell’imprenditore tali da rendere il criterio solo finalizzato a ricomprendere nei licenziamenti i lavoratori residuati alla Cigs e comunque quando la sospensione in Cigs sia stata dichiarata illegittima (Trib. Milano 5 novembre 1999, est. Vitali, in D&L 2000, 143)
  4. E’ illegittimo individuare puramente e semplicemente i lavoratori da porre in mobilità in quelli già in C.i.g.s., senza indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta (Pret. Vasto 28/5/99, est. Cristino, in Lavoro giur. 2000, pag. 249, con nota di Nunin)
  5. E’ illegittima la scelta del personale da licenziare, nell’ambito di una procedura di mobilità, operata sulla base del criterio prioritario della permanenza della situazione di sospensione in Cigs del personale coinvolto, sia quando tale permanenza derivi da precedenti decisioni datoriali di reimpiego di parte del personale sospeso, sia nel caso in cui l’atto di sospensione in Cigs sia stato nel frattempo annullato da una decisione giudiziale (Pret. Milano 27/2/99, est. Marasco, in D&L 1999, 309)
  6. E’ illegittima la scelta del personale da licenziare nell’ambito di una procedura di mobilità sulla base del criterio prioritario della permanenza della situazione di sospensione con intervento della Cigs del personale coinvolto quando tale sospensione sia stata annullata da una decisione giudiziale e comunque in quanto tale criterio, per la disomogeneità delle esigenze aziendali poste a base, rispettivamente, della Cigs e della riduzione di personale e per la sproporzione tra numero di cassaintegrati e quello, nettamente minore, dei licenziandi, finisce per attribuire al datore di lavoro un ampio potere di scelta dei lavoratori da estromettere (Pret. Milano 31/12/98, est. Di Ruocco, in D&L 1999, 310)
  7. Nel caso in cui i lavoratori da collocare in mobilità siano stati individuati utilizzando come criterio di scelta, in sostituzione di quelli previsti dall’art. 5, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223, la situazione di sospensione in Cigs degli stessi, l’annullamento giudiziale di tale sospensione determina anche l’illegittimità della scelta ai fini della collocazione in mobilità (Pret. Milano 9/12/98, est. Ianniello, in D&L 1999, 90. In senso conforme, v. Pret. Milano 9/3/99, est. Atanasio, in D&L 1999, 534; Pret. Milano 24/4/99, est. Frattin, in D&L 1999, 535)

 

 

Altri criteri

  1. L’insopprimibile esigenza di trasparenza delle determinazioni nei confronti dei lavoratori coinvolti in una procedura di riduzione del personale comporta, nell’ipotesi in cui sia interessata l’intera azienda nelle sue varie articolazioni territoriali, l’illegittimità dell’individuazione – espressa o tacita – di differenti criteri di scelta per le varie sedi territoriali, qualora nell’accordo stipulato con il sindacato tale differenziazione non sia motivata da una diversa ragione tecnico-produttiva cui legittimamente connettere in via causale il diverso sistema di scelta del personale in esubero, in ogni caso sottoposto alla successiva verifica di ragionevolezza e non discriminazione. (Corte d’Appello Firenze 11/1/2002, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2002, 695, con nota di Irene Romoli, “Licenziamenti per riduzione di personale e criteri di scelta dei lavoratori”)
  2. Sono inefficaci i licenziamenti dei dipendenti, qualora l’unico criterio di scelta utilizzato per individuarli sia costituito dal rifiuto opposto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, anche se tale rifiuto può determinare oggettivi problemi tecnico-organizzativi (Pret. Busto Arsizio, sez. Saronno, 16/4/97, est. Perfetti, in D&L 1997, 532)

 

 

Casistica

  1. La scelta imprenditoriale, assolutamente insindacabile in sede giudiziale, della stagionalità dell’attività e della conseguente riduzione dei costi attuata attraverso il licenziamento collettivo di tutto il personale a tempo indeterminato, e il mantenimento del solo personale a tempo determinato, concretizza una trasformazione del lavoro che giustifica il ricorso alla procedura collettiva. (Trib. Padova 17/7/2013, Giud. Bortot, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Valeria Nuzzo, “Quanto la ‘forma comune di rapporto di lavoro’ diventa incompatibile con l’organizzazione datoriale”, 44)
  2. Non può qualificarsi come discriminatorio il licenziamento collettivo che interessi tutti e solo i lavoratori a tempo indeterminato ancora in forza dell’impresa – avendo gli altri dipendenti aderito alla proposta di trasformazione dei rapporti in contratti a termine – se rispondente all’esigenza organizzativa dell’azienda di sospendere il sinallagma contrattuale nel periodo di sospensione dell’attività: è infatti la finalità perseguita a orientare in modo vincolante l’individuazione dei lavoratori da licenziare. (Trib. Padova 5/6/2013, Giud. Dallacasa, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Valeria Nuzzo, “Quanto la ‘forma comune di rapporto di lavoro’ diventa incompatibile con l’organizzazione datoriale”, 43)
  3. È legittimo il licenziamento di tutti i lavoratori che non avevano aderito alla proposta concordata in sede sindacale di trasformazione dei contratti individuali di lavoro da full time a part time, sia perché la suddetta proposta era dettata da esigenze organizzative dell’azienda, formalmente esplicitate negli accordi sindacali, sia perché non vi era da effettuare alcuna comparazione e/o scelta tra i lavoratori, versando tutti nella stessa situazione. (Trib. Bari 16/5/2013, Giud. Tarantino, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Valeria Nuzzo, “Quanto la ‘forma comune di rapporto di lavoro’ diventa incompatibile con l’organizzazione datoriale”, 44)
  4. L’art. 14 del d.lgs. 18/99 che prevede il passaggio dei lavoratori addetti ai servizi aeroportuali dal cedente al cessionario in caso di trasferimento di attività ha efficacia limitata a trenta mesi dalla sua entrata in vigore. Pertanto, ogni trasferimento di lavoratori successivo a tale termine si configura alla stregua di un licenziamento collettivo. (Trib. Milano 27/8/2005, Est. Vitali, in Orient. Giur. Lav. 2005, 611)
  5. Nel caso in cui il criterio di scelta previsto per l’effettuazione di un licenziamento collettivo sia l’adibizione a un’unità produttiva soppressa, è illegittimo, per violazione dell’art. 5, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223, il licenziamento del lavoratore inviato in trasferta, e non definitivamente trasferito, presso tale unità produttiva (Pret. Milano 25/3/97, est. Curcio, in D&L 1997, 775)
  6. È illegittimo il licenziamento intimato, all’esito della procedura ex art. 4 l.23/7/91 n.223, a un lavoratore la cui mansione non rientri tra i profili professionali comunicati ai sensi del 3° comma della norma citata e il cui nominativo non sia stato comunicato ai sensi del 9° comma della stessa norma (Nella fattispecie, al momento delle comunicazioni in questione il lavoratore era stato colpito da un precedente licenziamento e pendeva ancora la causa promossa avverso il primo atto di recesso) (Trib. Milano 30/11/96, pres. Mannacio, est. Gargiulo, in D&L 1997, 297)
  7. E’ inefficace, ai sensi dell’art. 3 c. 3 L. 223/91, il licenziamento intimato a più di 5 dipendenti dal curatore del fallimento, per impossibilità sopravvenuta a causa della dichiarazione del fallimento della società con oltre 15 dipendenti, senza rispettare la procedura di mobilità prevista dall’art. 4 della legge stessa (Pret. Milano 24/9/96, est. Chiavassa, in D&L 1996, 939. In senso conforme, v. Pret. Milano 27/9/94, est. Peragallo, in D&L 1995, 421, nota QUATTROMINI)
  8. Sono illegittimi i licenziamenti collettivi dei soci lavoratori di una cooperativa, qualora vengano comminati in violazione della procedura di cui agli artt. 1, 4, 24 L. 223/91, con il conseguente obbligo per la società di reintegrare i soci lavoratori e di corrispondere loro le retribuzioni globali di fatto dal recesso all’effettiva reintegra (Pret. Milano 17/11/95, est. Taraborrelli, in D&L 1996, 398, nota Dal Lago)

 

 

Dequalificazione ex art. 4 c. 11 L. 223/91

  1. Gli accordi sindacali stipulati nel corso di procedure di mobilità ex art. 4, 11° comma, l. 23/7/91, n. 223, possono attribuire all’impiegato anche mansioni inferiori proprie dell’operaio (Cass. 7/9/00, n. 11806, pres. Ianniruberto, est. Stile, in Foro it. 2000, I, 3472; in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 275, con nota di Mancini, Meglio il lavoro manuale che l licenziamento)
  2. Nel caso di violazione dei criteri di scelta concordati in sede di accordo concluso nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, deve ritenersi illegittimo il demansionamento del lavoratore asseritamente disposto ai sensi dell’art. 4, 11° comma, L. 23/7/91 n. 223, presupponendo tale norma l’osservanza delle disposizioni previste dalla legge e dall’accordo sindacale in materia di criteri di scelta (Pret. Milano 21/3/98, est.Vitali, in D&L 1998, 726)

 

 

Indennità di mobilità

 

Questioni di legittimità costituzionale

  1. Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, l. n. 223/91, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. (Corte cost. 1/7/00, n. 335, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 851; in Lavoro giur. 2001, pag. 51, con nota di Mannacio, Problemi costituzionali in tema di indennità di mobilità)
  2. Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7, 3° comma, l. 23/7/91, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di Direttive della Comunità Europea, avviamento al lavoro e altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), 1, 5° comma, 2 e 3, 2° comma, del decreto legge 16/5/94, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, 1° comma, l. 19/7/94, n. 451, e dell’art. 54, 12° comma, l. 27/12/97, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), sollevate in riferimento agli artt. 2, 3 e 38, 2° comma, Cost., nella parte in cui non prevedono un adeguamento monetario dell’indennità di mobilità. Infatti, mentre la cassa integrazione presuppone la prospettiva di una ripresa dell’attività lavorativa, l’iscrizione nelle liste di mobilità, cui seguono gli effetti indicati nella sentenza n. 413/95 Corte Cost., implica lo scioglimento di quel rapporto. Alla luce della considerazione che è proprio la permanenza del rapporto di lavoro (esistente solo per il lavoratore in cassa integrazione) a spiegare il riconoscimento di un periodico adeguamento dell’emolumento previdenziale, la scelta di non adeguare l’indennità di mobilità non appare irrazionale (Corte Cost. 9/6/00, n. 184, pres. Mirabelli, est. Marini, in Riv. Giur. Lav. 2001, pag. 247, con nota di Mazziotti, Superamento della scala mobile e adeguamento al costo della vita delle prestazioni di mobilità)
  3. Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 4° e 9°, L. 23/7/91 n. 223, in combinato disposto con gli artt. 6, 1° comma e 7, 1° comma della medesima legge, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., nella parte in cui condizionerebbe l’iscrizione nelle liste di mobilità nel caso di cessazione di attività al comportamento del datore di lavoro; infatti, nel caso in cui questi ometta di porre in essere gli adempimenti necessari per la suddetta iscrizione, trova applicazione l’art. 4, 1° comma, DL 20/5/93 n. 236, convertito con modificazioni nella L. 19/7/93 n. 236, che consente al lavoratore di inoltrare personalmente richiesta di iscrizione con conseguente diritto, sussistendone i requisiti contributivi, all’indennità di mobilità (Corte Cost. 21/1/99 n. 6, pres. Granata, rel. Ruperto, in D&L 1999, 283, n. PAGANUZZI)

 

 

In genere

  1. L’indennità di mobilità ha natura di prestazione previdenziale, ne consegue che – ai fini della proposizione dell’azione giudiziale – si applica il termine di decadenza pari a un anno previsto dall’art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito in legge, con modifiche, dalla l. 14 novembre 1992, n. 438. (Cass. 20/12/2011 n. 27674, Pres. Miani Canevari Rel. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2012, 308)
  2. L’indennità di mobilità erogata dall’INPS è compatibile con la pensione privilegiata erogata dall’INPDAP per infortunio occorso prima del raggiungimento dell’età pensionabil, dal quale è dipesa l’inidoneità al servizio stesso, stante la natura risarcitoria che va riconosciuta al suddetto trattamento pensionistico. (Corte appello Ancona 24/5/2007, Pres. Taglienti Est. Bandini, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Daniele Carbone, “Sulla cumulabilità tra pensione privilegiata INPDAP e indennità di mobilità”, 205)
  3. Nella base di calcolo dell’indennità, di cui all’art. 7 della L. n. 223 del 1991, sono inclusi gli emolumenti previsti dalla normativa sul trattamento straordinario di integrazione salariale e corrispondenti ai concetti di “retribuzione globale” (L. n. 1115 del 1968), “retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate” (L. n. 164 del 1975) e “retribuzione di fatto corrispondente all’orario contrattuale ordinario percepito nell’ultimo mese o nelle ultime quattro settimane” (art. 8, L. n. 1115 cit.). (Nella specie, la S.C. ha ritenuto priva di riscontro normativo la distinzione elaborata dalla corte territoriale fra “retribuzione globale” e “retribuzione di fatto”, cassando la relativa decisione che aveva respinto la domanda di riconoscimento dell’indennità di mobilità sul presupposto che il legislatore, disciplinando l’indennità “de qua”, avesse assunto a parametro la retribuzione globale, vale a dire il parametro di calcolo del trattamento di cassa integrazione guadagni). (Cass. 24/1/2007 n. 1578, Pres. De Luca Est. Maiorano, in Lav. nella giur. 2007, 942, e in Dir. e prat. lav. 2007, 2457)
  4. Ai fini del conseguimento del diritto alla c.d. mobilità lunga, di cui all’art. 7, comma 7, della l. n. 223/1991, il requisito dell’anzianità contributiva di ventotto anni nell’assicurazione generale obbligatoria può essere raggiunto anche mediante il computo di periodi di contribuzione versata presso le Gestioni speciali dei lavoratori autonomi, ben potendo il lavoratore-che abbia versato i contributi in parte nella gestione speciale ed in parte nella gestione speciale ed in parte in quella dei lavoratori dipendenti-raggiungere i trentacinque anni di contribuzione necessari per il pensionamento nella Gestione speciale, previo cumulo dei contributi versati nelle due diverse gestioni, ai sensi dell’art. 16 della legge 233/1990, senza necessità di dover domandare la ricongiunzione della posizione contributiva presso la gestione dei lavoratori dipendenti (nella specie la S.C ., confermando la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto alla c.d. mobilità lunga mediante computo dei contributi versati nella gestione speciale dei commercianti, ha dato conto del contrasto di giurisprudenza esistente sulla questione e, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha altresì rilevato come la sottrazione dei lavoratori all’onere della ricongiunzione sia coerente con la tendenza dell’ordinamento alla realizzazione di un sistema di “totalizzazione” alternativo alla “ricongiunzione” e come un’interpretazione restrittiva dell’art. 7, comma 7, sarebbe sospetta di incostituzionalità per la diversità di trattamento che sarebbe riservato a lavoratori fruenti della stessa tutela previdenziale obbligatoria seppur attuata mediante distinte gestioni). (Cass. 5/6/2003, n. 9007, Pres. Mattone Rel. Toffoli, in Dir. e prat. lav. 2003, 2976)
  5. E’ indiscutibile, sulla base della inequivoca formulazione letterale dell’art. 7, L. n. 223/1991, che il diritto del lavoratore all’indennità di mobilità discende direttamente, e senza possibilità di deroga, dalla circostanza che questi sia stato collocato in mobilità all’esito del procedimento di cui all’art. 4, L. n. 223/1991. E’ quindi, da escludere che l’eventuale svolgimento da parte del lavoratore, nel corso del rapporto di lavoro, di altre attività di qualsiasi natura, possa comportare la negazione del suo diritto di conseguire, una volta collocato in mobilità, la relativa indennità. Tale principio trova conferma nell’art. 7, n. 5, L. n. 223/1991, il quale prevede che i lavoratori in mobilità che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività autonoma o per associarsi in cooperativa, possano ottenere la corresponsione anticipata dell’indennità di mobilità, dedotte le mensilità non godute. (Trib. Grosseto 21/1/2003, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2003, 591)
  6. I requisiti di età per la determinazione della durata dell’indennità di mobilità previsti dall’art. 7, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223 devono essere individuati non solo con riferimento all’età del dipendente al momento del licenziamento, ma tenendo altresì conto dell’età compiuta dal dipendente nel corso del godimento del beneficio (nella specie il giudice ha riconosciuto il prolungamento per il terzo anno di mobilità ad un dipendente che aveva compiuto cinquant’anni durante i primi due anni di mobilità). (Trib. Parma 2/5/2002, Est. Brusati, in D&L 2002, 773)
  7. All’istanza volta ad ottenere la liquidazione dell’indennità di mobilità da parte dell’Inps, non soltanto non è applicabile il termine decadenziale di 68 giorni previsto, ai sensi degli artt. 73 e 129 RDL 1827/35, dalla disciplina sulla assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, come richiamata, “in quanto applicabile” dall’art. 7, 12° comma, L. 23/7/91 n. 223, ma la stessa proposizione della domanda amministrativa da parte del lavoratore collocato in mobilità non risulta necessaria, ben potendo l’Inps procedere automaticamente alla liquidazione dell’indennità prevista dalla legge. ( Trib. Milano 8/11/2001, Est. Sala, in D&L 2002, 215)
  8. Anche nel mese di febbraio il lavoratore ha diritto a percepire il trattamento economico di mobilità nella misura dell’intero massimale, poiché il minor numero di giorni di cui si compone questo mese non incide sulla determinazione dell’importo da liquidare (Corte Appello Bari 26/4/01, pres. Berloco, est. Gentile, in Lavoro giur. 2001, pag. 840, con nota di Carpagnano, Il massimale va garantito anche nel mese di febbraio)
  9. Per l’indennità di mobilità di cui all’art. 7, comma 1, l. n. 223/91, è previsto il meccanismo di adeguamento al costo della vita, alla stregua di quanto disposto per il trattamento di integrazione salariale dall’art. 1, l. n. 451/94, che stabilisce che con effetto dal 1° gennaio di ciascun anno (a partire dal 1995) gli importi di integrazione salariale sono aumentati dell’80% dell’aumento derivante dalla variazione dell’indice Istat (Corte Appello Milano 12/4/01, pres. Mannaccio, est. Ruiz, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 173)
  10. Il contributo per messa in mobilità non è dovuto nei confronti dei lavoratori che non hanno diritto all’indennità di mobilità per mancanza del requisito di anzianità nel precedente rapporto di lavoro (Trib. Modena 2/2/01, pres. e est. Cervelli, in Lavoro giur. 2001, pag. 469, con nota di Miscione, Nessun contributo di mobilità per i non aventi diritto all’indennità)
  11. A differenza di quanto previsto per il trattamento di integrazione salariale dell’art. 1, l. n. 451/94, che stabilisce che con effetto dal 1° gennaio di ciascun anno (a partire dal 1995) gli importi di integrazione salariale sono aumentati dell’80% dell’aumento derivante dalla variazione dell’indice Istat, per l’indennità di mobilità di cui all’art. 7, comma 1, l. n. 223/91 non è previsto alcun meccanismo di adeguamento al costo della vita (Trib. Milano 9/11/00, est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1136
  12. All’istanza volta a ottenere il godimento dell’indennità di mobilità proposta nei confronti dell’Inps dal lavoratore che sia stato posto in mobilità, non è applicabile il termine di decadenza di sessanta giorni previsto dalla disciplina sull’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, come richiamata, “in quanto applicabile”, dall’art. 7, 12° comma, L. 23/7/91 n. 223 (Trib. Catania 11/11/97, pres. Pagano, est. Giongrandi, in D&L 1998, 661, n. PORTERA)
  13. Il termine di decadenza annuale per la proposizione dell’azione giudiziaria volta a ottenere l’indennità di mobilità – siccome previsto dall’art. 47 DPR 30/4/70 n. 639, come modificato dall’art. 4 DL 19/9/92 n. 384, convertito con modificazioni nella L. 14/11/92 n. 438 – decorre, al più tardi, dal trecentounesimo giorno successivo alla data di presentazione all’Inps della relativa domanda (Pret. Monza 3/3/97, est. Dani, in D&L 1997, 857)
  14. Ha diritto all’indennità di mobilità il lavoratore che, dopo essere stato collocato in mobilità ed essere stato provvisoriamente reintegrato in servizio ex art. 700 c.p.c., accetti, in via transattiva, la collocazione in mobilità disposta nei suoi confronti, con decorrenza dalla data della transazione (Pret. Milano 3/3/97, est. Ianniello, in D&L 1997, 540)
  15. Poiché la reintegrazione in servizio del lavoratore collocato in mobilità disposta in via cautelare dà luogo a una prosecuzione del rapporto di lavoro di natura provvisoria, e non determina la ricostruzione del rapporto di lavoro, in caso di revoca di tale provvedimento il lavoratore ha il diritto di fruire del trattamento di mobilità per il periodo successivo al licenziamento, con sospensione dello stesso per il periodo di effettiva reintegrazione, senza che sia necessaria una specifica domanda di ripristino della prestazione a carico dell’Inps (Pret. Milano 8/5/96, est. Frattin, in D&L 1997, 84)
  16. Poiché la sospensione del trattamento di mobilità, regolata dall’art. 8, c. 6 e 7 L. 223/91, è applicabile anche ai periodi di ripresa del lavoro a seguito di ordinanza o sentenza di reintegrazione, il tempo trascorso dalla reintegrazione alla perdita del titolo della stessa (sia per riforma della sentenza, sia per rinuncia del lavoratore) non va computato ai fini della determinazione del periodo di durata del trattamento di mobilità (Pret. Milano 12/7/95, est. Ianniello, in D&L 1995, 915)

 

 

Lavoratori a domicilio

  1. Anche i lavoratori a domicilio i quali – a causa di licenziamento per riduzione di personale o per cessazione dell’attività aziendale, intimato da imprese, diverse da quelle edili, rientranti nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale – vengano a trovarsi in condizione di disoccupazione, hanno diritto all’indennità di mobilità ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 7, l. 23/7/91, n. 223, ove possano far valere, ai sensi dell’art. 16, comma 1, della medesima legge, una dipendenza di almeno dodici mesi dalla medesima azienda (di cui almeno sei di lavoro effettivamente prestato, ivi compresi i periodi di sospensione per ferie, festività e infortuni), con un rapporto di lavoro a carattere continuativo o comunque non a termine (Cass. S.U. 12/3/01, n. 106, pres. Vela, est. Evangelista, in Dir. lav. 2001, pag. 406, con nota di Foglia, Le Sezioni Unite e l’indennità di mobilità in favore dei lavoratori a domicilio; in Foro it. 2001, pag. 1524; in Orient. giur. lav. 2001, pag. 163)
  2. L’indennità di mobilità di cui all’art.16, L. 223/91 non compete ai lavoratori a domicilio, sia per la mancanza della continuatività come elemento normale di tale rapporto, sia per l’inapplicabilità ai lavoratori a domicilio di tutti quanti gli obblighi previsti per i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità dall’art.9 L. 223/91 (Cass. 1/7/99 n.6726, pres. Bucciarelli, est. Celentano, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 592, con nota di Sunna, Se spetti o meno l’indennità di mobilità ai lavoratori a domicilio)
  3. I lavoratori a domicilio hanno diritto all’indennità di mobilità di cui alla legge 23/7/91, n. 223 (Cass. 18/5/99 n.4812, pres.Santojanni, est. Guglielmucci, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 592, con nota di Sunna, Se spetti o meno l’indennità di mobilità ai lavoratori a domicilio)
  4. In caso di riduzione di personale è dovuta l’indennità di mobilità ex art. 16, L.22/7/91 n.223 anche ai lavoranti a domicilio, qualora ricorrano i requisiti richiesti avuto riguardo alla dimensione occupazionale dell’impresa di appartenenza e al settore produttivo (imprese industriali, escluse quelle edili) interessato (Trib. Parma 4/11/97, pres. Miglio, est. Sinini, in D&L 1998, 361, n. FIORAI, L’indennità di mobilità per il lavoratore a domicilio: problema risolto?)
  5. Il lavoratore a domicilio, che sia stato licenziato all’esito di una procedura ex art. 4 L. 23/7/91 n. 223, ha il diritto alla corresponsione dell’indennità di mobilità a condizione che possegga i requisiti di categoria e anzianità di lavoro nell’azienda previsti dall’art. 16, 1° comma, della predetta legge (Pret. Venezia 14/10/96, est. Santoro, in D&L 1997, 427. In senso conf., v. Trib. Parma 10/12/96, pres. Mari, est. Miglio, in D&L 1997, 778)
  6. E’ illegittimo il rifiuto dell’Inps di erogare l’indennità di mobilità a un lavoratore a domicilio licenziato in seguito a una procedura di riduzione del personale ex L. 223/91 (Pret. Parma 7/3/95, est. Federico, in D&L 1995, 913)

 

 

Decadenza dal trattamento di mobilità

  1. La norma di cui all’art. 7, comma 4, L. n. 223 del 1991 – che stabilisce che l’indennità di mobilità non può essere corrisposta per un periodo superiore all’anzianità maturata dal lavoratore alle dipendenze dell’impresa che abbia attivato la procedura di cui all’art. 4 della stessa legge – è finalizzata a evitare il rischio di programmate precostituzioni di anzianità lavorative volte al godimento di una maggiore indennità di mobilità e trova applicazione anche nei confronti di lavoratore che, a seguito di trasferimento di azienda, sia transitato alle dipendenze della cessionaria, la quale abbia poi attivato la procedura di mobilità. (Cass. 16/5/2008 n. 12406, Pres. Mattone Rel. Vidiri, in Lav. nella giur. 2008, 1058)
  2. La permanenza della iscrizione nelle liste di mobilità di cui all’art. 6 della legge 23 luglio 1991, n. 223 non comporta, al di fuori delle ipotesi previste dalla stessa legge, la compatibilità della indennità di mobilità con lo svolgimento di attività lavorativa subordinata o autonoma; vige infatti, al di fuori delle speciali ipotesi di cumulo, il regime dell’incompatibilità previsto dalla normativa che disciplina l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. (In applicazione di tale principio la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva correttamente escluso che l’inizio di un’attività autonoma, non accompagnata dalla percezione della indennità in unica soluzione, comportasse la cancellazione dalla lista di mobilità, ma non aveva considerato la tassatività delle ipotesi di cumulabilità della indennità di mobilità con un reddito di lavoro subordinato o autonomo). (Cass. 1/9/2003 n. 12757, Pres. Sciarelli Rel. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2004, 154)
  3. Ove il lavoratore subordinato assunto “part-time”, che svolga contestualmente attività di lavoro autonomo, sia posto in mobilità ai sensi della l. n. 223/91, non è di ostacolo al godimento dell’indennità di mobilità prevista dall’art. 7 di tale legge il protrarsi dell’attività autonoma da parte dello stesso prestatore, non essendo contemplata una previsione di incompatibilità analoga a quella riguardante l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato ed anzi essendo consentita la elargizione anticipata di tale indennità, in un’unica soluzione, ai lavoratori che intendano “intraprendere” un’attività di lavoro autonomo (art. 7, quinto comma, della legge citata), alla quale possibilità devono intendersi ammessi – per coerenza con la finalità della legge di favorire l’occupazione – non solo i lavoratori che vogliano dare inizio, per la prima volta, ad una attività autonoma dopo il licenziamento, ma anche coloro che tale attività proseguano per averla già svolta, non a tempo pieno, durante il cessato rapporto di lavoro subordinato. (Cass. 21/4/01, n. 5951, pres. Amirante, est. Prestipino, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 399)
  4. Lo svolgimento da parte del lavoratore in mobilità di lavoro autonomo (nella specie attività di associazione in partecipazione), senza la richiesta della corresponsione anticipata dell’indennità di mobilità (ex art. 7, comma 5, l. n. 223/91), non determina la cancellazione del lavoratore dalle liste di mobilità, né la decadenza del relativo trattamento economico (Cass. S.U. 27/2/01, n. 2854, pres. De Musis, est. Stile, in Lavoro giur. 2001, pag. 743, con nota di Paci, Lavoro autonomo e diritto all’indennità di mobilità)
  5. Il diritto alla corresponsione dell’indennità di mobilità ex art. 7 L. 23/7/91 n. 223 sussiste anche nel caso in cui i lavoratori in mobilità diano vita a una società di capitali, obbligandosi a effettuare prestazioni accessorie di lavoro ex art. 2345 c.c., non configurandosi per questa via la nascita di un rapporto di lavoro subordinato (Trib. Parma 28/7/99 (ord.), est. Brusati, in D&L 1999, 951)
  6. Il lavoratore, beneficiario del trattamento di mobilità previsto dall’art. 7, 1° comma, L. 23/7/91 n. 223, che intraprende attività di lavoro autonomo senza aver preventivamente richiesto l’anticipazione dell’intera indennità ai sensi dell’art. 7, 5° comma, stessa legge, non decade da tale trattamento; una simile decadenza, infatti, non essendo espressamente contemplata tra le ipotesi disciplinate dalla L. 23/7/91 n. 223, non può derivare dall’art. 52 RD 2270/24 in materia di decadenza dal trattamento di disoccupazione involontaria, essendo tale normativa inapplicabile alle fattispecie già compiutamente disciplinate dalla L. 23/7/91 n. 223 (Pret. Milano 13/1/98, est. Cecconi, in D&L 1998, 448, n. MARINO, Indennità di mobilità e attività di lavoro autonomo)
  7. La lavoratrice che, a seguito di licenziamento collettivo, sia posta in mobilità può, ex 2° comma art. 9, L.23/7/91 n.223, giustificatamente dimettersi dal nuovo impiego offertole senza decadere dal diritto all’indennità di mobilità, qualora il tempo per raggiungere con i mezzi pubblici il luogo di lavoro dalla residenza della lavoratrice sia superiore all’arco di un’ora (Trib. Milano 15/3//97, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 541, nota Summa)
  8. Il lavoratore in mobilità, che rifiuta l’offerta di lavoro a termine, non incorre nell’ipotesi prevista dall’art. 9, 1° comma, L.23/7/91 n.233, che sanziona con la cancellazione dalla lista di mobilità e dalla percezione della relativa indennità esclusivamente il lavoratore che rifiuta un contratto a tempo pieno e indeterminato (Pret. Milano 5/11/96, est. Ianniello, in D&L 1997, 296, n. Quadrio, Cancellazione dalla lista di mobilità e diritto al reimpiego professionalmente equivalente)

 

 

Indennità ex art. 7 c. 5 L. 223/91

  1. L’art. 8, comma sesto, della legge 23 luglio 1991, n. 223, attribuisce al lavoratore iscritto nelle liste di mobilità la facoltà di svolgere lavoro subordinato a tempo parziale, ovvero a tempo determinato, mantenendo l’iscrizione nella lista, mentre l’art. 9, comma sesto, lett. a) prevede la cancellazione da tali liste solo nel caso di assunzione con contratto pieno e indeterminato; ne consegue, per argomentazione a contrario, che, in caso di svolgimento di lavoro autonomo, il lavoratore conserva il diritto alla iscrizione nella lista di mobilità ed il diritto di percepire la relativa indennità, atteso che dall’art. 7 comma quinto della citata legge, che consente la corresponsione anticipata di siffatta indennità, in un’unica soluzione, ai lavoratori che intendano “intraprendere” un’attività di lavoro autonomo, restando in facoltà del lavoratore determinare la modalità temporale dell’erogazione, chiedendone la corresponsione anticipata (il che comporta la cancellazione dalle liste di mobilità ai sensi dell’art. 9 comma nono, lett. b)), ovvero continuando a percepire l’indennità mensilmente. Detta facoltà di scelta è pertanto preclusa a chi, in costanza di lavoro subordinato, svolgesse anche lavoro autonomo ed abbia continuato a svolgerlo dopo il collocamento in mobilità, avendo in tal caso diritto a beneficiare dell’indennità soltanto secondo l’ordinaria periodicità mensile. (Cass. 1/4/2004 n. 6463, Pres. Senese Rel. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2004, 2478, e in in Lav. nella giur. 2004, 1202)
  2. La previsione dell’art. 7, comma quinto, della legge n. 223 del 1991, (in base alla quale può essere anticipata ai lavoratori che ne facciano richiesta l’indennità di mobilità per intraprendere un’attività lavorativa autonoma), risponde alla ratio di indirizzare il più possibile il disoccupato in mobilità verso attività autonome, al fine precipuo di ridurre la pressione sul mercato del lavoro subordinato, così perdendo la sua connotazione di tipica prestazione di sicurezza sociale, e configurandosi non già come funzionale a sopperire ad uno stato di bisogno, ma come un contributo finanziario, destinato a sopperire alle spese iniziali di un’attività che il lavoratore in mobilità svolge in proprio. Ne consegue che l’indennità non deve necessariamente essere richiesta prima dell’inizio dell’attività che si intende esercitare (non ravvisandosi nella legge una precisa indicazione in tal senso), ma può anche essere richiesta dopo aver intrapreso la suddetta attività autonoma. (Cass. 28/1/2004 n. 1587, Pres. Dell’Anno Rel. La Terza, in Dir. e prat. lav. 2004, 1556)
  3. Ai fini del riconoscimento dell’anticipazione dell’indennità di mobilità ex art. 7, 5° comma, L. 23/7/91 n. 223, tenuto conto della necessità di svolgimento di attività preparatorie e propedeutiche all’avvio della nuova attività di lavoro autonomo anche al fine di presentare ex art. 1 DM 142/93 la richiesta documentazione comprovante l’assunzione di iniziative finalizzate all’avvio di tale attività e considerata l’assenza di un termine di legge per la presentazione della relativa domanda di anticipazione, l’eventuale presentazione di tale domanda dopo l’inizio dell’attività e comunque il mancato rispetto del termine fissato dall’Inps con circolare 32/2000 non comportano decadenza dal diritto all’anticipazione. (Corte d’Appello Milano 3/9/2002, Pres. Mannacio Est. Ruiz,, in D&L 2002, 1052)
  4. La dizione dell’art. 7, comma 5, L. n. 223/1991 sembra richiedere che l’attività-per la quale il lavoratore in mobilità può ottenere la corresponsione anticipata della relativa indennità-debba essere nuova ed è evidente che la ratio della norma sia quella di finanziare le nuove attività del personale in mobilità e non il risanamento o la ricapitalizzazione di attività già esistenti. Tuttavia il termine di 30 giorni dall’inizio dell’attività stabilito con norma regolamentare dall’Inps per la presentazione dell’istanza non appare congruo, se l’attività dalla quale si fa decorrere il termine non è quella effettivamente produttiva bensì quella meramente preparatoria estrinsecatasi nella apertura della partita IVA, nella iscrizione alle gestioni previdenziali nella sottoscrizione di contratti di associazione, di agenzia, collaborazione o affiliazione. (Trib. Milano 7/6/2002, Est. Peragallo, in Lav. nella giur. 2003, 389)

 

 

Art. 17 L. 223/91

  1. Nel caso in cui il datore di lavoro si sia avvalso della facoltà ex art. 17 L. 23/7/91 n. 223, e abbia quindi collocato in mobilità un numero di lavoratori corrispondenti a quello reintegrato per ordine del giudice, è illegittima la messa in mobilità, nuovamente disposta a seguito della riforma della sentenza di reintegrazione dei lavoratori sostituiti, qualora il datore di lavoro non abbia nemmeno comunicato ai predetti l’intervenuta pronuncia di legittimità dei precedenti licenziamenti, con ciò superando i limiti numerici del licenziamento collettivo concordati nell’accordo sindacale (Trib. Milano 29 febbraio 2000, est. Cecconi, in D&L 2000, 713)
  2. E’ illegittimo il licenziamento effettuato ex art 17 L. 23/7/91 n. 223, in sostituzione di altri lavoratori precedentemente collocati in mobilità e poi reintegrati a seguito di sentenza del Pretore, nel caso in cui tale sentenza di reintegrazione venga riformata in sede di gravame (Trib. Milano 8/5/99, pres. Mannacio, est. Gargiulo, in D&L 1999, 531)
  3. Nel caso in cui il datore di lavoro, dopo essersi avvalso della facoltà ex art. 17 L. 23/7/91 n. 223 di collocare in mobilità un numero i lavoratori corrispondenti a quello reintegrato per ordine pretorile, metta nuovamente in mobilità i lavoratori originariamente reintegrati e ciò a seguito della riforma della sentenza di reintegrazione, è inammissibile la domanda di tali lavoratori volta a ottenere una nuova reintegrazione nel posto di lavoro (nella fattispecie, l’inammissibilità della domanda è stata affermata in quanto, nel giudizio di appello contro la sentenza che aveva disposto la reintegrazione, era stata respinta l’eccezione di acquiescenza, da parte del datore di lavoro, nei confronti di quella sentenza, fondata appunto sul ricorso alla sostituzione ex art. 17 citato) (Trib. Milano 21/4/99 (ord.), pres. ed est. Mannacio, in D&L 1999, 531)
  4. Nel caso in cui il datore di lavoro si sia avvalso della facoltà ex art. 17 L. 23/7/91 n. 223, e abbia quindi collocato in mobilità un numero di lavoratori corrispondenti a quello reintegrato per ordine pretorile, è illegittima la messa in mobilità, nuovamente disposta a seguito della riforma della sentenza di reintegrazione, nei confronti dei lavoratori sostituiti (nella fattispecie, i lavoratori collocati in mobilità ex art. 17 citato avevano per lo più presentato acquiescenza al licenziamento e il datore di lavoro, nel momento in cui erano stati nuovamente messi in mobilità i lavoratori sostituiti, non aveva neppure richiamato in servizio i sostituti, con la conseguenza di aver superato il numero di messe in mobilità concordato con le OO.SS.) (Pret. Milano 11/3/99 (ord.), est. Atanasio, in D&L 1999, 315. In senso conforme, v. Pret. Milano 25/3/99 (ord.), est. Vitali, in D&L 1999, 315)
  5. L’art. 17 L. 23/7/91 n. 223, che consente al datore di lavoro di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di lavoratori pari a quelli reintegrati senza dover esperire una nuova procedura, è inapplicabile nel caso in cui il licenziamento dei lavoratori sostituiti sia stato dichiarato illegittimo per un vizio della procedura di mobilità (Pret. Milano 31/12/97, est. Santosuosso, in D&L 1998, 383, n. SUMMA, Art. 17 L. 223/91. Questioni applicative)

 

 

Condotta antisindacale

  1. Pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che omette di inviare la comunicazione di apertura della procedura di mobilità ex art. 4 L. 23/7/91 n. 223 a un’organizzazione sindacale di categoria aderente a confederazione maggiormente rappresentativa e ciò a prescindere dalla presenza in azienda di una componente la Rsu aderente a quella associazione. Con l’AI 20/12/93 per la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie tutte le OO.SS. che hanno presentato una lista unitaria costituiscono, alla stregua del disposto dell’art. 4 L: 23/7/91 n. 223, “rispettive associazioni di categoria” delle Rsu elette in quella lista, alle quali, pertanto, deve essere inviata la comunicazione d’inizio procedura prevista da tale disposizione normativa: in assenza la procedura di mobilità deve essere dichiarata illegittima. (Trib. Milano 13/5/2006, decr., Est. Beccarini, in D&L 2006, 758)
  2. Pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che effettui le comunicazioni e l’esame congiunto previsti dall’art. 4, 2° comma, L.23/7/91 n.223 solamente con una parte della rappresentanza sindacale unitaria; la dichiarata antisindacalità di tale comportamento nei confronti del sindacato escluso non comporta l’invalidità e l’annullamento dell’intera procedura di mobilità e dei conseguenti licenziamenti, né dei licenziamenti dei lavoratori iscritti al sindacato escluso (Pret. Milano 28/1/97, est. Peragallo, in D&L 1997, 515)
  3. Pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che effettui le comunicazioni e l’esame congiunto previsti dall’art. 4 c. 2 L. 223/91 solamente con una parte della rappresentanza sindacale unitaria; la dichiarata antisindacalità di tale comportamento nei confronti del sindacato escluso non comporta l’invalidità o l’annullamento dell’intera procedura di mobilità, restando validi gli accordi raggiunti con le altre organizzazioni sindacali e con la parte di Rsu facente capo a queste ultime (Pret. Milano 17/1/96, est. Vitali, in D&L 1996, 626)
  4. E’ antisindacale la procedura di mobilità disposta in violazione dell’obbligo a carico del datore di lavoro, ex art. 4 c. 3 L. 223/91, di comunicare preventivamente, e per iscritto, alle rappresentanze sindacali i motivi tecnici, organizzativi e produttivi, che siano ostativi alla adozione di misure alternative alla procedura di mobilità (nella fattispecie il Pretore ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento collettivo intimato) (Pret. Milano 20/11/95, est. Canosa, in D&L 1996, 401. In senso conforme, v. Pret. Lodi 28/7/95, est. Poggioli, in D&L 1995, 863; Pret. Milano 12/11/94, est. Peragallo, in D&L 1995, 323)
  5. E’ antisindacale, perché lesiva dell’immagine e della credibilità del sindacato, la decisione del datore di lavoro di aprire una procedura di mobilità ex art. 4 L. 223/91 allorché tale comportamento, in contrasto con il principio di buona fede, violi un accordo aziendale stipulato con il sindacato per la salvaguardia dei livelli occupazionali (Pret. Milano 6/7/94, est. Frattin, in D&L 1995, 102)
  6. Perché possa parlarsi di antisindacalità della procedura di riduzione del personale, la non veridicità delle informazioni contenuta nella comunicazione ex art. 4 L. 223/91 deve avere, obiettivamente, l’effetto di non consentire alle OO. SS. l’esercizio del diritto di esaminare e controllare in concreto le scelte aziendali (Pret. Milano 20/6/94, est. Curcio, in D&L 1995, 110)