Previdenza sociale

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Questa voce è stata curata da Aldo Garlatti

La previdenza sociale e le principali prestazioni

La previdenza sociale contempla le diverse forme di tutela ed assistenza dei lavoratori che si traducono nell’erogazione di prestazioni di somme di denaro o altre utilità, e predisposte in relazione a situazioni di bisogno in cui i lavoratori stessi o i loro famigliari possono venire a trovarsi in seguito al verificarsi di determinati eventi riconducibili o meno allo svolgimento dell’attività lavorativa e finalizzate sostanzialmente a garantire la continuità del reddito.
Tali eventi comportano prevalentemente l’interruzione dell’attività lavorativa, interruzione che può avere carattere temporaneo, come nel caso della malattia o dell’infortunio, oppure permanente.
In tale ultima ipotesi che può conseguire al compimento di una certa età o per fatto traumatico, la tutela previdenziale si manifesta nella erogazione di una rendita ai superstiti.

La Costituzione, all’art 38 c.2, riconosce ai lavoratori il diritto a disporre di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita, in caso di invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria. Inoltre ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale (cfr. Cost. art 38, 1comma).
Con specifico riferimento alle categorie degli eventi protetti, il sistema della previdenza sociale si articola nelle seguenti forme di tutela: contro gli infortuni e le malattie professionali, contro la disoccupazione, prestazioni previdenziali per le malattie comuni e la tubercolosi, contro l’invalidità la vecchiaia ed a favore dei superstiti.

Tra le altre forme di tutela rientrano l’insieme delle prestazioni dovute per la maternità, quelle per i famigliari a carico e quelle dovute in relazione al verificarsi dell’evento malattia.
La tutela della salute della salute, con la riforma del servizio sanitario nazionale, comprende come noto oltre alle prestazioni di natura sanitaria, prestazioni di natura economico a fronte del mancato guadagno conseguente alle assenze dal lavoro.

La determinazione dei casi e delle forme di previdenza e di assistenza obbligatorie, la contribuzione e le relative prestazioni sono disciplinate da una legislazione speciale. I
l principale Ente nazionale gestore della previdenza sociale è l’Inps, a cui è affidata l’assicurazione generale obbligatoria (AGO) e le cui prestazioni economiche consistono nei seguenti trattamenti:

  1. pensione di vecchiaia
  2. pensione di anticipata (ex anzianità)
  3. pensione di inabilità
  4. assegno di invalidità
  5. pensione ai superstiti (indiretta e di reversibilità)
  6. pensione supplementare di vecchiaia.

Il modello “assicurativo sociale” come mezzo di attuazione della previdenza risulta oggi superato in favore di un nuovo rapporto giuridico di previdenza sociale che si articola in un insieme di relazioni che intercorrono tra i diversi soggetti.
Tra queste relazioni assume fondamentale rilievo l’imposizione contributiva obbligatoria ossia il pagamento di specifici oneri (contributi) sulla retribuzione corrisposta al lavoratore.

Gli interventi legislativi correttivi in materia previdenziale dell’ultimo decennio si sono caratterizzati da un lato sul contenimento della spesa, con l’elevazione dei requisiti di età e contribuzione per l’accesso alle prestazioni e con il riproporzionamento delle rendite rispetto alla contribuzione effettivamente versata nel corso dell’intera vita lavorativa, dall’altro con l’inasprimento del prelievo contributivo.
Tali misure si sono tuttavia rivelate insufficienti a garantire l’equilibrio tra contribuzioni riscosse e prestazioni erogate.
La necessaria ristrutturazione dei trattamenti previdenziali ha pertanto trovato una prima attuazione con la Legge 335/1995 e con la valorizzazione della previdenza complementare, ancora poco diffusa, e finalizzata a garantire al pensionato, unitamente alla previdenza obbligatoria, un reddito ed un conseguente tenore di vita prossimo e paragonabile a quello delle ultime retribuzioni.

La riforma della previdenza obbligatoria, si è ora incentrata sul nuovo sistema di calcolo cd “contributivo” e non più sulle ultime retribuzioni, ed è finalizzata a garantire un trattamento pensionistico rapportato ai contributi versati in tutta la vita assicurativa.
Con il sistema cosiddetto retributivo introdotto dal 1° gennaio 1996, il calcolo della pensione viene determinato avendo a riferimento la contribuzione versata anno per anno. Il sistema di calcolo presenta delle differenze a seconda che il lavoratore interessato abbia già compiuto o meno alla data dell’1/1/1996 anni 18 di contribuzione.
Il sistema è stato recentemente innovato con la riforma della previdenza complementare obbligatoria ed in particolare con la Legge 243 del 2004 che ha previsto l’elevazione dei requisiti di accesso alla pensione.
La riforma è proseguita con l’ampliamento della previdenza complementare (cfr. D.Lgs. 252/2005) e con la possibilità di totalizzare i periodi contributivi maturati in gestioni previdenziali diverse.
Da ultimo la Legge 247/2007 (“Riforma del welfare”) ha introdotto nuovi requisiti tra i quali:

  1. l’elevazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità con decorrenza 1/1/2008 e di previdenza complementare;
  2. la totalizzazione dei periodi assicurativi, ossia la possibilità di cumulare tutta la contribuzione previdenziale versata in differenti gestioni pensionistiche.

Nell’ambito del sistema previdenziale, i dipendenti pubblici rivestono una posizione peculiare in quanto, con riferimento alla tutela per l’invalidità la vecchiaia ed i superstiti, per tali soggetti provvede direttamente lo Stato.
La legge 233/90 ha apportato modificazioni al sistema pensionistico dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti), con un sensibile avvicinamento al sistema di calcolo retributivo previsto per i lavoratori dipendenti.

Per “prestazioni previdenziali” si devono intendere non sono quelle strettamente di natura pensionistica, ma anche quelle dirette a rilevare la posizione contributiva sia da parte del lavoratore che da parte delle aziende.
Vi rientrano anche quelle di natura assistenziale, aventi ad oggetto l’accertamento delle condizioni di invalidità civile, e quelle dirette alla liquidazione di prestazioni temporanee, quali la maternità e la disoccupazione.

La determinazione del diritto e della misura delle prestazioni pensionistiche è determinata dai contributi che, come noto, possono essere di vario tipo: obbligatori, figurativi, da riscatto e ricongiunzione, volontari.
I contributi sono versati dal datore di lavoro in misura percentuale dell’importo della retribuzione percepita dal lavoratore, nonché dal lavoratore medesimo.

Ulteriore strumento di tutela dell’assicurato nei confronti della sua posizione contributiva è costituito dalla cosiddetta “ricongiunzione” ossia dalla facoltà di cumulare le contribuzioni effettuate in regimi diversi ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione.

 

Principio della domanda amministrativa nelle prestazioni previdenziali

Le prestazioni previdenziali ed assistenziali non vengono erogate “d’ufficio” dall’Ente, ma soltanto se l’interessato/assicurato ha presentato l’apposita domanda.
Nessuna legge, salvo specifici casi (es: liquidazione quote fisse di cui all’art. 10, III comma L. 160/’75) prevede pertanto che l’Ente Previdenziale si attivi autonomamente per la liquidazione della prestazione, sostituendosi all’iniziativa dell’interessato.
La domanda amministrativa costituisce pertanto il primo presupposto per avviare il procedimento amministrativo finalizzato alla valutazione di tutti i presupposti (contributivo, sanitario, ecc.) in base ai quali l’Ente previdenziale provvederà all’erogazione della prestazione.
Dalla presentazione della domanda da parte dell’interessato – ovvero del titolare del diritto, conseguono importanti effetti: l’individuazione della decorrenza della prestazione, (es: decorrenza del trattamento pensionistico), la decorrenza degli interessi legali.
Inoltre la domanda è necessaria non solo sotto il profilo sostanziale affinché il diritto possa essere riconosciuto, ma anche sotto il profilo processuale: senza la presentazione della domanda amministrativa e dei ricorsi amministrativi, la domanda giudiziale non è procedibile (cfr. in particolare l’art. 443 cpc).

 

Iter amministrativo delle domande indirizzate all’Inps: gli art. 46 e 47 L. 88/89 – la domanda e i ricorsi amministrativi

Presentata la domanda corredata dai documenti richiesti, l’Inps deve provvedere accogliendola e quindi erogando la prestazione richiesta oppure accogliendola solo parzialmente oppure respingendola.
Il tempo previsto dalla legge affinché l’Istituto adotti un provvedimento in relazione alla domanda inoltrata è pari a 120 giorni decorrenti dalla data di presentazione della domanda.
Ex art 7 L. 533/73, “In materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, la richiesta dell’Istituto assicuratore si intende respinta a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data di presentazione, senza che l’istituto si sia pronunciato”.
La dove la legge lo prescrive, avverso il silenzio rifiuto o avverso il provvedimento negativo dell’Istituto previdenziale, è necessario proporre il ricorso amministrativo in seconda istanza al competente organo dell’Inps.
In materia previdenziale, dunque, il procedimento amministrativo e quindi l’obbligo del ricorso amministrativo avverso il provvedimento negatorio del diritto azionato con la domanda è destinato a svolgere una duplice funzione quella di riesame da parte di un organo collegiale a composizione mista (si veda, ad esempio, il Comitato Provinciale) al fine di evitare i presupposti perché l’interessato possa fare ricorso indiscriminato al rimedio giurisdizionale, e possa altresì valutare meglio le ragioni di diniego su cui si fonda il provvedimento impugnato.
Perché il procedimento amministrativo svolga la predetta funzione, è necessario che l’atto sia motivato, anche se succintamente, come previsto dalla L. 241/90, con l’indicazione dei presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato l’adozione del provvedimento impugnato.

 

Termine per la proposizione del ricorso amministrativo

Il dies a quo per la proposizione del ricorso va individuato sempre nella data di comunicazione del provvedimento da impugnare.
Il termine per la proposizione dei ricorsi nei confronti dell’Inps è di 90 giorni dalla data di comunicazione del provvedimento dell’Istituto, ovvero decorso il termine di 120 giorni dalla data della domanda senza che l’Istituto si sia pronunciato, come prescritto dagli artt. 46 e 47 della L. 88/89, con la salvezza dei diversi termini in vigore per le materie non espressamente previste dalla legge stessa, ex art. 51 comma 2 che stabilisce: “Per quanto non espressamente previsto dalla presente legge restano confermate le disposizioni in vigore in materia di termini per la presentazione dei ricorsi amministrativi”.
Per quanto attiene alle prestazioni in materia di infortuni sul lavoro, e malattie professionali disciplinata dal TU 1124/1965 in base all’art. 104 il termine per ricorrere è di 60 giorni dalla data di comunicazione del provvedimento negatorio.
Il ricorso amministrativo è divenuto un procedimento informale necessario solo ai fini della procedibilità della domanda giudiziale.
Pur facendosi ricorso a tali termini in materia di decadenza dall’azione giudiziaria, tuttavia hanno sempre una specifica funzione al fine di individuare i termini prescrizionali ovvero i termini decadenziali per la proposizione dell’azione giudiziaria ) vedi art. 47 del DPR 639/70 e successive modifiche ed integrazioni, ovvero l’art. 104 comma 2 del TU Inail 1124/1965 (Non ricevendo risposta nel termine di giorni sessanta dalla data della ricevuta della domanda di cui al precedente comma o qualora la risposta non gli sembri soddisfacente, l’infortunato può convenire in giudizio l’Istituto assicuratore avanti l’autorità giudiziaria).
Le altre materie per le quali non vige un termine decadenziale per la proposizione della domanda giudiziale, soggiacciono esclusivamente al termine prescrizionale.

 

L’iter amministrativo per le prestazioni correlate agli stati di invalidità civile, sordomutismo, handicap e disabilità

L’art. 42 del D.L. nr. 269/2003 in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, ha eliminato il ricorso amministrativo in precedenza prescritto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per l’impugnativa del verbale di accertamento dell’invalidità civile.
E’ stato introdotto un termine decadenziale di sei mesi per la proposizione della domanda giudiziale a decorrere dalla data di ricevimento della comunicazione dell’esito della visita di accertamento.

 

Organi competenti per il ricorso amministrativo

Sono di competenza del Comitato Provinciale dell’Inps i ricorsi per le prestazioni, individuate nell’art. 46 della L. 88/89 , avente ad oggetto il “Contenzioso in materia di prestazioni”, e precisamente:

  1. le prestazioni dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti e le prestazioni del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto;
  2. le prestazioni delle gestioni dei lavoratori autonomi, ivi comprese quelle relative ai trattamenti familiari di loro competenza;
  3. le prestazioni della gestione speciale di previdenza a favore dei dipendenti da imprese esercenti miniere, cave e torbiere con lavorazione, ancorché parziale, in sotterraneo;
  4. le prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria;
  5. la pensione sociale;
  6. le prestazioni economiche di malattia, ivi comprese quelle dell’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, e per la maternità;
  7. i trattamenti familiari;
  8. l’assegno per congedo matrimoniale;
  9. il trattamento di richiamo alle armi degli impiegati ed operai privati.

Il direttore della competente sede dell’Istituto può sospendere l’esecuzione della decisione del comitato qualora si evidenzino profili di illegittimità.
In tal caso il provvedimento di sospensione deve essere adottato dal direttore entro cinque giorni ed essere sottoposto al comitato amministratore competente per materia, il quale, entro novanta giorni, decide o l’esecuzione della decisione o il suo annullamento. Trascorso tale termine la decisione diviene comunque esecutiva.
Sono di Competenza del Comitato Amministratore i ricorsi individuati nell’art. 47 della L. 88/89 sul Contenzioso in materia di contributi alle gestioni dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti).
In base alle disposizioni dell’art. 443 c.p.c. ,decorsi 180 giorni dalla data del ricorso senza che sia stato definito l’interessato può adire le vie giudiziarie.

 

L’azione giudiziaria dopo l’esperimento dell’iter amministrativo conclusosi negativamente: la decadenza dall’azione giudiziaria ex art 47 DPR 639/70

Abbiamo visto che il preventivo esperimento dell’iter amministrativo ex art 443 cpc è indispensabile per la procedibilità della domanda giudiziale da presentarsi innanzi al giudice territorialmente competente ex art 442 cpc.
Non ricorre l’ipotesi di improcedibilità della domanda giudiziale quando il procedimento amministrativo non è necessario, per il fatto che il diritto alla prestazione sia stato già riconosciuto e l’interessato agisca solo per ottenere la rideterminazione della prestazione già concessa alla quale l’istituto sarebbe tenuto d’ufficio (ad esempio domanda di ricalcalo della retribuzione pensionabile di vecchiaia con i criteri posti dalla pronuncia Costituzionale 822/1988).

 

La decadenza

Il regime della decadenza dall’azione processuale è stato introdotto con il DPR 639/70 con riferimento esclusivo alle prestazioni previdenziali
L’art. 47, D.P.R. n. 639 del 1970, sancisce “Esauriti i ricorsi in via amministrativa, può essere proposta l’azione dinanzi l’autorità giudiziaria ai sensi degli articoli 459 e seguenti del codice di procedura civile”.
Per le controversie in materia di trattamenti pensionistici l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti organi dell’Istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, ovvero dalla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione.
Per le controversie in materia di prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, l’azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno dalle date di cui al precedente comma.
Dalla data della reiezione della domanda di prestazione decorrono, a favore del ricorrente o dei suoi aventi causa, gli interessi legali sulle somme che risultino agli stessi dovute.
L’INPS è tenuto ad indicare ai richiedenti le prestazioni o ai loro aventi causa, nel comunicare il provvedimento adottato sulla domanda di prestazione, i gravami che possono essere proposti, a quali organi debbono essere presentati ed entro quali termini. È tenuto, altresì, a precisare i presupposti ed i termini per l’esperimento dell’azione giudiziaria.
Tale norma poi è stata integrata dall’art. 6 D.L. 106/91 stabilendo che “I termini previsti dall’articolo 47, commi 2° e 3° del DPR 639/70, sono posti a pena di decadenza per l’esercizio del diritto alla prestazione previdenziale.
La decadenza determina l’estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l’inammissibilità della relativa domanda giudiziale.
In caso di mancata proposizione di ricorso amministrativo, i termini decorrono dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei.
Con tale norma il legislatore ha inteso chiarire che, per le prestazioni periodiche, la decadenza dell’azione non investe il diritto in sé, ma soltanto la tutelabilità in sede giudiziale dei ratei compresi nel periodo per cui si è verificata la decadenza, e che – quindi – la domanda giudiziale diretta ad ottenere il riconoscimento di prestazioni solo in parte comprese nel periodo interessato alla decadenza, resta ammissibile per la parte residua.

 

La prescrizione delle prestazioni previdenziali

Tutte le prestazioni previdenziali sono assoggettate a prescrizione ovvero ad un termine, decorso il quale, senza che il titolare del diritto abbia manifestato l’intenzione di avvalersene, si estinguono.

 

La prescrizione della indennità di malattia

La misura e la durata del trattamento di malattia, al quale si riconosce natura retributiva, sono solitamente previste dai contratti collettivi.
Occorre sul punto distinguere l’autonomia dei due rapporti rispettivamente tra lavoratore / datore di lavoro e lavoratore / Inps, autonomia per altro controversa in giurisprudenza.
L’indennità di malattia a carico dell’Ente previdenziale ex art 6 VI comma L. 11/1/98 nr. 138 è assoggettata al termine annuale di prescrizione, mentre il parallelo trattamento privatistico resta assoggettato alla normale prescrizione quinquennale.
Per il personale dipendente da esercenti pubblici servizi di trasporto il termine di prescrizione è decennale.
A seconda delle modalità con le quali viene erogata l’indennità di malattia possono identificarsi termini diversi di decorrenza della prescrizione:

  • se corrisposta in unica soluzione all’atto del pagamento del periodo di paga, la prescrizione decorre dal giorno successivo a quello di scadenza del suddetto periodo di paga
  • se corrisposta mediante anticipazioni, decorre dal giorno successivo da quello in cui il lavoratore nel corso dell’evento morboso può pretendere la corresponsione della prestazione
  • se l’indennità viene corrisposta direttamente dall’Inps, il termine di prescrizione decorre dal giorno successivo alla data di cessazione dell’evento morboso.

L’interruzione deve essere proposta dal lavoratore nei confronti dell’Inps e occorre sottolineare che la pendenza del ricorso amministrativo nei confronti dell’Inps, non comporta effetto sospensivo del termine prescrizionale, avendo gli atti amministrativi dell’Inps natura meramente ricognitiva.
Anche l’azione giudiziaria deve essere proposta a pena di decadenza, entro il termine di un anno dall’esaurimento dell’iter amministrativo.

 

La prescrizione della indennità di maternità

Il diritto alla corresponsione dell’indennità di maternità, prevista dall’art. 15 della Legge n. 1204 del 1971 sulla tutela delle lavoratrici madri, partecipando della medesima natura del diritto al trattamento di malattia, è soggetto, in mancanza di una previsione in senso contrario, alla prescrizione breve di un anno, stabilita per essa dall’art. 6, ultimo comma, della legge n. 138 del 1943.
Il termine annuale di prescrizione dell’indennità di maternità ex art. 15 legge n. 1204 del 1971, la quale matura di giorno in giorno e si risolve in un complesso di diritti a ratei giornalieri, decorre dal giorno in cui tali ratei sono dovuti, dovendosi tenere presente, a tali fini, che:

  1. una volta presentata tempestiva domanda amministrativa, l’obbligo di pagamento dei ratei decorre per l’ente previdenziale dal giorno di maturazione degli stessi, sicché il silenzio rifiuto del medesimo ente si perfeziona con il decorso di centoventi giorni dalla data di presentazione della domanda, per i ratei maturati contestualmente o precedentemente alla stessa e tempestivamente richiesti, e dal giorno di maturazione di ciascun rateo per quelli maturati successivamente alla domanda amministrativa;
  2. il procedimento amministrativo derivante dalla presentazione di ricorso avverso il provvedimento di diniego (o il silenzio rifiuto) dell’ente ha effetto sospensivo del termine di prescrizione.

Occorre distinguere rispetto all’indennità di maternità per le libere professioniste.
Poiché la legge 11 dicembre 1990, n. 379, nel riconoscere alle libere professioniste il diritto alla indennità di maternità contiene una specifica disciplina della estinzione del medesimo per decorso del tempo, stabilendo che la domanda deve essere proposta entro 180 giorni dal parto (art. 2), il diritto alla indennità di maternità in favore delle libere professioniste non è assoggettato al termine di prescrizione breve (un anno) previsto dall’art. 6, ultimo comma, della legge 11 gennaio 1943, n. 138 per la indennità di malattia, applicabile alle indennità di maternità spettanti alle lavoratrici dipendenti, in virtù del richiamo operato dall’art. 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e, in via di interpretazione analogica, alle indennità spettanti alle lavoratrici autonome, ai sensi della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (cfr. Cass. Sez. Lav. nr. 9162/2003).

 

La prescrizione dei ratei di pensione

La prescrizione dei ratei arretrati di pensione è strettamente connessa con la decadenza dall’azione giudiziaria.
Il decorso di entrambi comporta l’estinzione e la perdita del diritto ai ratei pregressi.
L’interpretazione della giurisprudenza di legittimità dell’art. 47 del DPR 636/70 (“l’azione giudiziaria può essere proposta entro dieci anni dalla data della comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunciata dai competenti organi dell’Istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la decisione medesima”) è mutata a seguito dell’emanazione del D.L. 103 del 29/3/1991 convertito nella L. 166/91 che ha integrato la prima disposizione.
Ora i suddetti termini rivestono natura decadenziale e la L. 438/’92 ha abbreviato il termine decennale in triennale.
La giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte Cost. Sent. 128/’96 e Corte Cost. sentenza nr. 152/’99) ha chiarito a quali procedimenti ancora in corso alla data di entrata in vigore della L. 438/’92 si continui ad applicare la previgente disciplina, ossia quella più favorevole del termine decennale.
Al fine di individuare la decorrenza e la conseguente estinzione dei ratei è necessario rifarsi all’interpretazione autentica dell’art. 6 del D.L. 103/’91 secondo il quale il termine di decadenza decorre dalla decisione del ricorso amministrativo o dalla scadenza dei termini previsti per la decisione, oppure – nel caso in cui non sia stato proposto ricorso amministrativo, dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei.
In questa ultima ipotesi, se non è stato presentato ricorso amministrativo, sono irrimediabilmente perduti i ratei maturati oltre il decennio dalla proposizione del ricorso giudiziario.
Se al contrario è stato proposto ricorso amministrativo, alla data di proposizione vengono riallineati tutti i ratei antecedenti a tale data, con l’effetto che i medesimi, anche se antichi, si salvano o si perdono a seconda che l’azione giudiziaria sia stata proposta ante o post la scadenza del decennio.
I ratei successivi al ricorso amministrativo seguono la stessa sorte normativa dei ratei spettanti all’assicurato che non abbia presentato il ricorso. Essi non si perdono tutti, si perdono solo quelli collocati oltre il decennio dalla domanda giudiziale.

 

Rimborso spese mediche, odontoiatriche e protesiche

Il termine di prescrizione da applicare al diritto al rimborso delle Spese (nel caso di specie, odontoiatriche e protesiche) sostenute da un assicurato in conseguenza di un infortunio sul lavoro è il termine breve di tre anni fissato dall’art. 112 del D.P.R. n. 1124 del 1965, e non quello ordinario decennale, in quanto trattasi pur sempre di prestazioni che devono essere erogate da parte dell’INAIL, per le quali ricorre l’esigenza della tempestività dell’accertamento, che costituisce la ratio della fissazione di un termine breve, né sussistono fondati motivi per sottoporre ad un termine prescrizionale diverso, da un lato, il diritto alle cure mediche, chirurgiche e protesiche, e, dall’altro, il diritto al rimborso dei relativi costi già sopportati dall’assicurato (cfr. Cass. Sez. Lav. nr. 6040/2003).

 

La prescrizione e la decadenza per le cure termali

A norma dell’art. 2, comma quarto, del D.M. 12 agosto 1992, sul lavoratore che contesti di non essere stato ammesso dal datore di lavoro a fruire del congedo straordinario per cure termali grava l’onere di provare di aver trasmesso al datore di lavoro, nel termine di decadenza sostanziale di due giorni dal rilascio (previsto dall’art. 2, comma secondo, del D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito in legge 28 febbraio 1980,n.33, come sostituito dall’art. 15, primo comma, della legge 23 aprile 1981 n.155), la copia della autorizzazione – impegnativa rilasciata dalla competente ASL con acclusa la copia della prescrizione medica specialistica.

 

Prescrizione dei contributi previdenziali, e i rimedi risarcitori conseguenti all’omissione contributiva

Come noto, il rapporto giuridico previdenziale ha natura pubblicistica ed ha ad oggetto diritti indisponibili sia sul piano erogativo che su quello contributivo, così come previsto dall’art. 2115 comma 3 del cod. civ. che prevede la nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi della previdenza.
Il rapporto contributivo e la relativa obbligazione contributiva sorgono in modo automatico nel momento in cui ha inizio l’attività lavorativa, sia essa esercitata in forma subordinata, autonoma o associata considerata dalla legge.
La determinazione dell’importo dei contributi dovuti viene effettuata dalla legge (cfr. in particolare l’art. 12 della L. 153/1969 e successive modificazioni) che rimanda alla nozione di “retribuzione imponibile” ossia, a tutti gli emolumenti (sia in denaro che in natura) erogati in dipendenza del rapporto di lavoro.
I contributi si prescrivono in via generale in cinque anni dal giorno di scadenza del versamento. Tuttavia, in caso di denuncia da parte del lavoratore o dei suoi superstiti, il termine prescrizionale, per il solo denunciante, è pari a 10 anni.
Una volta scaduto il termine, l’Ente previdenziale non può più pretenderli né tanto meno riceverli.
Decorso il termine decennale, il lavoratore al quale non risultino corrisposti ed accreditati i contributi previdenziali in costanza di rapporto di ]lavoro subordinato|lavoro subordinato], può promuovere azione ex art 13 L. 1338/62 per ottenere dal datore di lavoro la ricostruzione della posizione contributiva omessa mediante versamento di una somma quantificata dall’Ente. Alternativamente il lavoratore può promuovere un’azione di danni ex art 2116 c.c.
Infatti, l’omissione della contribuzione produce un pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, distinguendosi due tipi di danno:

  • l’uno, dato dalla perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l’età pensionabile;
  • l’altro, dato dalla necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui all’art. 13 della legge n.1338 del 1962.

Ne consegue che le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il lavoratore, nei confronti del datore di lavoro, consistono: una volta raggiunta l’età pensionabile, nella perdita totale o parziale della pensione che dà luogo al danno risarcibile ex art. 2116 cod.civ.; prima del raggiungimento dell’età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, nel danno da irregolarità contributiva a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 cod.civ. ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso.
La legge di riforma delle pensioni nr. 335/95 (cfr. art. 3 comma 9 e 10 L. 335/’95) ha unificato i termini prescrizionali delle varie forme di previdenza ed assistenza obbligatoria, livellandoli tutti a 5 anni.
Infatti, a seguito dell’entrata in vigore della Legge nr. 335/95, la disciplina della prescrizione dei contributi Inps e quella delle Casse professionali è stata uniformata. La disciplina della prescrizione dei contributi dovuti agli enti previdenziali dei liberi professionisti risulta, dunque, dal concorso delle specifiche disposizioni contenute nelle rispettive leggi istitutive (cfr. ad es. l’art. 19 della L. n. 576/1980; l’art. 19 della L. n. 21/86; l’art. 18 della L. n. 6/1981; l’art. 19 della L. n. 773/1982; l’art. 21 della L. n. 414/1991; l’art. 19 della L. n. 249/1991) e delle disposizioni di cui ai commi 9 e 10 dell’art. 3 della L. n. 335/95 dichiarate dalla Suprema Corte di Cassazione applicabili a tutti i sistemi previdenziali obbligatori e, tra essi, anche agli enti previdenziali privatizzati.
Pertanto i contributi si prescrivono/estinguono in cinque anni dalla loro insorgenza e, limitatamente alla quota di contribuzione per invalidità vecchiaia e superstiti, essi vengono iscritti in ruoli esecutivi (cfr. D.Lgs. 46/’99) entro il 31.12 dell’anno successivo ai fini del recupero coattivo.
E’ necessario individuare il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale ovvero da quale momento diventa esigibile il pagamento dei contributi.
Secondo i chiarimenti forniti dall’Inps, con la Circolare nr. 69 del 25/5/05, con riferimento ai contributi previdenziali ed assistenziali dovuti sulla quota di reddito eccedente il minimale della gestione degli artigiani, dei commercianti, degli agenti di commercio, la data di insorgenza dell’obbligazione, e quindi quella di individuazione della decorrenza del termine prescrizionale, coincide con quella in cui il contribuente assicurato è tenuto ad effettuare il saldo, e non quella in cui il medesimo comunica all’Inps il reddito sul quale effettuare il controllo di congruità sul versato.
Nei rapporti di lavoro subordinato il versamento dei contributi deve avvenire entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui è scaduto l’ultimo periodo di paga cui si riferisce il modello DM 10/2.
In ogni caso la Legge 335/’95 distingue un differente regime prescrizionale tra atti posti in essere ad iniziativa dell’Ente ( in relazione ai quali la prescrizione è quinquennale ) ed atti posti in essere su denuncia del lavoratore (in relazione ai quali la prescrizione è decennale).
Ai fini dell’individuazione del decorso della prescrizione del credito contributivo, occorre riferirsi al momento dell’eventuale esercizio o mancato esercizio dell’atto interruttivo della prescrizione stessa.

L’art 3 comma 9 della L. 335/’95 legge individua 3 distinti periodi:

  1. sino al 31.12.95
  2. dal 17.8.95 al 31.12.’95
  3. dall’1.1.96.

Il regime prescrizionale va dunque interpretato nel senso che:

  1. per i contributi relativi a periodi successivi alla data di entrata in vigore della legge (17.8.’95), la prescrizione resta decennale sino al 31.12.1995, mentre si riduce, senza possibilità di deroga, a quinquennale dall’1.1.1996 e parimenti quinquennale sarà per i contributi dovuti dal 1996 in avanti;
  2. per i contributi relativi a periodi precedenti alla data di entrata in vigore della legge, si applica la medesima disciplina sub a), stante il richiamo che il comma 10 opera all’intero comma 9, ma con una importante differenza. Il termine decennale precedente per questi contributi permane ove, entro il 31.12.1995, siano stati compiuti dall’istituto atti interruttivi, ovvero siano iniziate procedure nel rispetto della normativa preesistente. Valgono quindi tutti gli atti interruttivi compiuti prima dell’entrata in vigore della L. 335/’95, sia dopo, purché compiuti entro il 31.12.1995;
  3. la riduzione del termine decennale a quinquennale, opera solo dall’1.1.1996, facendo salva la facoltà per l’Istituto di mantenere il regime prescrizionale decennale per i contributi pregressi con riferimento al periodo intermedio che va dalla data di entrata in vigore della legge (17.8.’95) al 31.12.’95 adottando atti interruttivi o iniziando idonee procedure.

La giurisprudenza di legittimità afferma che “In materia di prescrizione del diritto degli enti previdenziali (nel caso di specie, l’INPGI) ai contributi dovuti dai lavoratori e dai datori di lavoro, il termine originariamente decennale, è divenuto quinquennale, in virtù del disposto della legge n. 335 del 1995, dal 1 gennaio1996, anche per i contributi relativi a periodi precedenti alla data di entrata in vigore della legge; tuttavia, se nel periodo intermedio tra l’entrata in vigore della legge (17 agosto1995) e l’operatività del nuovo regime prescrizionale (1 gennaio 1996) l’ente compie atti interruttivi della prescrizione o inizia procedure nel rispetto della normativa preesistente, tali attività sono idonee a perpetuare il termine di prescrizione decennale precedentemente vigente” (1).

Ancora con una recente pronuncia la Corte ha ribadito che “L’art. 3, commi nono e decimo, della legge n. 335 del 1995, prevedendo che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono in dieci anni per quelle di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie – termine ridotto a cinque anni con decorrenza 1° gennaio 1996 (lettera a) – e in cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria (lettera b), ha regolato l’intera materia della prescrizione dei crediti contributivi degli enti previdenziali, con riferimento a tutte le forme di previdenza obbligatoria, comprese quelle per i liberi professionisti, con conseguente abrogazione per assorbimento, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, delle previgenti discipline differenziate, sicché è venuta meno la connotazione di specialità in precedenza sussistente per i vari ordinamenti previdenziali di categoria.

La nuova disciplina, pur riducendo il termine da decennale a quinquennale per tutti i tipi di contributi previdenziali, opera però una distinzione:

  • per i contributi destinati alle gestioni diverse da quelle pensionistiche (comma 9, lettera b) il termine diventa immediatamente quinquennale alla data di entrata in vigore della legge (17 agosto 1995);
  • invece, per i contributi dovuti alle gestioni pensionistiche (comma 9, lettera a) la prescrizione resta decennale fino al 31 dicembre 1995 e diviene quinquennale dal primo gennaio 1996, ma soltanto se entro il 31 dicembre 1995 l’ente previdenziale non abbia posto in essere atti interruttivi oppure iniziato procedure nel rispetto della normativa preesistente, altrimenti rimane decennale.

La sistemazione organica e completa del regime transitorio comporta, pertanto, una deroga all’art. 252 disp. att. cod. civ., escludendone l’applicazione in via sussidiaria o integrativa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva applicato la nuova normativa ai contributi dovuti all’INARCASSA rigettando le censure di quest’ultima secondo cui doveva continuare ad applicarsi la norma speciale prevista per i contributi alla Cassa – l’art. 18 della legge n. 6 del 1981, e la prescrizione decennale ivi prevista – , in forza del principio “lex specialis derogat legi generali”).

Un primo profilo problematico portato al sindacato della Suprema Corte di Cassazione è stato quello dell’applicabilità del termine prescrizionale quinquennale, così come disciplinato dai commi 9 e 10 dell’art. 3 della L. n. 335/95, agli Enti Previdenziali dei liberi professionisti.
La Corte sull’argomento, disattendendo l’orientamento della giurisprudenza di merito, ha affermato che: “L’art. 3, comma nono, della legge n. 335 del 1995, prevedendo che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono in dieci anni per quelle di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie – termine ridotto a cinque anni con decorrenza 1 gennaio 1996 (lettera a) – e in cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria (lettera b), ha regolato l’intera materia della prescrizione dei crediti contributivi degli enti previdenziali, con conseguente abrogazione, ai sensi dell’art. 15 disp. prel. cod. proc. civ., per assorbimento, delle previgenti discipline differenziate, sicché è venuta meno la connotazione di specialità in precedenza sussistente per i vari ordinamenti previdenziali, quale quello forense, per il quale l’art. 19 della legge n. 576 del 1980 stabiliva il termine prescrizionale di dieci anni.

E poiché il termine del 1 gennaio 1996 è previsto solo per le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie, ne consegue che per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria la prescrizione quinquennale opera dalla data di entrata in vigore della legge n. 335 del 1995, e cioè dal 17 agosto 1995, con efficacia retroattiva, posto che l’art. 3, comma decimo, espressamente dispone che i termini di prescrizione di cui al precedente comma nono si applicano anche alle contribuzioni relative a periodi precedenti la data di entrata in vigore della legge stessa, fatta eccezione per i casi di atti interruttivi già compiuti o di procedure iniziate nel rispetto della normativa preesistente, sempre che, alla luce del dettato dell’art. 252 disp. att. cod. civ., al momento di entrata in vigore della nuova legge, non rimanga a decorrere, a norma della legge precedente, un termine inferiore” (2).

Note:
(1) cfr. Cass. Sez. Lav nr. 24138 del 29.12.2004
(2) cfr. Cass. Sez. Lavoro nr. 5522 del 9.4.2003

 

L’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni e le Malattie Professionali

Tra le principali forme di tutela previdenziale di diritto pubblico rientra certamente l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali di cui al DPR nr. 1124 del 30.6.1965 finalizzata a indennizzare, mediante l’erogazione di prestazioni sanitarie ed economiche, le conseguenze negative di eventi – quali l’infortunio o la malattia professionale – verificatisi per causa ed in occasione di lavoro e dai quali possa conseguire inabilità permanente, temporanea o nei casi più gravi la morte.
Sotto questo profilo, il sistema assicurativo INAIL si è trovato necessariamente a doversi confrontare con le nuove fonti di rischio atipiche (es: mobbing, patologie da stress; sindrome da movimenti ripetitivi, ecc.) conseguenti alla introduzione di nuove tecnologie e materiali nel mondo del lavoro.
Salvo alcune eccezioni (giornalisti, addetti alla navigazione marittima, dirigenti e tecnici aziende agricole ed altri) l’Inail opera in regime di monopolio.

Le attività soggette ad assicurazione Inail possono dividersi in due grandi categorie:

  1. le attività comportanti l’uso di macchine mosse non direttamente dalla persona che le adopera, apparecchi a pressione, o apparecchi o impianti elettrici e termici, attività svolte individualmente o in opifici, laboratori, o ambienti organizzati per lavori opere o servizi;
  2. attività dettagliatamente elencate dalla legge ritenute intrinsecamente ed oggettivamente pericolose, come ad es. i lavori edili, stradali, di scavo, trasporto, di produzione di sostanze o di prodotti esplosivi.

Anche le attività complementari a quelle descritte sono assoggettate alla assicurazione Inail.

Parallelamente all’Ispettorato del Lavoro l’Inail svolge una importante attività di vigilanza e controllo direttamente in azienda finalizzata alla verifica del rispetto delle normative specifiche antinfortunistiche e con poteri di diffida alla regolarizzazione delle eventuali violazioni riscontrate (cfr. in particolare art 4 c. 6 L. 123/’07).
La legge elenca le categorie di lavoratori soggetti all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ed è opportuno ricordare che ex plurimis, oltre ai dirigenti, anche i collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori a progetto, i lavoratori che prestazioni collaborazioni marginali (ex art 61 c. 2 D.Lgs. 276/2003), i collaboratori titolari di pensione di vecchiaia, i componenti i consigli di amministrazione delle società, sono iscritti a tale forma di protezione.
Inoltre la legge estende la tutela assicurativa ai componenti dell’impresa familiare, ai socie delle cooperative, agli associati in partecipazione, ai prestatori di lavoro accessorio ed agli artigiani.
Il tasso di premio, ovvero il costo dell’assicurazione obbligatoria viene determinato dall’Istituto mediante l’applicazione di un tasso al montante delle retribuzioni imponibili corrisposte ai lavoratori.

Come anticipato gli eventi tutelati dall’assicurazione sono innanzi tutto l’infortunio sul lavoro ossia quell’evento verificatosi per causa violenta (ossia da un fattore che opera dall’esterno con azione intensa e concentrata nel tempo, rapida) ed in occasione di lavoro.
Va sottolineato che l’interpretazione della nozione di infortunio sul lavoro è andata col tempo ampliandosi, ricomprendendo ad esempio anche quegli eventi causati da reazione fisiche e psichiche del lavoratore in risposta alle condizioni di fatica e stress. Per occasione di lavoro si intende quel particolare rapporto anche mediato ed indiretto che deve intercorrere tra l’evento lesivo e il lavoro.

In linea generale, ad ogni evento di danno occorso al lavoratore nell’espletamento delle proprie mansioni lavorative, consegue una tutela previdenziale-assistenziale e, ove siano ravvisabili gli estremi della colpa del datore di lavoro per la violazione delle norme generiche e specifiche sulla prevenzione degli infortuni, può intraprendersi l’azione civilista di risarcimento dei danni “differenziali”.
Per infortunio sul lavoro deve intendersi un evento lesivo avvenuto per causa violenta (con azione intensa e concentrata nel tempo), in occasione di lavoro, dal quale astrattamente possono conseguire, nei casi più gravi, la morte del lavoratore oppure postumi di natura permanente (incidenti sulla capacità lavorativa generica e sull’efficienza psicofisica) oltre che temporanei.
L’infortunio sul lavoro come noto, si differenzia dalla malattia professionale o tecnopatia, determinata dalla cosiddetta “causa lenta” proprio per la natura violenta della causa che deve causarlo (1).
Per occasione di lavoro deve intendersi la riferibilità eziologica diretta od indiretta tra l’attività lavorativa e l’infortunio che ne costituisce presupposto indefettibile.

I contratti collettivi usualmente disciplinano l’effetto del periodo inabilità temporanea conseguente ad infortunio sul lavoro ai fini del compimento del periodo di comporto e della conseguente conservazione del rapporto di lavoro.

Ogni evento può definirsi avvenuto per causa ed in occasione di lavoro, anche al di fuori dell’orario di lavoro, quando il lavoro sia stato la causa del rischio. E’ cioè necessario che intercorra un nesso di causalità anche mediato ed indiretto, tra attività lavorativa e sinistro.
Deve ricorrere un rischio specifico o di un rischio generico aggravato dal lavoro e non di un mero rischio generico incombente sulla generalità delle persone (indipendente dalla condizioni peculiari del lavoro).
Rilevano tutte le condizioni, anche ambientali, in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è immanente il rischio di danno per il lavoratore.
Solo il rischio elettivo, ovvero quello rapportabile a fatto proprio esclusivo e frutto di una libera e spontanea determinazione del lavoratore, estraneo alle mansioni ed al lavoro, esclude l’occasione di lavoro.
Non sono indispensabili i requisiti della straordinarietà, accidentalità ed imprevedibilità del fatto lesivo.

Occorre sottolineare che il comportamento colposo del lavoratore infortunato, consistente ad es. in atti di imprudenza negligenza ed imperizia, non esclude il rapporto di causalità.
Esaminando la casistica giurisprudenziale con specifico riferimento all’occasione di lavoro, sono stati ritenuti indennizzabili:

  • l’infortunio subito dal lavoratore vittima di una rapina nel tragitto casa – lavoro (cfr. Cass. Civ. 14.2.’08 nr.3776);
  • l’infortunio sul lavoro per causa violenta (caduta accidentale sulle scale), occorso al lavoratore mentre si accingeva a esercitare le proprie mansioni, recandosi presso altro reparto ove collaborava alla terapia riabilitativa, per conferire con un collega su questioni di lavoro;
  • nell’ipotesi di rischio improprio, ossia nel caso di incidente occorso durante la deambulazione all’interno del luogo di lavoro, in quanto pur non intrinsecamente allo svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro volto dal dipendente, è insito in un’attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette mansioni e, comunque, ricollegabile al soddisfacimento di esigenze lavorative (cfr. Cass. Civ. 16417/’05);
  • nel caso di infortunio occorso ad infermiera ospedaliera, mentre si recava in bagno per lavarsi alla fine del turno, corrispondendo, detta esigenza, ad una fondamentale norma igienica direttamente collegata al lavoro svolto dall’infortunata (cfr. Cass. Civ. nr. 180/’05);
  • nell’infortunio subito dall’assicurato in cui, varcando la soglia dell’ufficio per cercare le istruzioni per mettere in moto un trattore gommato che avrebbe dovuto riparare, scivolava urtando contro una vetrata e si infortunava;
  • l’infortunio avvenuto nell’ambito del cosiddetto “rischio ambientale”, di cui sono espressione gli atti di locomozione interna, costituito dall’ambiente di lavoro in sé, nel quale normalmente il lavoratore dipendente è autorizzato ad entrare solo per ragioni lavorative in quanto gli infortuni avvenuti in tale ambito si presumono avvenuti per causa lavorativa, salvo prova contraria, desumibile dalle circostanze stesse dell’incidente, od anche dalla qualifica soggettiva del lavoratore, il quale ad es. abbia la disponibilità dell’ambiente di lavoro o per la sua qualifica o per la natura autonoma del rapporto (cfr. Cass. Sez. Lav. nr. 10317 del 5.5.’06);

Con specifico riferimento alla nozione della “causa violenta” intesa come fattore esterno, occorre precisare che l’esteriorità qualifica il rapporto tra lavoratore e ambiente di lavoro, anche con particolare riferimento alle condizioni in cui lo stesso è chiamato a svolgere il suo lavoro e che non esclude l’indennizzabilità di infortuni causati da reazioni fisiche e psichiche dello stesso lavoratore, pur sempre riconducibili a condizioni di sforzo, fatica e stress.
Di notevole rilevanza sono infine le molteplici pronunce in materia di sforzo (cfr. Cass. Sez. Lav nr. 11559, del 6.11.1995, Rel. Lupi e Cass. Sez. Lav nr. 7228 del 30.5.’00; Cass. Sez. Lav. nn.ri 2639/ 1990; 10450/’97; 12940/’97) nella quali la Suprema Corte ha ritenuto che anche lo sforzo fisico compiuto durante il lavoro, possa configurare l’esistenza della causa violenta richiesta dall’art. 2 del DPR 1124/65, atta a determinare, con azione rapida ed intensa la lesione dell’equilibrio fisico dell’assicurato.
In questo caso il nesso causale non è escluso da una predisposizione morbosa (si pensi ad es. alla ricorrenza di patologie cardiovascolari) che anzi può far si che proprio uno sforzo determini la rottura del precario equilibrio organico dando luogo a conseguenze invalidanti.

Pertanto possono integrare la nozione di infortunio sul lavoro per causa violenta:

  • l’infarto quando sia causalmente e topograficamente connesso con l’attività lavorativa ( si pensi ad es ad una attività comportante un notevole sforzo fisico, quale quella del muratore);
  • l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne comportino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempre che tale azione sia eziologicamente rapportabile all’attività lavorativa (cfr. Cass. Sez. Lav nr. 12559 del 26.5.2006);
  • l’agente lesivo presente nell’ambiente di lavoro in maniera superiore rispetto all’ambiente esterno, che abbia provocato un indebolimento delle difese immunitarie;
  • la lombosciatalgia sopravvenuta a causa del movimento compiuto dal lavoratore intento allo spostamento di un carico ( Cass. 2.3.1988 nr. 2219);
  • la malattia infettiva e parassitaria: la giurisprudenza di legittimità si è già espressa in analoghe situazioni, affermando che nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione. La relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici (cfr. Cass. Sez. Lav nr. 20941/’07). In questi termini, cfr. Cass., 1°.6. 2000, n. 7306, riguardo ad una fattispecie relativa ad un infermiere professionale che deduceva di avere contratto un’epatite pungendosi con l’ago di una siringa mentre effettuava un prelievo di sangue ad un ricoverato.


Note:
(1) cfr. Cass. Sez. Lav nr. 9968del 12.5.’05: “Con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, può costituire causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Tale dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica, era giunta alle conclusioni che la dipendente, assistente socio sanitaria con mansioni di collaborazione con il personale infermieristico, avesse secondo un calcolo probabilistico contratto l’infezione da epatite B proprio nell’espletamento dell’attività ospedaliera)”.

 

Prestazioni economiche per inabilità temporanea e permanente

Le prestazioni economiche e sanitarie (cure mediche e chirurgiche, fornitura di apparecchi e di protesi, cfr. artt. 66, 92, 94, 97 DPR 1124/65) vengono erogate dall’Inail, nell’ipotesi di infortunio e malattia professionale, quando dall’evento derivi una inabilità temporanea assoluta (che è concettualmente distinta dalla malattia ordinaria gestita dall’Inps e assorbe ogni altra prestazione erogata dall’Inps) o residuino postumi di natura permanente indennizzabili.
Quando dall’evento lesivo indennizzabile consegua la morte del lavoratore assicurato, l’Istituto costituisce la rendita ai superstiti (cfr. artt. 85, 105,106 DPR 1224/65) ed eroga l’assegno funerario. Tra le altre prestazioni vi è l’assegno di incollocabilità in favore dei lavoratori invalidi che hanno perso qualsiasi capacità lavorativa (cfr. art 180 DPR 1224/65) e la rendita di passaggio (cfr. art 150, 151 DPR 1224/65) in favore dei lavoratori invalidi affetti da asbestosi o silicosi.
L’infortunio sul lavoro – come la malattia professionale – possono provocare un periodo di inabilità temporanea assoluta che impedisce al lavoratore assicurato lo svolgimento dell’attività lavorativa.
I primi tre giorni di assenza sono caratterizzati dalla cosiddetta “carenza assicurativa” e la retribuzione resta a carico del datore di lavoro. Per il periodo successivo interviene l’Inail.
I contratto collettivo stabiliscono una diversa percentuale della quota di trattamento economico che concorre con quella dell’Inail.
Dal 4° giorno al 90° giorno ad esempio, l’Inail corrisponde il 60% della retribuzione media giornaliera e il datore di lavoro il 40%.
La riforma attuata con il D.Lgs. 38/2000 del sistema assicurativo Inail, prevede ora il risarcimento del danno biologico (cfr. art 13) che viene erogato sotto forma di capitale, per gradi di invalidità pari o superiori al 6% ed inferiori al 16% e sotto forma di rendita per menomazioni superiori al 16%.
Di fatto i postumi permanenti al di sotto del 5% non vengono indennizzati.
Il lavoratore infortunato può svolgere, qualora sussistano gli estremi di una responsabilità contrattuale del datore di lavoro per violazione dell’art 2087 c.c. o di altre disposizioni specifiche (cfr. in particolare il nuovo testo sulla sicurezza di cui al D.Lgs. 81/2008), un’azione di risarcimento danni nei confronti dello stesso avente ad oggetto i danni biologici differenziali, ovvero non oggetto dell’indennizzo Inail, del danno morale, patrimoniale ed esistenziale.

 

Il sistema “tabellare” delle malattie professionali, il nesso causale, le presunzioni legali e l’onere della prova per il riconoscimento dell’indennizzo della malattia professionale

Per malattia professionale si intende una patologia che si sviluppa a causa della presenza di stimoli nocivi nell’ambiente di lavoro.
Gli agenti responsabili sono tantissimi e spesso i lavoratori sono esposti alla loro azione senza conoscere i rischi a cui vanno incontro.
I fattori che hanno maggiore rilevanza sono quelli dovuti all’edilizia, all’agricoltura, agli agenti cancerogeni, i cui effetti si manifestano dopo decenni dal loro utilizzo, e l’impiego sempre più diffuso sia nell’industria che in campo agricolo, di sostanze chimiche dannose per la salute dei lavoratori.
Altri fattori di rischio sono legati all’organizzazione del lavoro, campo in cui il fattore umano ormai riveste un ruolo marginale, che si possono riassumere in:

  • ambienti di lavoro carenti dal punto di vista igienico o sovraffollati
  • ritmi di lavoro elevati e mansioni ripetitive
  • scarsa manutenzione degli impianti

A questi vanno aggiunti dei fattori emergenti legati principalmente al lavoro d’ufficio (attualmente in Italia il terziario è il settore che occupa il maggior numero di lavoratori) in cui si hanno molte tipologie di malattie professionali (difficilmente infortuni) in genere di scarsa gravità ma importanti per il numero di casi registrati.
In questo ambito il rischio è dovuto:

  • uso del computer che porta a patologie legate a: vista, stress, radiazioni, ergonomia: patologie spinali e sindrome del tunnel carpale
  • impianti di condizionamento
  • infezioni
  • asma e alveoliti allergiche

In particolare, la letteratura specialistica recente segnala come le patologie respiratorie, in particolare la broncopneumopatia cronica ostruttiva e l’asma, che è frequentemente associata a rinite, costituiscono uno dei più rilevanti problemi sanitari per le persone che ne sono colpite.
Il 18% delle forme di asma bronchiale, il 15 % delle intersiziopatie, il 50% delle broncopneumopatie cronico ostruttive, il 40% delle neoplasie polmonari e sono all’80% dei mesoteliomi sono stimati come aventi origine professionale.
E’ onere del lavoratore tecnopatico (portatore di malattia di origine professionale), così come nel caso degli eredi che agiscono per ottenere la rendita ai superstiti, assolvere all’onere della prova al fine di ottenere il riconoscimento della malattia professionale.
La legge distingue tra patologie tabellate, per le quali vige appunto la presunzione legale di origine professionale delle stesse, sempre che le stesse siano state denunciate entro i termini massimi di indennizzabilità previsti dalla tabella, e patologie non tabellate in relazione alle quali il lavoratore ha sempre l’obbligo di provare l’origine professionale.
Nel caso di malattie professionali tabellate indicate all’art. 134 del Tu 1124/65, incombe quindi sull’Inail dimostrare che una causa extralavorativa ha dato causa alla malattia.
L’elenco delle malattie professionali ha carattere tassativo e non può essere ampliato né è suscettibile di interpretazione analogica.
Nel 1994 questo elenco è stato aggiornato ed inoltre è possibile ottenere un risarcimento anche per le malattie non presenti in tale tabella ma per cui sia dimostrabile una chiara correlazione tra patologia e attività lavorativa.
Anche l’Unione europea si è occupata di questo argomento attraverso una raccomandazione del 2003 contenente una nuova classificazione delle malattie professionali.

 

I presupposti per il riconoscimento e l’indennizzabilità della malattia professionale

Gli articoli 3 e 211 del DPR 30.6.1965 nr. 1124 prevedono quali condizioni per la indennizzabilità della “malattia professionale” contratta dal lavoratore assicurato:

  1. che la stessa sia stata contratta nell’esercizio di attività assicurate contro gli infortuni sul lavoro;
  2. che sia stata determinata da causa lenta ovvero da graduale e progressiva azione lesiva di determinati fattori morbigeni sull’organismo, differentemente dalla cosiddetta “causa violenta”, concentrata nel tempo, tipica dell’infortunio sul lavoro;
  3. che la patologia contratta sia eziologicamente riferibile alle mansioni lavorative espletate.

Ciò che qualifica la malattia professionale non è dunque la patogenesi, considerata tanto sotto l’aspetto della qualità della causa (lavoro), quanto sotto quello del suo modo di azione (lento).

 

Sulla interpretazione analogica estensiva della Tabella Allegato 4: dal principio di tassatività del sistema tabellare al sistema misto a linee aperte. L’intervento della Corte Costituzionale

Come noto, il regime assicurativo Inail prevede all’art. 3 comma 1 del DPR 1124/65 ed alla allegata tabella, il cosiddetto sistema tabellare, ovvero l’indicazione e l’elenco delle patologie contratte in conseguenza delle lavorazioni ivi specificate ed i periodi massimi di indennizzabilità, a decorrere dalla cessazione del lavoro morbigeno (cfr. tabella 4 allegata).
Se la patologia contratta rientra nelle ipotesi contemplate dalla suddetta tabella, il lavoratore assicurato può avvalersi della cosiddetta presunzione legale di indennizzabilità, incombendo per contro all’Inail dimostrare la sussistenza di una causa extralavorativa quale causa della malattia.
Tuttavia occorre ribadire che, anche nell’ipotesi di patologia tabellata, incombe sul lavoratore assicurato dimostrare sia che la malattia denunciata all’Istituto rientra tra le specifiche tecnopatie previste dalle tabelle per le malattie professionali, quanto l’avvenuta esposizione al rischio, nonché le caratteristiche peculiari della malattia professionali tali per le quali essa si distingue da quella di tipo comune.
L’elencazione tabellare è stata nel tempo oggetto di modifiche ed integrazioni da parte del D.P.R. nr. 482 del 9.6.1975.
La Corte Costituzionale è significativamente intervenuta con la sentenza nr. 179 del 10-18 febbraio 1988 ( in G.U. 1^ serie speciale nr. 8 del 24.2.1988 ) dichiarando l’illegittimità dell’ art 3 comma 1 e dell’art. 211 comma 1 del DPR 30.6.65 nr. 1124, nella parte in cui non prevedono che l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura sia obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa professionale o di lavoro.
Ciò vale non solo per quel che riguarda l’individuazione di nuove malattie, ma anche per quel che concerne gli ostacoli che possono derivare dalla distanza temporale tra causa patologica e manifestazione morbosa.
L’intervento del Giudice delle Leggi ha di fatto comportato l’abbandono del sistema tabellare chiuso in favore dell’adozione di un sistema misto ed il conseguente diritto per il lavoratore assicurato di ottenere l’indennizzo assicurativo, una volta che si sia fornita prova della eziologia professionale. (cfr. Cass. Sez. Lav nr. 6808 del 1990; Cass. Sez. Lav nr. 5641 del 1988).
Tuttavia, contrariamente alla raccomandazione della Cee del 23.7.1962 ed alla pronuncia della Corte Costituzionale che invitavano Governo e Parlamento all’adozione di una soluzione legislativa mista che consentisse a tutti i lavoratori di provare l’eziologia professionale di una malattia non compresa nella tabella, il nostro legislatore ha continuato ad avvalersi del sistema della “lista chiusa”, sostituendo alle Tabelle allegate ai nnr.i 4 e 5 del T.U. 1124/65, altre tabelle e limitandosi ad aumentare il numero delle tecnopatie protette e ad ampliare l’indicazione delle lavorazioni che espongono ai rischi derivanti da sostanze organiche e da agenti chimici e fisici.

Riportiamo alcune significative decisioni della giurisprudenza di legittimità di argomento.

  • In tema di Assicurazione contro le malattie professionali, nella disciplina risultante a seguito della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 3 primo comma del D.P.R. 30 giugno 1965 nr. 1124 (sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1988), mentre le malattie diverse da quelle specificamente elencate nelle apposite tabelle, ovvero ricollegabili all’esercizio di lavorazioni diverse da quelle descritte nelle tabelle stesse, sono indennizzabili solo dietro prova della “causa di lavoro” da parte dell’interessato, per le malattie e lavorazioni entrambe “tabellari”, opera, a favore dell’assicurato, una presunzione di eziologia professionale.
  • A tale ultimo riguardo, le elencazioni contenute nelle indicate tabelle hanno carattere tassativo, ma ciò, se vieta un’applicazione analogica delle relative previsioni, non è di ostacolo ad una interpretazione estensiva delle medesime, con la conseguenza che la suddetta presunzione è invocabile anche per lavorazioni non espressamente previste nelle tabelle, ma da ritenersi in esse implicitamente incluse, alla stregua della identità dei connotati essenziali, ferma restando l’inapplicabilità della presunzione stessa per quelle lavorazioni che presentino solo alcuni caratteri in comune, unitamente ad elementi non marginali di diversità, si da rendere configurabile una mera somiglianza con fattispecie inclusa nella lista. (nella specie, la C.S. ha cassato la decisione dei giudici del merito che avevano ritenuto la frantumazione di materiale calcareo mediante mulini a palle rientrare nella attività di produzione di polveri metalliche con macchine a pestelli, prevista dalla voce n. 44 lett. E della tabella).
  • A tale ultimo riguardo, le elencazioni contenute nelle indicate tabelle hanno carattere tassativo ma ciò, se vieta un’applicazione analogica delle relative previsioni, non è di ostacolo ad un’interpretazione estensiva della medesima, con la conseguenza che la suddetta presunzione è invocabile anche per lavorazioni non espressamente previste nelle tabelle, ma da ritenersi in esse implicitamente incluse, alla stregua dell’identità dei loro connotati essenziali, ferma restando l’inapplicabilità della presunzione stessa per quelle lavorazioni che presentino solo caratteri di mera somiglianza o prossimità con quelle tabellate. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva escluso che potesse rientrare nella lavorazione tabellata “prove dei motori a scoppio” di cui all’allegato 4 del D.P.R. n. 1124 del 1965, nel testo sostituito dal D.P.R. n. 482 del 1975, l’attività di conducente di autobus di città con motore diesel).

 

 

Le concause extralavorative ed il regime Inail

Nell’ipotesi di malattia professionale, il nesso causale tra malattia e causa lavorativa non è escluso da una precedente predisposizione morbosa del lavoratore e quindi dal concorso di altre cause aventi origine extralavorativa.
Ne consegue che la prestazione assicurativa spettante al lavoratore non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente alla entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma debba essere riconosciuta per l’intero, non essendo possibile distinguere tra cause professionali e cause non professionali, in forza del principio di equivalenza causale.
Il principio della equivalenza causale nell’accertamento del rapporto eziologico nelle malattie professionali indennizzabili dall’Inail è stato più volte ribadito dalla Suprema Corte.
Vale cioè il principio di diritto per il quale, nell’ipotesi di malattia professionale derivata da causa lavorativa e da causa extralavorativa – aventi entrambe natura efficiente e causale, si applicano le disposizioni previste dall’art 41 del codice penale, ovvero quelle dell’equivalenza causale per le quali “il concorso di cause preesistenti, simultanee e sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione, l’omissione e l’evento” .
La regola è dunque quella per la quale il nesso causale non è escluso da una precedente predisposizione morbosa (cfr. Cass. Sez. Lav. nr. 2369/’90) e quindi dal concorso di altre cause aventi origine extralavorativa.

 

L’infortunio in itinere

Il D.Lgs. nr. 38/2000, ha per la prima volta legislativamente inserito nella tutela assicurativa l’infortunio in itinere, aggiungendo un secondo comma all’art 2 ed all’art 210 del DPR. 1124/65.
Com’è noto, non vi era precedentemente una simile previsione se non per la gente di mare (art. 6 T.U. 1124/1965).
Il più recente sviluppo giurisprudenziale – ed a questo si è fatto riferimento nella stesura della nuova normativa – ha ulteriormente superato l’antico principio del rischio specifico, riconoscendo l’indennizzabilità di infortuni avvenuti durante il cammino a piedi, ed in assenza di particolari condizioni di rischio, oppure nel corso del trasporto su mezzo pubblico, giungendosi ad affermare che l’elemento discretivo dell’indennizzabilità è la finalità di recarsi al lavoro o di ritornarne.
Si tratta quindi di una vera e propria estensione dell’attività assicurata, superata ormai la precedente concezione fondata sull’analogia, quanto al rischio, del viaggio al lavoro.
Deve sottolinearsi come i criteri di accertamento per l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere di cui all’art. 12 del D.Lgs. 38/2000 si applichino anche egli eventi lesivi occorsi antecedentemente alla sua entrata in vigore (1).

Note:
(1) cfr. Cass. Sez. Lav. nr. 15266 del 6.7.07: “In materia di infortuni sul lavoro, l’art. 12 del D.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, che ha espressamente ricompreso nell’assicurazione obbligatoria la fattispecie dell’infortunio “in itinere”, inserendola nell’ambito della nozione di occasione di lavoro di cui all’art. 2 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, esprime dei criteri normativi (come quelli di “interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate”, che delimitano l’operatività della garanzia assicurativa) utilizzabili per decidere anche controversie relative a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore, militando in tal senso: a) la circostanza che l’art. 55, lett. u), della legge 17 maggio 1999, n. 144, ha posto come criterio direttivo per il legislatore delegato il recepimento dei principi giurisprudenziali consolidati in materia, i quali, pertanto, hanno costituito, dapprima, diritto vivente nell’ambito dell’interpretazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 1124 del 1965, per poi plasmare, come tali, il contenuto del precetto introdotto dall’art. 12 del D.Lgs. nr. 38 del 2000; b) il fatto che il sistema dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali si è evoluto tramite interventi legislativi che, non di rado, hanno avuto la funzione di far assurgere a dignità di norma positiva gli orientamenti giurisprudenziali (come è dimostrato proprio in relazione all’istituto dell’infortunio “in itinere”, che l’opera della giurisprudenza ha conformato muovendo dalla nozione di occasione di lavoro); c) il rilievo in base al quale una norma successiva ben può costituire criterio interpretativo che illumina anche il regime precedente. (Nella specie, la S.C., enunciando il principio anzidetto, ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso potesse indennizzarsi, nel regime antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 38 del 2000, l’infortunio occorso ad un lavoratore in conseguenza di sinistro verificatosi su percorso diverso da quello normale di rientro dal lavoro al luogo di residenza, avendo egli effettuato una deviazione per provvedere alla sostituzione dei pneumatici usurati dell’autovettura, la quale non poteva reputarsi “necessitata” secondo i criteri normativi posti dall’art. 12 del citato d.lgs. n. 38 del 2000, bensì ascrivibile a rischio elettivo, giacché non giustificata da esigenze essenziali ed improrogabili, tra queste non potendo, per giunta, includersi la dedotta usura del treno di gomme, perché ben poteva essere rilevata per tempo).

 

L’Istituto della rendita ai superstiti

La legge disciplina i presupposti affinché i prossimi congiunti (vedova, ascendenti,discendenti con esclusione dei collaterali) del lavoratore assicurato deceduto a causa dell’infortunio o della malattia professionale, possano percepire le prestazioni previdenziali consistenti in una rendita ragguagliata al 100% della retribuzione, calcolata secondo le disposizioni di cui agli artt. da 116 a 120 del TU 1124/65.
L’art. 85 (1) dispone infatti che tale importo spetti al coniuge (indipendentemente dai propri redditi) nella misura del 50% sino alla morte od a nuovo matrimonio e del 20% a ciascun figlio legittimo, naturale, riconosciuto o riconoscibile e adottivo, sino al compimento del 18° anno di età o del 40% se trattasi di orfani di entrambi i genitori.
Per i figli viventi a carico del lavoratore infortunato al momento del decesso se si tratti di orfani di entrambi i genitori, e nel caso di figli adottivi, siano deceduti entrambi gli adottanti.
Per i figli viventi a carico del lavoratore infortunato al momento del decesso e che non prestino lavoro retribuito, dette quote sono corrisposte sino al raggiungimento del 21° anno di età, se studenti di scuola media o professionale, e per tutta la durata normale del corso, ma non oltre il 26° anno di età, se studenti universitari.
Se si tratta di figli inabili, la rendita viene corrisposta sino a quando perdura l’inabilità.
Si considerano superstiti i figli concepiti alla data dell’infortunio e i nati entro 300 giorni da tale data.
Occorre fare una distinzione nell’ambito dei soggetti beneficiari della rendita: mentre infatti coniuge, figli sino al compimento del 18° anno di età e figli inabili di qualsiasi età hanno diritto alla rendita in ogni caso, gli ascendenti, gli adottanti i fratelli e le sorelle sono tenuti a dimostrare la sussistenza dell’ulteriore requisito della vivenza a carico (2).
Per quanto riguarda lo stato di coniugio esso deve sussistere al momento della morte, anche se giurisprudenza di legittimità esclude che lo stato di separazione personale all’atto della morte impedisca la costituzione ed il mantenimento della rendita.
Ovviamente la rendita presuppone la sussistenza del nesso causale tra la morte e l’infortunio o la malattia professionale, e la dimostrazione dell’evento morte medesimo.

Note:
(1) L’art 85 del DPR 1124/65 prevede: “Se l’infortunio ha per conseguenza la morte, spetta a favore dei superstiti sottoindicati una rendita nella misura di cui ai numeri seguenti, ragguagliata al cento per cento della retribuzione calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120:
1) il cinquanta per cento al coniuge superstite fino alla morte o a nuovo matrimonio; in questo secondo caso è corrisposta la somma pari a tre annualità di rendita;
2) il venti per cento a ciascun figlio legittimo, naturale, riconosciuto o riconoscibile, e adottivo, fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età, e il quaranta per cento se si tratti di orfani di entrambi i genitori, e, nel caso di figli adottivi, siano deceduti anche entrambi gli adottanti. Per i figli viventi a carico del lavoratore infortunato al momento del decesso e che non prestino lavoro retribuito, dette quote sono corrisposte fino al raggiungimento del ventunesimo anno di età, se studenti di scuola media o professionale, e per tutta la durata normale del corso, ma non oltre il ventiseiesimo anno di età, se studenti universitari. Se siano superstiti figli inabili al lavoro la rendita è loro corrisposta finché dura l’inabilità. Sono compresi tra i superstiti di cui al presente numero, dal giorno della nascita, i figli concepiti alla data dell’infortunio. Salvo prova contraria, si presumono concepiti alla data dell’infortunio i nati entro trecento giorni da tale data;
3) in mancanza di superstiti di cui ai numeri 1), e 2), il venti per cento a ciascuno degli ascendenti e dei genitori adottanti se viventi a carico del defunto e fino alla loro morte;
4) in mancanza di superstiti di cui ai numeri 1), e 2), il venti per cento a ciascuno dei fratelli o sorelle se conviventi con l’infortunato e a suo carico nei limiti e nelle condizioni stabiliti per i figli.
La somma delle rendite spettanti ai suddetti superstiti nelle misure a ciascuno come sopra assegnate non può superare l’importo dell’intera retribuzione calcolata come sopra. Nel caso in cui la somma predetta superi la retribuzione, le singole rendite sono proporzionalmente ridotte entro tale limite. Qualora una o più rendite abbiano in seguito a cessare, le rimanenti sono proporzionalmente reintegrate sino alla concorrenza di detto limite. Nella reintegrazione delle singole rendite non può peraltro superarsi la quota spettante a ciascuno degli aventi diritto ai sensi del comma precedente.
Oltre alle rendite di cui sopra è corrisposto una volta tanto un assegno di lire un milione al coniuge superstite, o, in mancanza, ai figli, o, in mancanza di questi, agli ascendenti, o, in mancanza di questi, ultimi, ai fratelli e sorelle, aventi rispettivamente i requisiti di cui ai precedenti numeri 2), 3) e 4). Qualora non esistano i superstiti predetti, l’assegno è corrisposto a chiunque dimostri di aver sostenuto spese in occasione della morte del lavoratore nella misura corrispondente alla spesa sostenuta, entro il limite massimo dell’importo previsto per i superstiti aventi diritto a rendita.
Per gli addetti alla navigazione marittima ed alla pesca marittima l’assegno di cui al precedente comma non può essere comunque inferiore ad una mensilità di retribuzione.
Agli effetti del presente articolo sono equiparati ai figli gli altri discendenti viventi a carico del defunto che siano orfani di ambedue i genitori o figli di genitori inabili al lavoro, gli affiliati e gli esposti regolarmente affidati, e sono equiparati agli ascendenti gli affilianti e le persone a cui gli esposti sono regolarmente affidati (1) (2) (3) .
(1) Articolo così sostituito dall’art. 7, l. 10 maggio 1982, n. 251.
(2) La Corte costituzionale, con sentenza 18 dicembre 1985, n. 360, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, nella parte in cui nel disporre che, nel caso di infortunio mortale dell’assicurato, agli orfani di entrambi i genitori spetta il quaranta per cento della rendita, esclude che tale rendita spetti anche all’orfano dell’unico genitore naturale che lo ha riconosciuto.
(3) A norma dell’articolo 3 del D.M. 31 luglio 2003 l’assegno di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° luglio 2003 e relativamente al settore industria, è fissato in euro 1.597,35.

(2) L’art. 106 del DPR 1124/65 testualmente prevede: “Agli effetti dell’art. 85, la vivenza a carico è provata quando risulti che gli ascendenti si trovino senza mezzi di sussistenza autonomi sufficienti e al mantenimento di essi concorreva in modo efficiente il defunto.
Agli effetti dell’art. 85, secondo comma del n. 1, l’attitudine al lavoro si considera in ogni caso ridotta permanentemente a meno di un terzo quando il vedovo abbia raggiunto i sessantacinque anni di età al momento della morte della moglie per infortunio.
Per l’accertamento della vivenza a carico l’Istituto assicuratore può assumere le notizie del caso presso gli uffici comunali, presso gli uffici delle imposte e presso altri uffici pubblici e può chiedere per le indagini del caso l’intervento dell’Arma dei carabinieri.
Gli uffici comunali debbono fornire agli Istituti assicuratori le notizie che siano da essi richieste in ordine alla vivenza a carico di cui all’art. 85 e debbono, altresì, rilasciare gratuitamente i certificati di esistenza in vita, gli stati di famiglia e gli atti di nascita ad essi richiesti dagli Istituti assicuratori medesimi o dai titolari di rendite, ai fini del pagamento delle rate di rendita”.

 

Sul termine per la presentazione della domanda

L’art. 122 del TU 1124/65 stabilisce che la domanda di costituzione della rendita ai superstiti deve essere effettuata entro i 90 giorni successivi alla data della morte.
La norma è stata portata al vaglio di legittimità da parte della corte Costituzionale che, con la nota sentenza nr. 14/1994, ne ha dichiarato la parziale incostituzionalità nella parte in cui non prevede che l’Inail, nel caso di decesso dell’assicurato, debba avvertire i superstiti della loro facoltà di proporre domanda per la rendita nelle forme e nei modi previsti dall’art. 85 T.U., nel termine decadenziale di 90 giorni decorrenti dalla data di avvenuta comunicazione.
Si tratta dunque di un termine avente natura decadenziale, decorrente dalla data della comunicazione Inail.
Parallelo al suddetto termine decadenziale, decorre quello ordinario triennale di prescrizione decorrente dal giorno della morte.
Particolari questioni, come nel caso di specie, sorgono nel caso in cui la morte dell’assicurato consegua a malattia professionale e non ad infortunio.
In questo caso, la decorrenza del termine triennale di prescrizione ex art 112 decorre dal momento in cui l’assicurato abbia acquisito la ragionevole certezza della sussistenza della malattia professionale, del superamento della soglia minima di indennizzabilità e che essa sia stata causa o concausa del decesso dell’assicurato.
Si richiede pertanto una oggettiva conoscibilità in ordine alla manifestazione della malattia professionale che di solito coincide con la diagnosi clinica operata ad es. dalla Clinica del Lavoro o dagli Enti Ospedalieri e quindi tale conoscibilità di fatto può intervenire successivamente al decesso dell’assicurato.
In tema di malattie professionali, anche per i superstiti dell’assicurato, perché possa esercitarsi l’azione per il conseguimento della prestazione INAIL loro spettante “iure proprio”, nella qualità, e quindi, perché possa iniziare il decorso della prescrizione, è indispensabile – non essendo ravvisabili a questo proposito situazioni differenti rispetto a quella dell’assicurato che rivendichi la rendita per inabilità – il realizzarsi di entrambi i requisiti previsti dalla relativa disciplina, e cioè la morte dell’assicurato e la conoscenza o conoscibilità da parte dei predetti superstiti, dell’eziologia professionale del decesso, la quale può non coincidere con la morte, ma essere raggiunta solo dopo di essa.
Tale interpretazione ha trovato puntuale riscontro anche nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, la quale ha recentemente affermato che “Il termine di prescrizione dell’azione diretta a conseguire la rendita da inabilità permanente per malattia professionale decorre dal momento in cui uno o più fatti concorrenti forniscano certezza dell’esistenza dello stato morboso o della sua conoscibilità da parte dell’assicurato, in relazione anche alla sua eziologia professionale e al raggiungimento della misura minima indennizzabile.
Il medesimo criterio va adottato anche ai fini della decorrenza del termine ordinario di prescrizione del diritto al correlato risarcimento del danno riconducibile all’art. 2059 cod. civ., trattandosi di situazione analoga e addirittura sovrapponibile” (1).

Note:
(1) cfr. sul punto Cass. Sez. Lav. nr. 10441 dell’8.5.’07; o ancora vedasi Cass. Sez. Lav. nr. 12734/’03: “Il diritto alla rendita in favore dei superstiti, di cui all’art 85 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, è soggetto alla prescrizione triennale prevista dall’art. 112 dello stesso decreto, e il relativo termine comincia a decorrere solo dal momento in cui l’avente titolo alla prestazione abbia la ragionevole certezza, desunta da elementi oggettivi di conoscenza, non solo dell’esistenza dello stato morboso, ma anche della sua eziologia e del raggiungimento della soglia indennizzabile”.

 

Prescrizione prestazioni Inail infortuni

Il diritto alle prestazioni si prescrive in tre anni dall’infortunio o dalla malattia professionale ai sensi dell’art. 112 Tu 1124/65 e la prescrizione si interrompe e si sospende secondo gli ordinari criteri generali.
La prescrizione triennale del diritto alle prestazioni previdenziali, previste in tema di infortuni e malattie professionali nel settore industriale, è sospesa durante la liquidazione in via amministrativa dell’indennità, la quale a norma dell’art 111 terzo comma del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, deve essere esaurita in un termine della durata massima di centocinquanta giorni; ne consegue che detta supposizione può essere inferiore a centocinquanta giorni quando il procedimento amministrativo si esaurisca più rapidamente.
Il principio secondo cui il “dies a quo” per la decorrenza del termine triennale di prescrizione di cui all’art. 112 del D.P.R. n. 1124 del 1965, coincide con il momento in cui l’assicurato abbia la ragionevole certezza della sussistenza della malattia professionale e del superamento della soglia di indennizzabilità, applicato all’azione diretta al conseguimento della rendita ai superstiti per malattia professionale, va inteso nel senso che il termine decorre dalla conoscenza (o oggettiva conoscibilità) da parte dei superstiti del fatto che la malattia professionale sia stata causa o concausa del decesso dell’assicurato (cfr. Cass. 4223/’02).
Nel giudizio promosso per il riconoscimento del diritto a rendita per malattia professionale o infortunio, la successiva richiesta di cumulo con la preesistente rendita per altro infortunio o malattia professionale non integra una “mutatio libelli”, costituendo il cumulo una conseguenza giuridica necessaria a norma degli artt. 80 e 132 del D.P.R. n. 1124 del 1965, derivante dal riconoscimento del carattere professionale della malattia, anche indipendentemente dalla domanda dell’interessato e senza alcun potere discrezionale dell’Istituto
Pertanto, non è ipotizzabile una prescrizione della facoltà di richiedere il cumulo, poiché l’istituto della prescrizione opera sui diritti e non sulle facoltà inerenti al diritto, potendosi invece prescrivere, nel termine triennale di cui all’art. 112 del citato D.P.R. n. 1124 del 1965, soltanto il diritto a chiedere la rendita per la nuova malattia professionale (cfr. Cass. Sez. Lav. nr. 5009/2002).

 

Fonti normative

Le principali norme in materia di riforma del sistema pensionistico sono:

  1. Legge 2.8.1990 nr. 233: ”Riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi”. Concernente la riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi, avviando l’omogeneizzazione della disciplina previdenziale tra lavoro autonomo e lavoro dipendente: calcolo della pensione con rendimento annuo del 2%, pari all’80 % per 40 anni di anzianità, sulla media dei redditi percepiti nell’ultimo decennio
  2. Legge 23.10.1992 nr. 421
  3. Legge 14.11.1992 nr. 438: “Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali”. Reca misure urgenti in materia di previdenza, sanità, pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali. Tale legge, in campo previdenziale, ha sostanzialmente riguardato i pensionamenti anticipati (nuove decorrenze e sospensione dei trattamenti per l’anno 1993), ma anche i pensionamenti in regime internazionale, la perequazione delle pensioni, norme procedurali in materia di azione giudiziaria, l’adeguamento contributivo. L’articolo 3 ter della legge 438/92 ha inoltre disposto che, a decorrere dal 1 gennaio 1993, è stabilita, in favore di tutti i regimi pensionistici dei dipendenti pubblici e privati che prevedano aliquote contributive a carico del lavoratore inferiori al 10%, un’aliquota aggiuntiva dell’1% sulle quote di retribuzione che superano la retribuzione massima pensionabile INPS (corrispondente per il 1998 a lire 64.126.000). Tale incremento si applica anche a carico dei lavoratori autonomi, in favore delle rispettive gestioni, sulle quote di reddito d’impresa eccedenti il limite innanzi indicato
  4. Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 “Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”
  5. Decreto Legislativo 11 agosto 1993, n. 374 “Attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera f), della legge 23 ottobre1992, n. 421, recante benefici per le attività usuranti”
  6. Legge 24.12.1993, nr. 537: “Interventi correttivi di finanza pubblica”. Concerne interventi correttivi di finanza pubblica. In materia previdenziale ha interessato, modificando in alcuni casi anche il decreto legislativo 503/92, la perequazione delle pensioni, l’integrazione al trattamento minimo, le pensioni di anzianità o anticipate, il cumulo tra pensioni di anzianità e redditi da lavoro dipendente e autonomo, l’iscrizione nell’Assicurazione generale obbligatoria per alcune figure professionali, l’indennità di disoccupazione in agricoltura
  7. D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 479 “Attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di riordino e soppressione di enti pubblici di previdenza e assistenza”
  8. Legge 23 dicembre 1994, n. 724 art 11: “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica di accompagnamento alla finanziaria 1995”. In materia previdenziale: ha accelerato l’innalzamento obbligatorio dell’età pensionabile per le donne a 60 anni e per gli uomini a 65 anni; ha inserito nella base pensionabile dei trattamenti dell’area pubblica la indennità integrativa speciale (IIS); ha apportato modifiche alle pensioni di reversibilità del settore pubblico; ha unificato l’aliquota di rendimento annuo al 2% a partire dal 1 gennaio 1995 per tutti i regimi pensionistici obbligatori; ha assoggettato a contribuzione la maggiorazione forfetaria del 18% della base pensionabile dei lavoratori statali; ha introdotto ulteriori modifiche al regime di pensionamento in convenzione internazionale.
  9. Legge 8 agosto 1995, nr. 335: “Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare”. Ha innovato radicalmente il sistema di calcolo della pensione a regime con l’introduzione del metodo contributivo, dettando al tempo stesso regole in materia di armonizzazione della normativa. Nel prospetto seguente si elencano, in ordine cronologico, i decreti legislativi attuativi della legge 335/95 in materia previdenziale, evidenziandone gli articoli ed i commi di riferimento nella legge, il contenuto sintetico ed il relativo provvedimento legislativo.
  10. Legge 27.12.1997 nr. 449: “Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”, di accompagnamento alla finanziaria 1998. Ha introdotto correttivi in materia di pensionamento di anzianità, di armonizzazione della normativa delle diverse gestioni previdenziali alla Assicurazione generale obbligatoria, di contribuzione, di perequazione delle pensioni, di separazione previdenza-assistenza.
  11. Legge 23 agosto 2004, n. 243: “Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria”
  12. Legge 24 dicembre 2007, n. 247 “Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale”; La nuova legge – in vigore dal 1° gennaio 2008 – si compone di un solo articolo e 94 commi; di questi, i primi due modificano lo “scalone” previdenziale introdotto dalla legge 243 del 2004, eliminando l’innalzamento a 60 anni dell’età minima prevista per l’accesso alla pensione di anzianità.

Con riferimento alle prestazioni erogate dall’Inail le principali fonti normative sono:

  1. DPR 30 giugno 1965, n. 1124 (G.U. n. 257 del 13 ottobre 1965 – Suppl. ord.) Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali;
  2. Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 “Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144”
  3. Decreto ministeriale 9 aprile 2008 (G.U. n. 169 del 21 luglio 2008) “Nuove tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura” in vigore il 22 luglio 2008